PORTARE PAZIENZA? MOLTO DI PIU’!
La fede cristiana è stata pensata e vissuta da molti come un esercizio di pazienza. Bisogna pazientare perché la vera vita è quella futura. Bisogna pazientare perché i credenti sono persone a modo, tranquille, che non scalpitano. C’è stato un tempo in cui la pazienza e la rassegnazione erano le virtù principali. E ancora oggi ci sono dei credenti che vivono la fede così. Ma in questo modo non dimentichiamo l’impazienza di Gesù, venuto a portare il fuoco sulla terra? In nome della pazienza non stiamo annacquando l’evangelo? Si potrebbe obiettare che nelle Scritture, soprattutto nelle lettere dell’apostolo Paolo, si parla di pazienza, si esorta ad essere pazienti. Vero. Ma come suona nella lingua originale quello che traduciamo con “pazienza”? La Parola ci sta dicendo proprio di pazientare o siamo stati noi a pensare così, e di conseguenza a tradurre così, in un certo senso piegando la parola biblica alla nostra visione rassegnata? Sono due i vocaboli che nelle nostre Bibbie vengono tradotti con “pazienza”. Il primo suona così: macrothymia. Anche chi non conosce il greco, sa che “macro” significa “grande. E macrothymia, alla lettera, vuol dire: “sentire in grande”. Ovvero avere uno sguardo ampio, che vada oltre il nostro piccolo “io”, oltre le piccole beghe nelle quali affondiamo (anche quelle di chiesa!). Sentire in grande significa non solo avere uno sguardo più ampio ma anche più profondo, in grado di andare oltre le impressioni del momento, capace di interrogarsi a fondo e di ricercare scintille di luce anche nell’insensatezza della cronaca quotidiana. C’è però un effetto collaterale a questo sentire in grande: quello di vedere anche il male lontano, il dolore di altri. Se sei troppo sensibile, soffri per tutto quello che succede. Non è meglio limitarsi a “sentire in piccolo”, gustando le gioie domestiche? Fuori c’è il grande freddo: stiamo al caldo, in casa nostra. Proprio per far fronte a questa obiezione le Scritture cristiane mettono in campo un’altra parola: ypomoné. Esprime il gesto di chi sceglie di stare sotto e, dal basso, prova a sostenere la situazione, senza arrendersi di fronte alle difficoltà e agli insuccessi. Non è come dire: pazienza, non c’è niente da fare! Questa sarebbe rassegnazione, proprio il contrario di chi non si arrende e continua a darsi da fare per sostenere ciò che sembra destinato a crollare. Più che pazienza qui è questione di perseveranza, di resistenza. È la tenacia di chi fa fronte all’inevitabile scoraggiamento perché le cose non vanno come dovrebbero andare.
Dobbiamo fare tesoro di queste due parole preziose, troppo frettolosamente tradotte con “pazienza”. In questo nostro mondo la Parola ci chiede di “sentire in grande”, di ampliare lo sguardo così da poter abbracciare la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo (Efesini 3,18). E ci domanda di non cedere alla tentazione (forte!) di arrenderci di fronte al male, di non farci affascinare da un pensiero catastrofico, che si lamenta che va tutto di male in peggio.
Ricordiamo le parole del pastore Bonhoeffer: “Ci sono persone che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore”.
E ancora:
“Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa, anche dalla più malvagia. Per questo egli ha bisogno di persone che si pongano al servizio di ogni cosa per volgerla al bene. Io credo che Dio in ogni situazione difficile ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno. Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in Lui e non in noi stessi”.
La pazienza evangelica non è un rassegnato “portare pazienza”; è il frutto maturo della speranza: “se speriamo ciò che non vediamo, lo aspettiamo con pazienza” (Romani 8,25).
IL MARE STA NELLA GOCCIA
«Che la goccia d’acqua si fonde con il mare lo sanno tutti, che il mare sta nella goccia lo sanno in pochi» (Ramana Maharshi).
C’è una profonda verità in questa affermazione. Ci sentiamo come una goccia nel mare dei problemi che affliggono le nostre esistenze e il mondo intero. È un sentimento che può avere due coloriture opposte: quella dell’impotenza, visto l’irrilevanza di una goccia rispetto alle dimensioni sterminate del mare; e quella del sentimento oceanico, ovvero di sentirsi parte del tutto, interconnessi con ogni essere vivente. Appartiene ad uno sguardo maturo e responsabile non semplificare la realtà, coglierne la complessità, così da non cadere nella trappola di giudizi frettolosi, di slogan che offrono certezze ma offuscano la vista. Come credenti sentiamo che questo sguardo allergico alle semplificazioni, ai giudizi sommari e moralistici è lo stesso sguardo di Gesù, capace di leggere il cuore al di là delle apparenze, di mostrare la profonda relazione che accomuna gli esseri viventi. Forse, una chiesa ha senso solo se prova ad essere una scuola in cui apprendere questa sapienza, sulla base di una Parola che non cede alla deriva della chiacchiera, che domanda di guardare il mondo con gli occhi penetranti e benevoli del suo Creatore.
Ma la forza d’urto dell’affermazione di Ramana Maharshi, un saggio indiano, sta nella seconda parte della frase, quando dice che il mare sta nella goccia, ovvero che ognuno di noi è fatto della stessa sostanza del mondo. Che le contraddizioni che vediamo negli altri le ritroviamo anche in noi. Che mentre deploriamo la guerra che fa strage di persone, ne assumiamo la logica, confliggendo con chi sentiamo differente, incapaci di prestare ascolto e promuovere un dialogo tra diversi. A quanti riferiscono a Gesù un tragico episodio di cronaca, l’uccisione di alcuni Galilei assassinati da Pilato, il Maestro di Nazaret offre non un commento o una presa di posizione sull’accaduto ma una domanda che li riguarda: «Pensate che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, perché hanno sofferto quelle cose? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo» (Luca 13,1-5).
Come guardiamo la storia? Come spettatori che applaudono o fischiano? Riceviamo in tempo reale un’infinità di informazioni, sappiamo quanto succede all’altro capo del pianeta, eppure tutto questo sapere non cambia niente, non fa sorgere in noi il desiderio di farci carico del male del mondo; solo commenti frettolosi e giudizi sommari. Sperimentiamo una conoscenza che genera ignoranza: sappiamo i numeri delle vittime ma non scorgiamo più i loro volti; li classifichiamo sotto la colonna dei nemici o degli amici, ma non prestiamo attenzione alle loro storie, come se non fossero persone come noi, come se in questo sguardo all’ingrosso ci tutelassimo dal sentirci coinvolti, dal sospetto che quelle vite non sono poi molto diverse dalle nostre.
Se almeno le tragiche notizie che ci giungono ogni giorno ci facessero da specchio per guardare più a fondo cosa si agita nell’abisso del nostro cuore! Se sentissimo che tutto quel dolore ci riguarda e, al posto del lamento, della chiacchiera e del giudizio, ognuno di noi provasse a chiedersi quale cambiamento posso operare nella mia vita affinché la logica dell’ingiustizia e della guerra non mi rubi l’anima!
Siamo una goccia e siamo il mare.
Back to school
Una domenica di qualche mese fa, durante la Santa Cena, mentre pensavo alla presenza di Cristo tra di noi, un pensiero si è affacciato all’improvviso: che voce avrà avuto Gesù? Anche nel mondo protestante, con le nostre chiese austere, prive di immagini, non possiamo essere immuni alla tensione artistica che per secoli ha cercato di raffigurare la presenza umana di Gesù, Dio fatto Uomo. Ma la sua voce? Io credo che sia stata irresistibile e potente, a volte perfino spaventosa, sicuramente per i suoi persecutori. Come mi sarebbe piaciuto ascoltarla… sarei stata capace di arrampicarmi su un sicomoro per sentirlo predicare? Sarei stata un puntino confuso nella massa di persone affascinate dalle sue parabole? Invece sono qui, in questo secondo millennio pieno di fuoco e fatica, gravato dal dolore e dalla confusione, mentre la terra che Gesù ha attraversato nei suoi anni tra gli uomini è devastata da un odio che sembra non avere fine né tregua. Non posso sentire la sua voce (come mi piacerebbe!) ma ho la Parola, un tesoro per la vita. E dopo la pausa estiva, in cui tutto sembra sospeso nella fatica dell’afa e nella ricerca di riposo e frescura, ci avviamo alla ripresa delle attività lavorative e sociali. Ricomincia la scuola, i ragazzi riluttanti si attrezzano per il necessario, i negozi offrono una varietà enorme di di oggetti e gadget utili (??) per tornare tra i banchi. Io, che a scuola ho trascorso lunghissimi anni, una cosa l’ho capita, che non ho nulla da insegnare ma voglio continuare ad imparare, fino all’ultimo dei miei giorni… E allora eccoci, si torna a scuola, ad ascoltare la voce del Maestro più dolce e più potente attraverso la Parola, un maestro che non si stanca mai della nostra scarsa comprensione, della nostra chiusura, della nostra difficoltà ad andare avanti. Nessuno può aspirare ad essere il primo della classe, siamo compagni e fratelli nell’avventura amorevole dell’ascolto. A me basta esserci, sentire la mia comunità presente, lasciare che a piccole gocce la Parola si faccia strada nella comprensione del mio cuore insieme a chi mi è vicino e prossimo su questo cammino. Non sono in grado di arrampicarmi sugli alberi, mi basta un posto anche laterale, anche defilato in un angolo, sono certa che la sua voce mi raggiungerà se il mio cuore sarà aperto ad accoglierla. Pronti dunque, si torna a scuola dal nostro Rabbuni’, per imparare la lezione infinita dell’amore fedele e immutabile di Dio. E se tante volte ci sentiremo stupidi, frustrati, lenti, perfino ottusi, niente paura, nessuno è lasciato indietro, si va avanti, semplicemente, con pazienza, umiltà e, perché no, con il coraggio di accettare l’amore, la forza e il sostegno che ci arrivano quando ci sentiamo perduti.
Concludo questa riflessione prendendo a prestito le parole di Ito Shintoku, un antico poeta giapponese:
“Plenilunio d’autunno:
illuminerà anche
delle nascite”.
Un haiku gentile che celebra l’autunno come se fosse una primavera, gravida di nuovi accadimenti. Il poeta parla del mondo naturale ma a me piace pensare che le stesse parole possano valere anche per noi umani… Che il Signore ci consenta di sperimentare molte nuove nascite in questa stagione che ci attende, e che siano sufficientemente illuminate da poterle scorgere, accogliere e renderne grazie.
ESSERE RISONANZA
“Non siate in ansia per la vostra vita… Guardate gli uccelli del cielo…”
(Matteo 6,25s).
“La vita quotidiana di una persona che vive in Occidente si concentra e si esaurisce sempre più nell’elaborazione di enormi liste di cose da fare: la spesa, la telefonata alla zia bisognosa di cure, la visita dal medico, il lavoro, la festa di compleanno, il corso di pilates – tutto uno sbrigare, procurarsi, eliminare, dominare, risolvere, fare”. Tipico del nostro mondo è “agire sempre in modo di aumentare ciò di cui possiamo disporre”. Il mondo – le cose, le persone – ci appare come “qualcosa da conquistare, da controllare, da avere a disposizione in fretta, in modo facile, efficiente, economico, sicuro”. Vogliamo disporre delle cose, la realtà deve essere a nostra disposizione. In altre parole, affrontiamo la vita con un atteggiamento aggressivo, per ottenere quanto ci serve. “Abitiamo un mondo calcolabile, controllabile, a portata di mano. Lo usiamo e non ci facciamo toccare, emozionare, trasformare: non entriamo in risonanza con la realtà, non le permettiamo di chiamarci, di stupirci, di mostrarci altri modi di abitare la terra. E così per molti il mondo, là fuori, è morto, grigio, freddo e vuoto; e dentro di me tutto è muto e sordo”.
In questo modo un importante sociologo contemporaneo, Hartmut Rosa, descrive la nostra contemporaneità.
Si può abitare diversamente il mondo? È possibile smettere questo modo strumentale di vivere le relazioni con le cose e con le persone e tornare a risuonare?
Forse, il tempo estivo ci offre un’occasione propizia per provare a fare diversamente, per coltivare l’ascolto e l’attesa. Non solo un ascolto programmato, per aggiornare le conoscenze; e nemmeno un’attesa di qualcosa che sentiamo l’esigenza di avere. Ma un ascolto di parole che non ci servono e non programmiamo; un’attesa senza un preciso oggetto. Del resto, nella vita, al di là dei nostri programmi stesi a tavolino, non funziona così? Lo dice lo scrittore Christian Bobin:
“La nostra attesa – di un amore, di una primavera, di un riposo – viene sempre soddisfatta di sorpresa. Come se quello che speravamo fosse sempre insperato. Come se la vera formula dell’attendere fosse questa: non prevedere niente, se non l’imprevedibile. Non aspettare niente se non l’inatteso”.
Proviamo a far tacere le nostre parole, a guardarci attorno, a fare attenzione a ciò che ci sembra insignificante. Svuotiamoci, almeno per un attimo, delle nostre idee, dei nostri pensieri e desideri e facciamo vuoto dentro di noi, lasciando la parola al mondo che incontriamo, ai casi della vita, alle persone sconosciute.
L’estate non è solo un tempo per ricaricare le pile, dopo un anno faticoso. Può diventare l’occasione per vivere momenti di meditazione silenziosa, in cui fare spazio ad una realtà indisponibile, non piegata ai nostri interessi e darle ascolto e risonanza. Un tempo di svuotamento, perché “difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei cieli” (Matteo 19,23).
LA NOSTRA PARTE
Che chiesa siamo? La Chiesa di Gesù è una, ma è un corpo composto di molte membra (1Corinzi 12), rappresentate dalle diverse confessioni cristiane, certo, ma anche dalle singole congregazioni. Chi siamo noi? Una chiesa di minoranza, composta da pochi membri di età adulta, che abitano in diversi territori e si ritrovano, soprattutto, per il culto domenicale. Difficile pensarci all’interno del corpo di Cristo come il braccio: altre chiese operano su molti fronti, testimoniando un amore concreto, in grado di rispondere alle urgenze del nostro tempo. Non siamo nemmeno la gamba, che si muove spedita verso nuovi territori, mossa da un impulso missionario e desiderosa di sperimentare altre forme della testimonianza cristiana. Se non suonasse troppo ambizioso, potremmo dire di essere un cuore che si espone all’ascolto della Parola. Altrimenti, un orecchio, che prova a lasciare risuonare la Parola, senza la preoccupazione del guadagno immediato. In un mondo in cui conta il risultato e la parola d’ordine è “crescita”, noi siamo una comunità inoperosa e dunque un’anomalia, come quando Dio domanda di vivere un anno giubilare (Levitico 25), in cui si lascia riposare la terra e l’affanno del risultato, del fatturato, viene sospeso. Intendiamoci: non è che non desideriamo crescere, poter camminare con anziani e giovani, figlie e figli, servi e serve, come il profeta Gioele (2,28s) descrive il popolo degli ultimi tempi, sul quale scende lo Spirito. Forse, dobbiamo pure confessare il nostro peccato di omissione nei confronti di quella creatività evangelica che desidera essere attrattiva, come una città posta sul monte (Matteo 5,14). In ogni caso, noi ora siamo questo piccolo gregge, che prova ad esporsi alla Parola, senza aver molto altro da offrire, se non questa anomalia che è la scommessa dell’ascolto.
Che ne sarà di noi? Finiremo con la scomparsa dell’ultimo dei Mohicani o sperimenteremo nuove fioriture? Non lo sappiamo. Non sappiamo come Dio intenda agire con noi. Sappiamo che l’essenziale è il Regno di Dio, il mondo come Dio lo vuole, nel quale fiorisca finalmente la vita buona. Rispetto al sogno del Regno di Dio la chiesa è solo un mezzo. Ma – sia consentita una battuta – per noi la chiesa è più che un mezzo: è almeno tre quarti! Essere chiesa è un dono, una grande opportunità per uscire dalla solitudine e vivere insieme la fede. Piccoli, fragili, ma grati per il dono di poter essere una comunità. Piccoli, inutili, ma innamorati: con occhi stupiti vediamo Dio all’opera in questa storia lacerata e nelle nostre fragili vite. E dunque non temiamo il futuro perché sappiamo che è nelle mani di Dio, mani forti per sostenerci, mani dolci per accarezzarci…
Siamo affezionati alla nostra chiesa ed è proprio per questo che proviamo a capire quale sia la nostra parte. Non per guardarci addosso: la domanda ultima, per chi segue Gesù, non è “chi siamo” ma “per chi siamo”. Tuttavia, dobbiamo avere un’idea su quale sia la nostra parte nel favorire la vita buona per tutte e tutti. Forse, possiamo pensarci come un “cuore pensante” che, con una consapevolezza sempre più profonda, sente di dover battere al ritmo della Parola, l’unico tesoro a cui attingere; e sulla forza di quella Parola continua a scommettere, perseverando nell’ascolto, senza che la preoccupazione per risultati immediati ci renda tesi, nervosi, fino a mettere in discussione la nostra vocazione essenziale.
Noi siamo questo, solo questo. E al di là delle diverse diagnosi che provano a spiegare come mai siamo questo – per colpa nostra, per il trend sociologico, per circostanze che ci sfuggono – siamo chiamati a fare di necessità virtù, coltivando in questo terreno impervio il fiore gratuito e in-utile dell’ascolto di una Parola altra, decisamente poco redditizia, al limite dello spreco. Essere un orecchio aperto, un cuore pensante, ostinatamente esposto alla Parola, pronto ad accogliere le sorprese di Dio. Come la prima comunità cristiana (Atti 2,42), perseveriamo nell’ascolto della Parola, senza sapere dove ci condurrà. Insieme a Salomone (1Re 3,9), invochiamo un cuore in grado di ascoltare. E al seguito di Pietro (1Pietro 3,15), proviamo a mostrare, con tutta l’intelligenza e la creatività di cui siamo capaci, la bellezza di questa Parola di vita.
NELL’ORA PIU’ BUIA
Quando è troppo grande lo sconforto per quanto sta accadendo in questo nostro spietato mondo, quando i pensieri si ingarbugliano, forse, aiuta distogliere lo sguardo dal quotidiano e orientarlo verso opere letterarie che provano ad aprire fessure di luce in mezzo alle tenebre. Come questa pagina di Vasilij Grossman, tratta dal romanzo Vita e destino. Il racconto mette in scena i prigionieri nazisti, impiegati per trasportare i cadaveri dei caduti.
“Quella volta l’ufficiale e il soldato uscirono dal sotterraneo con un passo leggermente più deciso: il carico era leggero. Sulla barella c’era il corpo di una ragazza, un’adolescente. Il cadavere era tutto raggomitolato, rinsecchito, e solo i capelli chiari e arruffati erano ancora belli come il grano e fluidi come il latte, sparsi intorno al viso orrendo e scuro di quell’uccellino ferito a morte. Un sospiro si levò fra la folla. Poi toccò al grido lancinante della donna tarchiata, e fu come se una lama avesse lacerato l’aria fredda. «Bambina! Bambina mia! Tesoro adorato!». Quell’urlo per un figlio che non era il suo scosse la folla.
La donna si diede a sistemare intorno al viso del cadavere quei capelli che conservavano l’arricciatura. Fissava quel viso, la bocca storta, impietrita, e insieme all’orrore vedeva anche – come solo una madre può fare – il viso vivo e amato che un giorno le aveva sorriso dalle fasce. La donna si rialzò e andò verso il tedesco. La videro tutti: lo fissava, e intanto i suoi occhi cercavano un mattone che il gelo non avesse incollato per sempre ad altri mattoni, un mattone che la sua grossa mano deformata dal troppo lavoro, dall’acqua troppo fredda o troppo calda e dalla candeggina potesse staccare. La sentinella capì che stava per accadere qualcosa di inevitabile, capì di non poter fermare una donna che era più forte di lui e della sua mitraglia. I soldati tedeschi non riuscivano a distogliere lo sguardo, i bambini la fissavano impazienti. Intanto la donna non vedeva altro che il viso del tedesco con il fazzoletto sulla bocca. Senza capire cosa le stesse succedendo, portatrice e vittima di una forza che aveva soggiogato a sé ogni cosa, la vecchia cercò tentoni nella tasca della giacca un pezzo di pane che un soldato le aveva regalato il giorno prima, lo porse al tedesco e disse: «Tieni, mangia».
Sarebbe stata la prima, poi, a non capire come fosse successo e perché. Nelle ore peggiori dell’umiliazione, dell’ira e dell’impotenza – e ce n’erano state tante nella sua vita… – la rabbia non la faceva dormire. Una notte, rigirandosi nel letto arrabbiata e nervosa, ripensò a quella mattina d’inverno. Scema ero e scema rimango, si disse”. (V. Grossman, Vita e destino, Adelphi, Milano 2008, pp. 764-767)
Siamo abitati da forze che non sempre riusciamo a controllare. Forze violente, come la rabbia e il desiderio di vendetta; ma anche forze che ci spingono a compiere gesti d’umanità mentre imperversano progetti disumani. “E’ dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri” (Marco 7,21). Nell’ora più buia a noi spetta non disertare la battaglia del cuore.
PASQUA: INCIAMPARE NELLA SPERANZA
“Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?” (Marco 16,3). La domanda che si fanno le donne, la mattina di Pasqua, mentre vanno al sepolcro, è la stessa che ci poniamo anche noi. Con una differenza, però: noi continuiamo a farcela anche dopo aver udito l’annuncio della resurrezione. Noi, certo, gioiamo per questa lieta notizia che, dopo due millenni, ancora risuona alle nostre orecchie come parola di salvezza, come luce per occhi condannati ad inquadrare panorami oscuri. La Pasqua di Gesù è il cuore della nostra fede. Noi crediamo nel Dio che toglie le pietre e mostra che un’esistenza come quella vissuta da Gesù non può essere vinta dalla morte. Ma nello stesso tempo continuiamo a scorgere un panorama di sepolcri sigillati. Vediamo attorno a noi un’umanità che soffoca sotto la pesante pietra delle guerre, delle ingiustizie. E dunque? L’apostolo Paolo ci dice che “siamo stati salvati in speranza” (Romani 8,24). La speranza non è il lieto fine che il copione cristiano, quasi in automatico, pone a conclusione di tutte le vicende storiche. La speranza che possano essere tolte le pietre dai tanti sepolcri non è un appello retorico, l’ultima arma spuntata da opporre al disastro. Alla tentazione della semplificazione, che prova a sedurci in questo mondo troppo complesso, dobbiamo sottrarci; e cercare di mettere in campo tutta la sapienza di cui siamo capaci per non offrire frutti di plastica che non nutrono.
Che cos’è la speranza? Nella lingua delle Scritture, si dice “tikvà”: una parola derivata dalla radice “kav”, da cui viene anche il vocabolo italiano “cavo”. Per la sapienza biblica, la speranza non è il momento felice finalmente giunto. È un processo, una corda che abbraccia passato, presente e futuro, la linea di un orizzonte di senso, da seguire lungo l’intera esistenza. Franz Kafka, nel primo dei suoi aforismi di Zürau, scrive: “La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa”. Da sempre parte del vocabolario delle rassicurazioni, quale corda offerta alle nostre mani per procedere con sicurezza anche lungo camminamenti pericolosi, la speranza in realtà è uno “scandalo”, corda su cui inciampare, elemento imprevedibile che ci costringe a fermarci, impossibilitati a procedere spediti lungo i sentieri conosciuti. È il sospetto che la vita potrebbe essere diversa e il mondo abitato altrimenti. I cristiani sperano “contro speranza”, ci dice ancora l’apostolo Paolo (Romani 4,18). Osano credere nel Dio della vita mentre attendono – faticando a scorgerne i germogli – che si compia la promessa di “nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia” (2Pietro 3,13).
La speranza è l’irruzione di un mondo sottosopra che noi neppure riusciamo ad immaginare. Ci vuole un’intera vita per diventare persone “pasquali”, che vivono all’insegna di questa speranza in una storia che moltiplica i sepolcri; persone che costruiscono le loro esistenze sulla roccia della fede e non su quella posata dai potenti, che chiude le vite in tombe mortifere.
Mentre provo a formulare questi pensieri, mi giunge il messaggio whatsapp che riporto qui di seguito: “Un fuoco inizio ha da una piccola scintilla… È quello che mi è successo a febbraio dopo un lungo periodo di inattività. Ho iniziato a lavorare in un nuovo posto su chiamata, in una scuola. Poi ho trovato un altro piccolo lavoro di accompagnamento da scuola a casa di due sorelline. Certo, è solo un piccolo inizio, ma sono contenta che Dio non si è scordato di me”. Qualcuno potrebbe obiettare: è solo un caso fortunato. Forse, come ha scritto Michel Tournier, “il caso è Dio che passa in incognito”.
Nella notte di una terra ridotta a cimitero scorgiamo delle lucciole, piccole scintille di speranza. Mi tornano in mente le parole di Montale:
“La luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità”.
Il giallo dei limoni, il colore di una scintilla, lo splendore inaspettato della Pasqua, mentre i cuori continuano a gelare.
A noi spetta scorgere la luce che esce dal malchiuso portone, accorgerci e custodire le piccole scintille che annunciano un fuoco in grado di illuminare le nostre tenebre. E non solo custodire le scintille che ci capitano ma anche accenderle, coltivarle. Senza dimenticare, però, i troppi viventi ancora ridotti a “polvere sugli stivali della Storia” (Hegel).
Pasqua è la chiamata ad assolvere il compito di tenere vive fragili scintille che facilmente si possono spegnere, non solo per mano altrui ma anche per nostra incuria. A Pasqua ci è chiesto di dare credito all’inedito di Dio, e di farlo anche in nome di chi giace ancora nei sepolcri. Nonostante tutto, a dispetto di questa nostra storia crudele. Osando ritenere l’inciampo su quella corda come un’inaspettata benedizione.
DI FRONTE ALLA FOLLIA DELLA CROCE
Un’altra pasqua. Quante ne abbiamo già vissute? Intendo dire, quante volte abbiamo ricordato gli ultimi giorni della vicenda terrena di Gesù. Perché, quanto a viverla, è tutt’altro affare. Viverla sulla propria pelle, in modo che lasci il segno, che ci renda persone “pasquali”. Ma è proprio quest’ultima impossibile realtà ciò di cui parlano i racconti evangelici, per i quali la Pasqua di Gesù vuole diventare la nostra Pasqua. Impossibile, così a noi sembra. E proprio per questo ci limitiamo al ricordo di quanto un altro ha vissuto, al rito stanco delle ricorrenze del calendario. Come se l’evangelo potesse essere contenuto tra le maglie strette della gabbia del ricordo. Come se bastasse dire: io lo conosco quell’uomo che è stato messo a morte dai potenti di questo mondo ed è stato risuscitato da Dio. Io credo in lui. Forse, è più onesto Pietro che dice: “non lo conosco”. Perché non si tratta di una credenza mentale e delle parole giuste per esprimerla. “Lo spazio del Vangelo sorge quando questa Parola si fa viva, quando arriva ad interpretare il momento in cui parla, e non attraverso riferimenti ad un passato, per quanto venerato, ma attraverso un’anticipazione eroica, dove la memoria dell’ascolto si trasmuta interamente in potenza di generare il nuovo” (M. Bellet).
Sarà mai possibile una simile fede? Si potrebbe almeno provarci. Per questo le chiese si sono inventate un tempo per chiedersi seriamente se si vuole osare tanto, per capire come aprirsi ad un “camminare in novità di vita” al seguito di Gesù, il Messia crocifisso e risorto. Nei 40 giorni che precedono la Pasqua, detti Tempo di passione o Quaresima, i cristiani hanno provato a svolgere questo esercizio battendo numerose strade: riservando del tempo per la preghiera, compiendo gesti di solidarietà, astenendosi dal superfluo, vivendo esperienze comunitarie… Una sapienza pratica che, lungo i secoli, è stata anche fraintesa e ridotta a opere meritorie, ma che sarà meglio non liquidare con un’alzata di spalle. Perché occorre prepararsi, coltivare l’attesa, se si desidera aprirsi alla novità di Dio: i giochi si fanno prima, non al momento. In questo nostro tempo disorientato, ne basterebbe uno: prendersi del tempo per guardare a Gesù messo in croce e farlo come se fosse la prima volta. Lo so che non può essere la prima volta e che il nostro sguardo sarà comandato dalle idee che ci siamo fatti di quella vicenda. Immagino che ognuno abbia maturato una sua spiegazione, espressa con alcune parole-chiave: sacrificio, obbedienza, amore, momentanea sconfitta subito riscattata dall’intervento divino… Proviamo per una volta a metterle in stand-by, a stare al gioco del “come se”. Cosa sento – prima ancora di cosa penso – di fronte a quell’uomo che ha compiuto prodigi, che ha detto parole luminose e che, alla fine, è stato appeso ad una croce, come il peggiore degli assassini? Cosa provo di fronte a quella scena “come se” fosse la prima volta che la guardassi? Si tratta di un esercizio serio, che non deve censurare nessuno dei pensieri che affiorano alla mente, nessun sentimento, sia pure di rabbia o di sconcerto. Conta solo non lasciare appannare i nostri occhi dall’abitudine di un’immagine che riteniamo di avere già vista e compresa. Conta tornare a lasciarsi inquietare da quest’uomo che muore come un fallito e da questo Dio che si presenta come il contrario di quanto da sempre l’umanità ha pensato del divino. Conta solo non barare, evitando di fare della resurrezione l’escamotage per attutire lo scandalo della croce. È l’impensabile, qualcosa di irragionevole, che per inerzia continuiamo a proclamare, ma a cui non sappiamo dare più un senso? O è l’impensato, un nuovo sguardo sulla vita che, appunto, ci sfida a prenderlo in considerazione?
Dunque, un solo esercizio per questo tempo: tornare ad interrogarci sul Messia crocifisso, su quanto la scena del Golgota suscita al nostro sguardo. E poi ricerchiamo nei racconti evangelici cosa hanno provato e pensato i discepoli e le discepole della prima ora; la loro fuga insieme al ritornare sui loro passi; come sono giunti ad affermare che proprio in quella esistenza finita con quella morte ha preso forma la vita buona sognata da Dio per noi, vita più forte della morte?
Facciamolo mettendo da parte le risposte facili della religione che cerca i miracoli e quelle della filosofia che cerca la sapienza: torniamo a fare i conti con lo scandalo e la pazzia della croce (1Cor.1,22-23).
LA MIA PARTE
C’è un detto della sapienza ebraica, attribuito ad un certo rabbi Tarfon, che trovo illuminante per il nostro presente. Recita così: “Non spetta a te compiere l’opera ma non sei libero di sottrartene” (Pirqè Avot 2:21). Chi di noi non sperimenta una triste impotenza di fronte al surriscaldamento del pianeta, che provoca povertà e costringe milioni di esseri umani a cercare altrove un posto in cui vivere? E di fronte agli orrori delle guerre, non ci ritroviamo ad essere spettatori allibiti di inutili stragi? Se in altre stagioni abbiamo coltivato la speranza di cambiare il mondo, di renderlo un luogo più abitabile e meno ingiusto, oggi siamo pervasi dalla delusione, che rende alcuni rassegnati ed altri arrabbiati. Le parole di rabbi Tarfon ci invitano ad uscire dal delirio di onnipotenza, dal pensiero ingenuo che possiamo salvare il mondo, eliminando il male e promuovendo definitivamente il bene. Noi possiamo desiderare che fiorisca la vita buona sulla terra e compiere la nostra parte; ma non spetta a noi dare compimento a questo sogno.
Un altro maestro, Epitteto, espressione della sapienza greca, diceva: “La realtà si divide in cose soggette al nostro potere e cose non soggette al nostro potere”. Una distinzione utile per non girare a vuoto e, nello stesso tempo, per non fare dei nostri limiti la scusa per astenerci da ogni tipo di azione. Eppure, queste precisazioni sembrano in grado di convincere solo la mente, meno il cuore, in preda allo sconforto. Se non posso “compiere l’opera”, se le decisioni dei potenti, quelle che cambiano il volto della storia, “non sono soggette al nostro potere”, allora non vale la pena darsi da fare. Se il mio agire risulta irrilevante, se le mie scelte non scalfiscono la superficie della storia, allora meglio lasciar perdere e smettere di nutrire sogni di cambiamento. Non siamo un po’ tutti immersi in questo clima? Non sentiamo di correre il rischio di sprofondare nel pantano dell’impotenza e dell’inerzia? Ebbene, proprio qui si situa la lotta decisiva, quella che prova a resistere alla tentazione di lasciar perdere tutto. Contrastare la rassegnazione, per continuare a fare la nostra parte. Non è quanto ci dice la Scrittura? Il Regno è di Dio, ovvero il mondo come Dio lo vuole, non siamo noi a realizzarlo; eppure, il Regno è già in mezzo a noi e noi, con le nostre scelte, ci avviciniamo o ci allontaniamo da esso. “Non sei libero di sottrartene”, poiché certe cose sono in tuo potere. Ed il nemico è chi ti convince che non puoi farci niente, che è più saggio mollare il colpo e rassegnarsi allo stato di cose presente. Parafrasando un detto di Gesù (Matteo 10,28), non è vero nemico colui che uccide il corpo, bensì chiunque e qualunque cosa riesca a intaccare e sfiancare le forze spirituali dell’essere umano, la sua fede, il suo coraggio, le sue passioni. Chi ci rende cattivi, dubbiosi, scoraggiati, chi dice che tutto è inutile – questi è il vero nemico. Una chiesa ha il compito di continuare a credere, incoraggiando, motivando, sostenendo, attingendo forze da quel Dio che non smette di credere in noi e dalla sua Parola che ci apre alla fiducia e rischiara i nostri passi. Una chiesa deve seminare anticorpi per resistere alla rassegnazione; e deve farlo con convinzione. “Il termine ‘con-vinzione’ dice proprio che si tratta di una ‘vittoria’ su tutti i messaggi negativi che attraversano un’esistenza: vittoria che, come suggerisce la parola col suo prefisso ‘con’, necessita del concorso di altre persone; ma vittoria anche che nessun altro può ottenere al mio posto” (C. Théobald).
VIVERE A PIENO
Sei bella – dico alla vita –
È impensabile più rigoglìo,
più rane e più usignoli,
più formiche e più germogli.
Cerco di accattivarmela,
di blandirla, vezzeggiarla.
La saluto sempre per prima
Con umile espressione.
Le taglio la strada da sinistra,
le taglio la strada da destra,
e mi innalzo nell’incanto,
e cado per lo stupore.
Quanto è di campo questo grillo,
e di bosco questo frutto –
mai l’avrei creduto
se non avessi vissuto!
Non trovo nulla – le dico –
A cui paragonarti.
Nessuno ha fatto un’altra pigna
Né migliore, né peggiore.
Lodo la tua larghezza,
inventiva ed esattezza,
e cos’altro – e cosa più –
magia, stregoneria.
Mai vorrei recarti offesa,
né adirarti per dileggio.
Da centomila anni almeno
Sorridendo ti corteggio.
Tiro la vita per una foglia:
si è fermata? Se n’è accorta?
Si è scordata dove corre,
almeno per una volta?
(Allegro ma non troppo, Wisława Szymborska)
“Gennaio è il lunedì dell’anno…”, lo diceva mestamente una collega di tanto tempo fa, parlando della fatica e dello scarso entusiasmo di ricominciare a lavorare dopo i giorni delle feste .
Eppure ogni inizio d’anno porta con sé un piccolo brivido di ignoto, una scintilla di speranza per cose belle e buone da vivere che evochiamo nel tintinnio dei nostri brindisi beneauguranti.
Ma, prima di aprirci a ciò che arriva, accertiamoci di aver salutato ciò che è stato… cosa abbiamo imparato? Quali benedizioni ci hanno toccato? Cosa ci ha fatto soffrire? Quante volte abbiamo dovuto ammettere sconfitte e fallimenti?
Guardiamo il film del nostro anno trascorso e proviamo a fare pace con ciò che ancora ci agita il cuore, proviamo a perdonarci le nostre mancanze, perché tutta la lotta è dentro di noi…l’infinita bontà di Dio, inafferrabile per le nostre menti, è già intervenuta nelle nostre vicende umane, anche e soprattutto nella nostra inconsapevolezza, ora tocca a noi farci carico di ciò che viviamo, giorno per giorno. Dunque iniziamo provando ad essere grati per tutta la vita che abbiamo vissuto, così potremo salutare l’anno passato e volgerci a guardare avanti con cuore aperto.
E, nella stagione dei buoni propositi, impegniamoci nel proposito più grande, vivere a pieno. Perché questo è il dono che ci è stato fatto, vivere i giorni che ci sono stati dati senza sprecarli, ricordandoci che la Grazia ci accompagna ad ogni passo, anche e soprattutto quando i giorni ci sfidano, quando ci sembra di non farcela e poi scopriamo ancora una volta di non essere mai stati soli. Il nostro compito è danzare la vita che ci è stata donata così come ci ha insegnato il nostro Maestro amato, anche quando la pioggia diventa tempesta e fa paura, anche quando siamo tristi e confusi dagli echi del mondo…perché questo è ciò che ci è stato dato: vivere e onorare i nostri giorni, in questa vita, in questo tempo, in questa storia umana che ci disorienta e ci interroga continuamente.
E, magari, ognuno di noi può trovare il suo modo, unico e speciale , per ricordare ogni giorno di celebrare danzando questa vita e il mistero divino che l’accompagna…
Per questo anno che inizia auguro a tutti noi che il Signore ci dia il coraggio per guardare la vita negli occhi e la forza per andarle incontro con fiducia.
Elisabetta Lo Sardo Bianchi
NATALE 2023. COME UN ATOMO SULLA BILANCIA
“Come ti senti? Come un atomo sulla bilancia!”. L’immagine usata da un amico – dal sapore biblico peraltro: la usa anche il Salmo 62 – suggerisce l’irrilevanza, l’impotenza e la conseguente depressione che molti di noi provano in un mondo che va sempre più veloce e che lascia dietro di sé molte macerie e tanta disperazione. Siamo spettatori di guerre, disastri ambientali, comportamenti cinici di chi è privo di pietà, preoccupato solo del proprio personale interesse. Di solito lo spettacolo lo osserviamo a distanza. Eppure tutto quel male che vediamo insorgere nel mondo, altrove, avvelena anche noi e ci getta sovente nella disperazione. Ci pesa il limite, l’impossibilità di far andare il mondo come vorremmo. E nello stesso tempo non per questo viene meno quel desiderio, che è la sostanza stessa del Natale. Anche (soprattutto!) di quello “commerciale”. L’’astuzia della pubblicità sa di dover puntare sul desiderio e per questo vende simboli: non vende automobili ma prestigio, non vende detersivi ma purezza, non vende la casa ma comfort; vende la dignità delle tue proprietà, della tua libertà, della tua padronanza di te e funziona benissimo. Ci chiediamo, però: è tutto qui? Se le Scritture ci hanno educato a “sentire in grande”, ci viene da dire: guarda che si tratta solo di un’automobile e basta. Ma al tempo stesso dobbiamo accettare la lezione che deriva da tutto questo: il fatto cioè che il desiderio non smette di desiderare, che continua ad aprire strade, per quanto possano poi rivelarsi sentieri interrotti. Non si vive solo stando ai fatti ma di verità che hanno un’attrazione simbolica, capaci di ridestare affetti, di spingere il nostro sguardo più in avanti. Che si tratti della meraviglia per regali ricevuti e donati o che sia la stupore per un Dio che sceglie di condividere la nostra umanità, ritenendoci preziosi, in gioco c’è quel desiderio che nessuna ragione cinica riesce a far tacere.
Ma affinché il desiderio non sia l’illusione di un momento, il frutto fragile di un solo giorno in cui rimuoviamo l’aspetto drammatico della nostra storia, allora dobbiamo anche fare i conti con il limite. Anch’esso è ingrediente natalizio, o almeno del Natale cristiano: in Gesù Dio abbraccia la vita tutta, che è desiderio e limite. Come ha scritto José Tolentino Mendonça:
“Arriverà il momento in cui capiremo che la sapienza sta nell’amare tutto: salutare i giorni senza dimenticare l’importanza delle ore; contemplare i grandi torrenti senza smettere di ringraziare ogni goccia di rugiada; amare il pane, senza però dimenticare il sapore delle briciole. Arriverà l’occasione di capire che l’importante non è solo narrare il viaggio, ma testimoniare anche il contributo dei passi; lodare non solo la meta, ma il contributo di ogni tappa, soprattutto quando abbiamo dubitato che il cammino portasse da qualche parte. Verrà il tempo in cui saremo attenti a saziarci della fonte, ma anche della sete; a illuminarci negli incontri, ma anche nell’attesa; a meravigliarci allo stesso modo con la bisaccia piena come con le mani vuote. Verrà il momento di raccomandare al nostro cuore di abbracciare, con identico amore, le stagioni promettenti e quelle deludenti; la chiarezza del discernimento e la previa confusione dei nostri vicoli ciechi; la bellezza inaugurale dell’alba e le ferite senza risposta che ci lacerano con l’acciaio del crepuscolo. Verrà il tempo in cui ascolteremo con la stessa naturalezza il passaggio di Dio nella parola come nel silenzio; e lo riconosceremo nell’integrità e nella vita che si spezza; e avvertiremo la sua vicinanza all’apice della consolazione e nella nudità più estrema; nel rifugio del giardino e nelle vulnerabilità in cui ci perdiamo”.
Viviamo la memoria del Natale di Gesù come persone che fanno i conti con il caso serio del desiderio e del limite; facendo della fede una sorgente di passioni, che alimenta il desiderio della vita buona proprio in questa storia fragile e ambigua, una storia che Dio continua ad abbracciare. Lui, il Dio-con-noi, è la bilancia in cui il nostro atomo ritrova lo slancio per aggregarsi ad altri atomi, per dare forma alla vita, incessantemente, con tenacia divina.
SULL’USO DELLE PAROLE
Che esperienza facciamo del mondo? Abbiamo informazioni in tempo reale su quasi tutto. Dico “quasi”, perché sappiamo che le telecamere non riprendono tutto, che ci sono posti dimenticati, irrilevanti. Di recente, il terremoto in Afghanistan, con migliaia di vittime, non ha avuto nessuna attenzione. L’informazione è sempre selettiva: fa vedere solo quello che vuole che si guardi. Da sempre succede questo. Tuttavia, è vero che oggi possiamo usufruire di maggiori informazioni che in passato. Nei tempi antichi bisognava raccogliere le notizie viaggiando. Oggi lo possiamo fare stando seduti nella poltrona del nostro salotto. Su schermi più o meno grandi compaiono immagini di quanto sta succedendo a migliaia di chilometri di distanza, accompagnate da parole che interpretano quelle immagini. E noi, con fare mimetico, guardiamo quelle immagini e le commentiamo. Siamo spettatori che reagiscono dicendo delle parole. Commentiamo, esprimiamo dei giudizi, discutiamo e critichiamo le interpretazioni che non ci piacciono. Lo facciamo in modo civile o facendoci prendere dallo spirito delle tifoserie. In ogni caso, siamo spettatori e soggetti di parola. La nostra esperienza del mondo è fatta di parole. Parole ascoltate e dette. Parole moltiplicate, praticamente fuori controllo. Lo sappiamo e proprio per questo cerchiamo, a volte, di minimizzarle: “sono solo parole…”. Eppure, questa parola così inflazionata, ritenuta irrilevante, è proprio lei a costituire la sostanza delle nostre vite. Non è vero che contano solo i fatti. Sono le parole a mostrare come diciamo il mondo, quale esperienza ne facciamo, che persone siamo.
Nei nostri giorni assistiamo a terribili guerre, crisi ambientali, impoverimento di intere popolazioni, palesi ingiustizie, morti sul lavoro, femminicidi… Tragedie che dovrebbero far morire le parole in bocca, spingendoci piuttosto a pensare a fondo le cause di quei drammi e a chiederci come possiamo spendere i nostri due spiccioli per arginare le acque della violenza e della sopraffazione. Ci sentiamo impotenti, è vero. Ma allora perché la medesima impotenza non tocca il nostro parlare? Perché ci lasciamo trascinare dal chiacchiericcio, dal commento compulsivo su tutto e tutti? Le Scritture ci richiamano con forza a coltivare un’etica della parola. Non è questione di avere un linguaggio “politicamente corretto”: è in gioco il nostro abitare la terra con fede, la nostra vocazione ad essere “a immagine e somiglianza” di un Dio che con la parola ha creato un mondo bello e buono. Chi si dice cristiano ha una grande responsabilità, in quanto ha fatto un’altra esperienza della parola. Che cosa sono la preghiera, il culto, lo studio biblico, se non una scuola di educazione ad un uso attento e generativo della parola? Dimmi come parli e ti dirò chi sei, che credente sei!
Proprio nello studio biblico stiamo leggendo la Lettera di Giacomo, che richiama con forza la nostra responsabilità nel parlare. E, a commento delle parole dell’apostolo, abbiamo condiviso il “Manifesto della comunicazione non ostile”. Partiamo da qui per cercare di dire parole responsabili:
1. Virtuale è reale. Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.
2. Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.
3. Le parole danno forma al pensiero. Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quello che penso.
4. Prima di parlare bisogna ascoltare. Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
5. Le parole sono un ponte. Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.
6. Le parole hanno conseguenze. So che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.
7. Condividere è una responsabilità. Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati e compresi.
8. Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare Non trasformo che sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.
9. Gli insulti non sono argomenti. Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.
10. Anche il silenzio comunica. Quando la scelta migliore è tacere, taccio.
A SCUOLA DAI PROFETI
Il nostro tempo non ama i profeti. Preferisce gli apocalittici, quelli che predicano la fine imminente, che decretano la condanna definitiva di questo mondo sbagliato. E accoglie con favore gli spiritualisti, che al pari degli apocalittici disprezzano il mondo e si concentrano sull’anima, sulla coltivazione di un’interiorità al riparo dalle beghe delle vicende umane. Noi viviamo una fede che ha perso il mondo, che si gioca al riparo della storia. Tra il tempio e la strada abbiamo scavato un fossato, segnato un confine. Per questo non amiamo i profeti, perché la loro fede si misura con le vicende umane, con i nodi storici di una generazione. Lasciamo perdere quella definizione superficiale, banalizzante che fa del profeta l’uomo con la sfera di cristallo, il mago che prevede il futuro. Nella Bibbia il profeta è il portavoce di Dio, una persona che mette alla prova della storia quella parola. Emblematica la scena in cui Geremia, su ordine di Dio, si mette alla porta del Tempio e rimprovera quelli che vi entrano: Ecco, voi mettete la vostra fiducia in parole false, che non giovano a nulla. Voi rubate, uccidete, commettete adulteri, giurate il falso, offrite profumi a Baal, andate dietro ad altri dèi che prima non conoscevate, e poi venite a presentarvi davanti a me, in questa casa sulla quale è invocato il mio nome. Voi dite: ‘Siamo salvi!’ Perciò commettete tutte queste abominazioni (Geremia 7,8ss). Laddove la vita smentisce la parola ricevuta da Dio, quella parola che pure si ascolta nel luogo santo, di cui a voce si dice di credere, ecco che compare in scena il profeta, pronto a smontare quello scenario di cartapesta fatto di gesti religiosi, di parole solenni, di certezze intoccabili, denunciando l’incoerenza e l’ipocrisia di chi si professa credente. Non è bello per nessuno avere a che fare con qualcuno che distrugge la nostra maschera sociale, che mette in discussione la coerenza del nostro vissuto, turbando il nostro quieto vivere. Il profeta biblico è un personaggio scomodo, da cui stare alla larga. Soprattutto quanti si ritengono credenti hanno buoni motivi per evitarlo, dal momento che la sua critica si rivolge proprio a loro. Quella parola divina così carezzevole, che è fonte di consolazione, sulle labbra del profeta diviene una spada che ci ferisce, un’accusa che ci fa star male. Ma a differenza degli apocalittici, i cui discorsi suonano come giudizi di condanna su questo mondo in rovina, la critica dei profeti non è mai una sentenza definitiva, la valutazione sconsolata che non ci sia più niente da fare. Le loro dure parole hanno la funzione di scuotere il nostro torpore, per cambiare vita, per iniziare a farci carico di una storia che non può esserci estranea, dal momento che Dio ci ha posti in essa. Il profeta denuncia l’ingiustizia mosso dal desiderio di ristabilirla. Il profeta non fugge dalle contraddizioni della città, non sbatte la porta, sdegnato per il comportamento di chi abita quella casa. Il profeta rimane nella città, è solidale con quel popolo di cui conosce l’incoerenza. Sta nella storia col desiderio di accendervi piccole luci di redenzioni, favorendo quella vita buona e giusta che Dio, in principio, ha sognato per la nostra umanità.
Quest’anno proveremo a fare i conti con le parole dei profeti. Ci metteremo alla loro scuola, provando a imparare pazientemente il loro modo di abitare la terra. Ci sottoporremo alla dura prova di una fede che non si lascia affascinare dalla scorciatoia del curare l’anima e dimenticare il mondo.
Non sarà facile: per noi, che abbiamo fatto della fede un’ideologia rassicurante; e per i profeti, che proprio tra le persone credenti sentono la resistenza alla loro parola.
Nessuno è profeta in patria! E se quest’anno provassimo a smentire questo triste proverbio?
Buon cammino, al seguito dei profeti!
DARE LUCE ALLA VITA
Bisogna insegnare
Al nostro sguardo
A dare luce alla vita
Là dove si allontana
E scolora
A trattenerla
Nelle nostre mani tremanti
Così che la musica della terra
E del vento
Canti
Come una stagione di gioia.
(Tahar Ben Jelloun)
Settembre può essere un mese struggente, sospeso in bilico tra la malinconia dell’estate che si allontana e l’apprensione per l’autunno che arriva. E’ un mese passerella, la transizione dalla luce estrema alla penombra progressiva e, allo stesso tempo, il capodanno del “fare”, dell’impegno, dei nuovi percorsi, l’inizio di una stagione laboriosa. Noi ricominciamo le nostre attività comunitarie: ci siamo sparpagliati alla ricerca di nuovi paesaggi, di esperienze emozionanti, di bellezze da scoprire e di momenti di relax e ora ci ritroviamo per un nuovo inizio.
Per mesi abbiamo ascoltato i racconti degli Atti, abbiamo seguito i movimenti degli apostoli e i viaggi di Paolo, chiedendoci cosa ci stessero dicendo della nostra vita, cosa stessero illuminando del nostro cammino. Ed ecco, ora mi piace pensare che anche noi stiamo per metterci in viaggio, noi zoppicanti seguaci di un Maestro camminatore ancora una volta partiamo per scoprire dove ci porta la Parola, in un nuovo percorso di ascolto.
Toccherà accertarsi di avere la giusta attrezzatura nel nostro bagaglio: servono cuore aperto, umiltà e pazienza, ma anche coraggio per farci toccare da verità a volte un po’ ruvide e perseveranza per i momenti di fatica… Ma ricordiamoci sempre di ringraziare il Signore per questa possibilità che è un lusso e un privilegio e ringraziamo i nostri compagni di viaggio che ci stanno accanto e condividono i nostri passi incerti.
E, come in tutti i viaggi, facciamo foto ricordo: fermiamoci a gustare i momenti, non necessariamente quelli con l’iniziale maiuscola ma anche le piccole meraviglie intime, le scoperte inattese, le conferme desiderate. Costruiamo memoria dello stupore che può attraversare il nostro quotidiano, lasciamoci guidare dallo Spirito a contattare con fiducia di animo bambino il nostro bisogno di verità, di bellezza, di vita piena e buona.
E ricordiamoci di celebrare, durante il cammino, non solo alla fine. Facciamo festa per i nostri passi esitanti, per tutte le volte che, incespicando, ci impegneremo a rimetterci in piedi cercando di stare in equilibrio, sapendo che mai siamo soli, una lampada accompagna i nostri passi, se gli occhi del nostro cuore resteranno aperti non la vedremo mai affievolirsi. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero (Salmo 119, 105); Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Giovanni 8, 12).
Chiediamo che il Signore benedica questo nuovo viaggio perché possiamo esserne toccati e trasformati.
(Elisabetta Lo Sardo)
AL CENTRO DEL RIMBOMBO
Vorremmo avere una mappa per leggere il mondo, per mettere ordine al caos. Vorremmo disporre di uno specchio per ritrovare noi stessi, che ci sentiamo persi, confusi. E invece abbiamo solo voci. Tante, troppe, contraddittorie. Voci esterne, che si accumulano senza sosta. E voci interne, perlopiù volubili, fragili, a volte, invece, ossessive, potenti. Che ce ne facciamo di tutte queste voci? Ci disorientano. Gli occhi vagano in cerca di un’immagine rivelativa, dove tutte le cose sono al loro posto e noi abbiamo un nome. Un’immagine che stabilizzi il flusso delle notizie, le montagne russe delle emozioni. Meglio ancora un codice a barre, che racchiuda tutte le informazioni necessarie, che ci fornisca le istruzioni per l’uso. E invece, ogni giorno ci misuriamo con le voci che rimbombano nelle orecchie, a volte anche nel cuore. Che questa sia la condizione umana – priva di immagini stabili, piena di voci disarticolate – la Bibbia lo sa bene. Nessuna immagine, nemmeno di Dio. Solo voci, anche per Dio. Voci che udiamo in modo diverso, nelle differenti stagioni della nostra esistenza, nei molteplici scenari della storia. Secondo la sapienza ebraica, “la voce di Dio sul Sinai fu intesa da ciascuno secondo la sua capacità di intendere. Gli anziani la intesero secondo la loro capacità, i giovani secondo la loro capacità, e così anche i bambini, i lattanti e le donne. Perfino Mosè la intese secondo la sua capacità. Perciò sta scritto (Esodo 19,19): Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Ciò significa: con una voce a cui Mosè potesse reggere”. La Bibbia non offre risposte preconfezionate, valide per tutti; non propina facili certezze, verità da prendere o lasciare. Spetta a noi collegare le voci, discernere una trama di senso.
Come scrive Giuseppe Longo, “Gli umani sono creature della narrazione: infinitamente narrano e si narrano, intrecciano dialoghi, accendono storie per illuminare buie caverne del cuore e del mondo, recuperano e trasmutano ricordi. Viviamo tra una realtà soda e scabra, inconoscibile, una fornace enorme di perturbazioni e richiami e colori, e un’interiorità effimera: e tra le due, tra il mondo e noi, tessiamo col pensiero e con le parole un fragile ponte che si chiama senso. Dondola questo ponte al soffio ineguale di un vento cosmico… Ci facciamo domande e narriamo storie. Solo la vertigine del domandare e del narrare può dar senso a una vita che alcuni dicono intessuta di pura casualità. Staccati per sempre dalla florida matrice del mondo, tormentati dal pensiero, prigionieri delle parole, schiavi dell’interpretazione, smarriti in un lungo corridoio di specchi affacciati: siamo al centro di un grande, incomprensibile rimbombo. Questo rimbombo è la lingua del mondo, una lingua frenetica e densa, segreta e appassionata, una lingua che è nelle cose, una lingua che non cessa di essere parlata”.
Il rimbombo delle voci, da cui trarre una narrazione, è anche lo scenario della rivelazione biblica. Nel racconto del Sinai si dice che vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. E poi Dio parla; Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce di tuono (Esodo 19,16ss).
Una voce che rimbomba come il tuono. L’incontro con Dio è esperienza del rimbombare: alla lettera, una bomba che mette sottosopra il nostro immaginario. Le nostre orecchie non odono il rumore assordante degli ordigni, come avviene nelle troppe sciagurate guerre che affliggono il mondo. Ma in un certo senso, anche noi patiamo un analogo disorientamento, insieme alla paura, certo, in scala minore rispetto a quella che sorge nei numerosi teatri di scontro armato.
Dopo il rumore sordo, dopo che le nostre orecchie hanno provato il fastidio dei suoni dissonanti, saremo capaci di prestare ascolto? Sapremo tessere una narrazione con i fili di queste voci che rimbombano?
L’esperienza della fede si gioca tutta qui. Voi vi avvicinaste e vi fermaste ai piedi del monte; e il monte era tutto in fiamme, che si innalzavano fino al cielo; vi erano tenebre, nuvole e oscurità. E dal fuoco il SIGNORE vi parlò; voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste nessuna figura; non udiste che una voce (Deuteronomio 4,11s).
Forse, nella pausa estiva, possiamo prenderci del tempo per ascoltare più a fondo quelle voci che ci rimbombano. Forse, al centro del rimbombo, possiamo persino veder emergere un racconto che dica un senso. Forse, possiamo attingere dalla sapienza biblica l’arte di ascoltare le voci, insieme a quella divina che, con ostinata determinazione, continua a dirci: Ascolta! Ricorda! Racconta!
CONVITATI DI PIETRA
C’è un convitato di pietra nelle nostre Assemblee di chiesa. Ormai si intrufola da parecchi anni. Le questioni da trattare cambiano di anno in anno, ma lui non manca di far udire la sua voce. Non alza la mano per chiedere la parola. Si alza in piedi senza bisogno di presentarsi: tutti lo riconoscono. Il nome, forse, non lo sappiamo bene: anche chi tenta di pronunciarlo lo storpia. Ma che sia presente nessuno lo mette in discussione. Siccome non sappiamo da dove venga, chi l’abbia generato, come nominarlo, ci riferiamo a lui con delle frasi che non comunicano informazioni – quelle ci mancano – ma sensazioni, impressioni. Ci diciamo: “siamo in pochi”; “non ci sono giovani”; “inutile fare progetti, se mancano le forze”. Con queste o altre parole simili prende forma davanti ai nostri occhi il convitato di pietra di questa stagione della chiesa. Non compare solo alle nostre Assemblee, quando proviamo a fare il punto della situazione e rilanciamo il cammino. Gira un po’ tutte le chiese, trova posto anche in luoghi che, fino a qualche anno fa, erano affollati. Mal comune, mezzo gaudio? Tutt’altro! Questo senso generalizzato di essere sempre meno, di non vedere futuro, di sentirsi gli ultimi cristiani, qui in Occidente, ci spaventa e rischia di paralizzarci. C’è un clima depressivo che si è diffuso in molte chiese e che va a braccetto col clima altrettanto depressivo che alberga nelle nostre società. Per la fede si tratta di una malattia mortale.
Come i due discepoli di Gesù, in fuga da Gerusalemme per tornare a Emmaus (Luca 24,13ss), nominiamo la nostra fede come una speranza del passato: “speravamo… ma ora…”. Forse, proprio quel racconto evangelico ci aiuta a gettare qualche luce su questo nostro presente che ci inquieta. I due discepoli, protagonisti del racconto, si vedono alla fine di un’esperienza ricca ma giunta a conclusione. Anche le cose belle finiscono. E noi umani, nonostante il nostro desiderio di tenere tutto sotto controllo, siamo in balia di una storia che ci sfugge. Quei due li vediamo mentre mettono il punto finale alla loro esperienza al seguito di Gesù. La loro delusione è palpabile ma non li rinchiude nel silenzio. Lungo la via, mentre sconfitti tornano alla loro vita di prima, parlano e discutono. Si confrontano su quanto è accaduto. Forse, anche noi potremmo scommettere sull’importanza del confronto; potremmo chiederci come le altre chiese affrontano questo tempo di crisi. Invece che “serrare le fila”, perché siamo in pochi e, presi dall’urgenza della sopravvivenza, non abbiamo tempo per fare altre cose, potremmo investire i nostri due spiccioli proprio sull’ascolto degli altri, sul confronto ecumenico.
I due discepoli, poi, incontrano un altro viandante: noi che leggiamo sappiamo che si tratta di Gesù risorto, ma per loro è uno sconosciuto. Un altro convitato di pietra! Quanti sconosciuti camminano con noi?! Non riconoscendo nemmeno quest’ultimo, lo percepiamo anch’esso come una sensazione. Che ci fa dire frasi come queste: “continuiamo a credere nella Parola”, “chiediamo a Dio di illuminarci”, “invochiamo lo Spirito perché riaccenda la passione nei nostri cuori tristi”.
Affinché i due convitati di pietra siano conosciuti per nome occorre che ci mettiamo in ascolto di entrambi. Che andiamo oltre le sensazioni a fior di pelle – quelle che ci deprimono o ci esaltano – e scommettiamo su un ascolto attivo sia di questo nostro tempo che della Parola che il Signore ci consegna.
Con quello sguardo strabico espresso dai versi del poeta Franco Marcoaldi:
È questa la fatica
a cui siamo vocati: sostenere
un doppio sguardo, capace
di fissare in faccia la rovina
e assieme la lamina di sole
che accende ogni mattina.
Nel frattempo, possiamo tenere vivo il sogno di una chiesa ospitale, che rimane tale anche quando gli ospiti non si vedono o se ne vanno. Ha scritto un credente: “Vorrei che le chiese fossero come un albero, che non chiede agli uccelli da dove vengono o dove vanno, ma offra loro ombra e cibo, lasciando poi che volino via” (A. Casati). Anche quando i conti sono in rosso, più dei bilanci conta il desiderio di vita per tutte e tutti. Come ci ha detto Gesù, che non è venuto per riempire le chiese ma perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Giovanni 10,10).
DI ABITI E ABITUDINI
L’abito non fa il monaco, recita un proverbio che intende mettere in guardia dall’apparenza, quasi sempre ingannevole. Ma senza abiti noi umani non siamo in grado di abitare il mondo: ci sentiremmo esposti alle intemperie e, soprattutto, allo sguardo altrui, oggetto dell’irrisione e del giudizio di chi ci fissa. Lo sguardo, infatti, può ferire; persino quello che si scambiano le persone intime, come lo erano Adamo ed Eva. Loro, che si sentivano una carne sola, si sono vergognati di essere nudi e si sono nascosti alla vista dell’altro, ritenuto responsabile della trasgressione del comando dato da Dio. Nei momenti di litigio, quando sento l’altro come un giudice, come un potenziale nemico che mi accusa, allora temo quei suoi occhi che prima brillavano e accendevano di luce il corpo su cui si posavano, mentre ora fulminano e feriscono, iniettati di rabbia e rancore. Da un simile sguardo occorre difendersi, rivestendo i corpi vulnerabili. È il gesto di cura che compie Dio per quella coppia che si sente nuda e si nasconde: Dio il SIGNORE fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì (Genesi 3,21). Non si può affrontare la vita senza la protezione di abiti e di abitudini. Entrambi sono per noi come una seconda pelle. Che si confonde con la prima, tanto aderisce alla nostra persona. Le abitudini, più ancora degli abiti, resistono ai cambiamenti di scena. Ma persino gli abiti ci sopravvivono, come nei versi di Wisława Szymborska:
MUSEO
Ci sono i piatti, ma non l’appetito.
Le fedi, ma non scambievole amore
da almeno trecento anni.
C’è il ventaglio – e i rossori?
C’è la spada – dov’è l’ira?
E il liuto, non un suono all’imbrunire.
In mancanza di eternità hanno ammassato
diecimila cose vecchie.
Un custode ammuffito dorme beato
con i baffi chini sulla vetrina.
Metalli, creta, una piuma d’uccello
trionfano in silenzio nel tempo.
Ride solo la spilla d’una egiziana ridarella.
La corona è durata più della testa.
La mano ha perso contro il guanto.
La scarpa destra ha sconfitto il piede.
Quanto a me, credete, sono viva.
La gara col vestito non si arresta.
E lui quanta tenacia mi dimostra!
Vorrebbe viver più della mia vita!
C’è un’ironia che fa pensare, evocando situazioni note e cogliendone aspetti insoliti. Quegli abiti che hanno ricoperto i nostri corpi, quelle abitudini che ci hanno consentito di alzarci ogni mattino senza dover decidere da zero su ogni nostro movimento, possono diventare oggetti da museo, che ci sopravvivono, privi di vita. Mentre li usavamo, ci sussurravano: hai sempre fatto così; si è sempre fatto così: continua a farlo. Al momento della nostra uscita di scena diranno: si farà sempre così, anche se tu non ci sei più. Ironia macabra? Vi leggo, piuttosto, una messa in guardia dal procedere in automatico. Gesù risorto ha lasciato i suoi abiti nel sepolcro vuoto. Non ha messo un pezzo di stoffa nuova sopra un vestito vecchio (Matteo 9,16). Il suo corpo vivente vale più del vestito (Matteo 6,25).
L’annuncio pasquale ci ricorda questo: mentre ti vesti e compi i soliti movimenti abitudinari, non dimenticare che quel gesto di cura può inacidirsi, perdere l’anima, in una ripetizione svuotata di vita, allergica allo stupore. Mentre ti difendi dallo sguardo potenzialmente cattivo, osa pensare che non per forza dovrai giocare in difesa; che lo Spirito del Risorto, che pure ti abita, sta facendo una cosa nuova (Isaia 43,19): sta tessendo una veste bianca per abitare diversamente questa storia ingiusta (Apocalisse 6,11). Sei in grado di riconoscerla?
PASQUA 2023
Che cosa vedi, quando guardi?
Uno scenario di morte, una tomba sigillata con una grossa pietra? Una storia che va di male in peggio? Una vita sempre a rischio di depressione? La Pasqua di Gesù narra di una morte e di una nuova vita: la sua ma anche la nostra. A condizione che a risorgere sia, innanzitutto, lo sguardo. A patto che, come è successo a Maria Maddalena, anche noi ci “voltiamo” (Giovanni 20,16) e scorgiamo proprio nel luogo dell’assenza una vera presenza, che ci chiama per nome. Quegli stessi occhi, che si riempiono di lacrime per il venir meno delle speranze, possono fissare il rifiorire della vita, la riapertura dei sentieri interrotti.
Che cosa vedi, quando guardi?
C’è un famoso dipinto di Magritte che esprime questo cambiamento di sguardo. L’autore rappresenta se stesso mentre guarda un uovo e col pennello dipinge un grandissimo uccello, pronto a spiccare il volo. Ha come titolo Chiaroveggenza, ovvero l’esperienza pasquale del “vederci chiaro”, di operare una lettura della realtà che vada più a fondo del sentire immediato. Uno sguardo che, insieme al senso di realtà, tiene aperto il senso di possibilità.
L’angelo che annuncia la resurrezione ha afferrato il pennello del pittore. Mentre la sua voce ci domanda:
Che cosa vedi, quando guardi?
Quest’anno, lasciamo che gli auguri di Pasqua ce li faccia il signor Magritte.
NEL VENERDÌ DI PASSIONE DELLA STORIA
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (Italo Calvino)
Guerre, terremoti, disperati annegati nel Mediterraneo: ecco il volto pubblico di questo nostro tempo, violento e tragico. E persino peggiore è la sua faccia nascosta, quella che non gode delle luci della ribalta e nel segreto macina vittime, come quei bambini sfruttati e resi schiavi per estrarre il coltan dei nostri telefonini.
Forse, è sempre stato così. Come recita il sottotitolo del romanzo di Elsa Morante, La storia: “Uno scandalo che dura da centomila anni”. In ogni caso, fa male inciampare in questo scandalo. O, almeno, dovrebbe farlo a noi che ci diciamo discepoli e discepole di quel Gesù che si identifica con i disperati della terra: “In verità vi dico che in quanto non l’avete fatto a uno di questi minimi, non l’avete fatto a me” (Matteo 25,45). Come è successo che, mentre nelle chiese ascoltiamo questa parola di Gesù, siamo incapaci di scorgere il suo volto nelle vittime? Come abbiamo potuto diventare anche noi cinici, indifferenti alle tragedie che si consumano sotto i nostri occhi? Gli interrogativi sono al plurale, perché ci riguardano come cristiani, ma io li sento al singolare, rivolti a me stesso, che continuo a vivere tranquillo in questo scenario di morte. Che cosa possiamo fare? Che cosa posso fare? Nella nostra società complessa sembra impossibile sapere come muoversi senza essere complici del male. Le ingiustizie sono così enormi che, anche se volessimo contrastarle, ci misureremmo inevitabilmente con la nostra impotenza.
Provo a non far finta di niente, a non distogliere lo sguardo dalle tragedie e a giustificarmi dando la colpa all’incapacità delle vittime o a quanti le sfruttano per i loro progetti criminali. Provo a tenere viva l’attenzione, custodendo la memoria delle vittime, i loro volti, le loro storie. E mi interrogo su come cercare il Regno di Dio e la sua giustizia in questo mondo ingiusto.
È possibile essere sensibili al mare di sofferenza che ci circonda, senza diventare persone arrabbiate o depresse e senza risolvere troppo in fretta la questione con semplici prese di posizione? Non si tratta di smettere di gustare la vita, ma di desiderare che tutti lo possano fare. Ma come?
Il mio cuore è pieno di domande. Cosa posso fare, io che ascolto le grida angosciate di molti e vivo da privilegiato in questo mondo ingiusto?
Anche Gesù ha incontrato tante situazioni disperate. Lui non si è tirato indietro, non ha fatto finta di niente. Ma anche Lui non ha risolto tutti i problemi del mondo. Non ha guarito tutti i ciechi e neppure moltiplicato il pane per tutti gli affamati. Ha posto dei segni per indicarci in che direzione si muove il mondo come Dio lo vuole. Forse, dovremmo reagire al nostro senso di impotenza facendo anche noi dei gesti che non saranno risolutivi ma sono dei segni. Possiamo interrogarci sui nostri stili di vita. Possiamo farci carico di alcune situazioni, di un numero limitato di persone. Poca cosa, di fronte all’enormità del problema, ma è la nostra parte. Da compiere senza esitazione, poiché “non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi” (Luigi Pintor).
Siamo all’inizio del tempo di Passione, quaranta giorni per comprendere cosa significhi “credere”, come la fede dia forma alle esistenze, al modo di abitare la terra. Un tempo per ripensare al senso della nostra fede per questo nostro tempo. Che il Signore ci illumini e ci converta. Fino a che giunga la Pasqua in questo venerdì santo del nostro mondo!
QUIET QUITTING CON DIO?
Una provocazione del pastore Massimo Aprile
Di “quiet quitting” se ne parla sempre più spesso in riferimento al mondo del lavoro nel nostro tempo, specie dopo la pandemia. Più di recente se ne parla anche in riferimento alla vita di coppia. Si tratta di un fenomeno per il quale le persone mettono il “motore al minimo” per gli effetti giudicati troppo invadenti del loro lavoro anche nella versione smart. Si fa ciò che è appena indispensabile per mantenerlo, ma non lo si ama più, non si nutrono aspettative e soprattutto non si ha alcuna voglia di dedicarvisi anima e corpo. E così si farebbe, analogamente, anche in riferimento alle relazioni sentimentali. Non è prevista una situazione di conflitto, né di discussioni e litigi fragorosi. Ma lentamente scende tra gli amanti una coltre di silenzio e di passività. Le comunicazioni diventano fondamentalmente di servizio: come organizzare la casa, i figli, gli aspetti finanziari. Nel “quiet quitting” sentimentale, lentamente, spesso senza neppure accorgersene, le persone si allontanano per approdare, sovente, in una terra arida di solitudine. Arriva così il giorno in cui ci si scopre estranei. Allora ti chiedi: “Che ci faccio qui? Chi è questa persona che dorme nel mio stesso letto? Cos’è questo lavoro che occupa così gran parte del mio tempo e delle mie energie?”. E quando queste domande arrivano, spesso è ormai troppo tardi per raddrizzare le cose. Allora ci si trova al bivio di decisioni difficili: avere la forza di voltar pagina (ma quanto è faticoso!), oppure rischiare di spegnersi lentamente.
Mi chiedo se qualcosa del genere non capiti anche nel nostro rapporto con Dio e con la fede.
Nulla accade che assomigli ad una crisi esistenziale, religiosa o filosofica. Ma tante domande inevase, una fede pigra anche intellettualmente, vissuta nella ripetizione di formule sempre eguali e sempre meno aderenti all’esperienza della vita, un progressivo conformarsi al pensiero e alla prassi della maggioranza, la perdita di entusiasmo ad osare scelte di vita coraggiose e innovative, portano ad un graduale ma inesorabile allontanarsi da Dio. A mio avviso un indicatore specifico di questo “quiet quitting” spirituale è la preghiera. Quando sistematicamente ci affidiamo alle parole degli altri, quando rinunciamo al nostro quarto d’ora di intimità col Signore, quando finisce anche la protesta per la sofferenza dell’innocente “tanto Lui non risponde”, allora può intervenire un “quiet quitting” dell’anima. E viene il tempo di quesiti indifferibili: la mia fede ha ancora un senso? Non è forse venuto il momento di prendere atto che mi sono definitivamente allontanato da Dio? A volte, magari per indolenza, si rimane in una chiesa, ma senza più speranza. Si “funziona” come cristiani, al punto che gli altri possono anche continuare a considerarci tali, ma le motivazioni si sono ormai affievolite o addirittura spente. Quante persone credenti che a suo tempo presero anche decisioni controcorrente mossi dalla fede, ho visto e vedo lentamente spegnersi spiritualmente. E noi predicatori della Parola non siamo esenti da questa sindrome spirituale.
Mi piacerebbe avere una risposta che valga se non per tutti, almeno nella maggioranza dei casi. Ma non so. Meglio essere modesti e misurare bene le parole. Il rischio è sempre quello di essere grilli parlanti. La sola cosa che posso fare è testimoniare cosa mi abbia tenuto finora libero da questa trappola spirituale: mia moglie, la chiesa, la Parola di Dio. L’amore di una persona che sa riconoscere i segni di quel particolare torpore appena si manifesta, può essere di grande aiuto per intervenire ai primi sintomi, quando si è ancora in tempo. La fraternità e la sororità di una comunità, seconda famiglia, in cui ci si incoraggia reciprocamente, nel segno della franchezza e del rispetto, può essere di grande conforto e scongiurare di finire in una recita collettiva in cui tanti ripetono la parte del cristiano pio, mentre nel cuore hanno tanta delusione. Ma soprattutto, per me è stata di grande aiuto la Parola di Dio, intesa sia come Bibbia che come ascolto della predicazione. Essa ha su di me, sempre di nuovo, l’effetto di una spallata su una porta chiusa a chiave. Infatti, il luogo della nostra protezione e delle nostre certezze diventa spesso una specie di prigione volontaria, dove avvizziamo.
E tu, su quali risorse pensi di contare, per fare in modo che la tua vita e la tua fede non sbiadiscano lentamente?
2023
CONTINUARE A NASCERE
L’inizio di un anno avviene nel tempo natalizio, in cui facciamo memoria della nascita di Gesù e, insieme, ci interroghiamo sul senso del nostro nascere.
Maria, come ogni madre, ha messo al mondo suo figlio. Il neonato non è più custodito nel grembo materno ma collocato nel mondo. Il nascere costituisce il punto di partenza di ogni esistenza. E, allo stesso tempo, l’unicità di quel momento lascia in seguito spazio ad altre esperienze di nascita, quelle che daranno inizio alle molte e differenti svolte che una vita richiede. Il bambino dovrà nascere come adolescente e poi come adulto, come partner di una relazione amorosa, come persona che gioca un proprio ruolo nella società.
Di quante nascite abbiamo bisogno per vivere? Nascite che, a differenza della prima, domandano scelte consapevoli, disponibilità a rimettersi in gioco, immaginazione dell’inedito.
Ha scritto Maria Zambrano: “Noi nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve per nascere del tutto”.
Insieme alla novità dirompente dei momenti cruciali, veri e propri parti che danno alla luce una nuova versione di noi stessi, ci sono le piccole nascite, che si annunciano in tono minore. Una di queste è l’inizio di un nuovo anno. Qui la novità non presenta il carattere inedito del totalmente altro; piuttosto, è un nascere che ha la forma del ricominciare.
Chi si mette al seguito di Gesù di Nazaret è un “ricominciante” e l’esperienza di essere chiesa ha al suo cuore la sfida della rinascita. Le parole che Gesù dice a Nicodemo le sentiamo rivolte a tutti noi: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio» (Giovanni 3,3).
Iniziamo a camminare col piede giusto lungo le strade di questo 2023, ovvero col desiderio di rinascere. Con la disponibilità a metterci in gioco, superando la presunzione di sapere già tutto, di aver visto quanto c’era da vedere, di avere ormai vissuto a lungo per pensare che ci sia dell’altro.
Solo se crediamo che sia possibile rinascere, allora ci apriremo allo stupore per quanto accadrà nel corso di quest’anno. Allora non temeremo quella solitudine che non è isolamento dagli altri ma esercizio per crescere in sensibilità, consapevolezza e responsabilità.
E nel gesto coraggioso di iniziare l’anno col desiderio di continuare a nascere è presente quel Dio che vuole nascere nelle nostre vite.
Il Natale appena festeggiato ci ha ricordato che è dentro di noi che un Dio nasce. Dentro i nostri gesti che in uguale misura sono rivestiti di speranza e di ombra. Dentro le nostre parole e il loro traffico sonnambulo. Dentro il riso e l’esitazione. Dentro il dono e l’attesa. Dentro il calore della casa e nell’addiaccio imprevisto. Dentro il pendio e dentro la pianura. Dentro la lampada e nel grido. La nostra stirpe è quella degli appena nati. Quale che sia la nostra età o la stagione che ci troviamo a vivere, la verità è che noi siamo, fino alla fine, una cosa al suo inizio.
NATALE 2022
Natale: Dio viene in mezzo a noi e ci prende tra le sue braccia! Non si stanca di aprire le braccia per accoglierci, per benedirci, per mostrarci che la vita va vissuta così, a braccia aperte. La riflessione, proposta da una sorella di chiesa, ci aiuta a scorgere nel bambino dato alla luce il Crocifisso che attraversa le tenebre. Dall’inizio alla fine, Gesù si mostra a braccia aperte, gesto che parla la lingua dell’accoglienza, dell’ospitalità, del desiderio di prendersi cura gli uni degli altri. Quelle braccia racchiudono tutto l’evangelo. Annunciano un Padre che, a braccia aperte, corre incontro al figlio perduto. E continua a farlo anche oggi, anche con noi. E quando ci manca lo slancio di tornare a casa, Lui non si arrende: si mette a cercare la pecora smarrita per fare festa quando l’avrà ritrovata.
Natale con i tuoi: un modo di dire che si addice al Dio-con-noi. Lasciamoci attirare tra le sue braccia. E in quell’abbraccio intimo, torniamo ad ascoltare la sua voce. Voce che parla di pace e che noi continuiamo a non udire.
Il poeta Salvatore Quasimodo ce lo ricorda così: “Pace nel cuore di Cristo in eterno; / ma non v’è pace nel cuore dell’uomo. / Anche con Cristo e sono venti secoli / il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?”.
A BRACCIA APERTE
Natale, ricorrenza di una particolare giornata, la festa di un compleanno! Tutto sembra cosi facile: ricordiamo la nascita di Gesù. Riguardiamo la foto di quel Bambino appena nato, che scorgiamo nella mangiatoia
a braccia aperte, aperte al mondo, aperte ad ognuno di noi.
L‘iconografia lo identifica a torso nudo, un panno attorno ai fianchi. Sembra che dica: “Venite a Me, voi che siete travagliati ed oppressi, Io vi darò riposo”.
È la storia di un bagliore, di una Luce che giunge fino a noi: illumina il cuore, il cammino, la speranza di un domani, la vita eterna. Rimane in quella mangiatoia solo un attimo e già altre braccia premurose lo afferrano per salvarlo da morte sicura. Appena nato, Gesù profugo, nullatenente, caso sociale. E poi un anno dopo l‘altro, un compleanno segue l‘altro. Lo ritroviamo adulto, lungo la via, a cercare pecore che negli anni si sono smarrite. Le trova: un mucchietto di uomini che ha difficoltà a capirlo, che lo segue fino all‘ultimo, pur a distanza, con timore. A loro apre le sue braccia: li accoglie, li guida lungo il sentiero della vita. La Sua scuola è rivoluzionaria poiché insegna:
Non abbassate mai le braccia, apritele alla teoria dei sentimenti, apritele alla pratica del lavoro. Apritele per abbracciare l‘amore, poiché IO SONO L‘AMORE, L’AGAPE.
Lui le ha aperte ai poveri come ai ricchi, ai sani come agli ammalati, ai malvagi come ai buoni. Lui le ha aperte alle domande e alle risposte. Ha continuato a fare gli stessi gesti, fino alla sera della Cena quando, in quell’ultimo frangente, ha aperto le sue braccia per distribuire pane e vino. Poco dopo, ha abbassato le sue braccia, davanti al Sinedrio, al cospetto degli uomini che l’hanno giudicato colpevole: ha lasciato che fossero gli uomini ad aprirgli le braccia, sulla croce.
Ogni anno ne facciamo memoria: chi lo fa da solo, chi in famiglia, chi in compagnia di amici; altri non lo festeggiano affatto, non ne capiscono il senso… Ma da quando è venuto per aprirci le sue braccia, la storia ha avuto un nuovo inizio e il calendario ufficiale è ripartito dall‘anno della sua nascita.
L‘iconografia lo identifica a torso nudo, un panno attorno ai fianchi. E, malgrado ciò, sembra che dica: “Venite a Me, voi che siete travagliati ed oppressi, Io vi darò riposo”.
BASTA POCO
“Le mosche morte fanno puzzare e imputridire l’olio del profumiere”. Sono parole del Qohelet, un sapiente che prende la parola nel libro dell’Ecclesiaste e che riscrive l’esperienza credente in un periodo in cui le grandi parole d’Israele non funzionano più. Le nuove generazioni non fanno più riferimento a Mosè e ai profeti. Come parlare loro della vita buona che Dio ha sognato per tutte e tutti, fin dalla fondazione del mondo? Le generazioni precedenti ne hanno parlato ricorrendo alla lingua della Torah, ovvero della parola solenne che Dio ha consegnato a Mosè sul Sinai: in quella parola scorgevano il segreto di un’esistenza felice. I loro figli, però, la sentono lontana, antiquata; sono più attratti da altre parole d’ordine. Un po’ come sta succedendo ai nostri giorni. Di colpo, le esperienze precedenti, che parevano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano, non sembrano più tenere ed è necessario andare verso nuove narrazioni, capaci di serbare il cuore delle consegne antiche e la cura per il futuro di altri. In un esodo esigente, dai cammini non scontati.
È quello che prova a fare il Qohelet, che riscrive la parola “dall’alto” traducendola in “parola dal basso”, a partire dall’esperienza quotidiana che si svolge “sotto il sole”. Non chiede di aderire ad una fede, presentandola come giusta, vera – o almeno, non lo fa in prima battuta; piuttosto, invita a riaccendere lo sguardo su quello che succede, ad interrogarsi senza pregiudizi sui fatti della vita. Parte, dunque, da uno sguardo lucido, spogliato dall’ideologia e anche da quelle teorie religiose che fanno sempre tornare i conti, per osservare attentamente le vicende umane. E scommette che, alla fine, quello sguardo saprà scorgere quel mistero che abita “sopra il sole” e che noi chiamiamo Dio; quel mistero che dispiega un proprio disegno che abbraccia il tutto della realtà, che però sfugge alle nostre vite che sono solo un soffio, che cercano la sapienza senza riuscire a trovarla.
Un aspetto decisivo di questo nuovo sguardo – che è un altro modo di stare al mondo come credenti – consiste nel mettere a fuoco la precarietà delle situazioni, che mutano col tempo e le circostanze. Il Qohelet punta gli occhi sulle situazioni fuggevoli, che occorre affrontare con sapienza, e senza la garanzia che la nostra saggezza produca frutto. Lo sguardo sapiente non fissa più la scena epica della battaglia tra il bene e il male ma scruta la scena fragile e mutevole della quotidianità. Nella quale basta una mosca a rovinare l’essenza profumata, frutto di tanto impegno. Quanta fatica per rendere la vita vivibile: diventare adulti, maturare una propria professionalità, mettere su casa, tessere relazioni, educare figli, vivere dignitosamente la vecchiaia… E poi basta una malattia, un’amicizia sbagliata, un nuovo piano aziendale, un disastro ambientale, una guerra, qualcuno che preme il pulsante della bomba atomica e tutto si rovina, e la vita si guasta, viene meno. Che fare, allora? Rassegnarsi alle circostanze, sperando solo che Dio ci sia propizio? Per il Qohelet non può essere così: con la precarietà bisogna fare i conti ma non con atteggiamenti di semplice resa. È vero: basta poco e si annega in un mare di guai. Ma anche: basta poco per riuscire a camminare, nonostante tutto, su quelle acque.
“Va’, mangia il tuo pane con gioia, e bevi il tuo vino con cuore allegro, perché Dio ha già gradito le tue opere. Siano le tue vesti bianche in ogni tempo, e l’olio non manchi mai sul tuo capo. Godi la vita con la moglie che ami, per tutti i giorni della vita della tua vanità, che Dio ti ha data sotto il sole per tutto il tempo della tua vanità; poiché questa è la tua parte nella vita, in mezzo a tutta la fatica che sostieni sotto il sole”. Anche queste sono parole di Qohelet.
Basta poco per portare un po’ di luce nelle tenebre. Basta poco per gioire del cibo e delle bevande insieme alle persone che si amano. Basta poco per rendere positivo il clima di una comunità, sdrammatizzando con un po’ di (auto)ironia le situazioni, scorgendo il bene persino in mezzo al male. La vita rimane pericolosamente alle pendici del vulcano, sempre a rischio di essere travolta dalla lava. Ma su quelle pendici si può indulgere al lamento per la cattiva sorte o coltivare fiori e preparare banchetti.
Basta poco…
UNA CHIESA DI TESTIMONI
C’è una bella immagine medioevale per parlare della chiesa. In latino recita così: “Ecclesia ante et retro oculata”; ovvero: la chiesa deve saper volgere lo sguardo all’indietro e davanti. All’indietro, verso la storia della salvezza, narrata nelle Scritture; in avanti, nell’attesa del compimento finale, quando Dio sarà tutto in tutti. La chiesa cioè è una comunità di donne e uomini che non si lasciano schiacciare sul presente ma che provano a guardare la realtà con uno sguardo ampio. E che, abbracciando questo orizzonte allargato, non si preoccupano solo dei propri bisogni individuali ma si misurano con il momento storico in cui si trovano a vivere, cercando di discernere nei “segni dei tempi” la chiamata del Dio di Gesù.
Quest’anno, proveremo ad interrogarci su cosa significhi essere chiesa e lo faremo leggendo nel culto domenicale il libro degli Atti degli Apostoli.
Si tratta del secondo libro scritto da Luca. Unico tra gli evangelisti, Luca non ci ha lasciato solo il racconto riferito a quanto Gesù ha fatto e ha detto; alla narrazione della vicenda di Gesù, Luca fa seguire il racconto delle prime comunità cristiane.
Perché un secondo racconto? All’inizio del libro degli Atti troviamo Gesù risorto che appare ai suoi, li istruisce, affida a loro un compito e poi viene sottratto al loro sguardo, rapito in cielo. Dopo le ultime sue parole – parole importanti, come sempre quando sono le ultime a risuonare – ecco che Gesù scompare dalla vista dei discepoli. Questi ultimi avevano domandato a Gesù quando avrebbe stabilito il regno: “ci hai insegnato a pregare ‘Venga il tuo regno’… Ma quando viene questo regno?”. E Gesù dice loro: “Non spetta a voi sapere i tempi… piuttosto spetta a voi essere testimoni dell’evangelo fino agli ultimi confini della terra”.
Anche noi ci troviamo in quella scena. Anche noi, come i primi discepoli, siamo preoccupati di scorgere la venuta definitiva del Regno di Dio, ovvero del mondo come Dio lo vuole, della vita buona che finalmente prende corpo in questa nostra storia malvagia. Anche noi, come del resto tutte le generazioni cristiane da 2000 anni a questa parte, facciamo la stessa domanda, tutti con la sensazione che la fine si stia avvicinando, perché la storia – ogni periodo storico – mostra i segni drammatici della crisi: guerre terremoti ingiustizie… Sentiamo di abitare un mondo che continua a mettere in croce il suo Salvatore.
E anche a noi Gesù continua a dire: “non spetta a te, non spetta a voi sapere i tempi, i momenti… a te, a voi spetta solo credere nel Vangelo e testimoniarlo”. Dove la testimonianza è anche parola ma soprattutto stile di vita, annuncio incarnato nei gesti di un’esistenza bella e credibile.
Luca sembra consapevole della grande tentazione cristiana: Gesù non è più in mezzo a noi, è asceso al cielo; e siccome il regno di Dio non è ancora venuto nella sua pienezza, noi riteniamo di dover colmare quel vuoto. Come nella scena del vitello d’oro, quando Mosè tarda a tornare e il popolo non sa come comportarsi nel frattempo (Esodo 32). Anche le chiese, nell’attesa del ritorno del Signore, sono tentate di colmare il vuoto a loro modo, sostituendosi magari al regno di Dio e giudicando negativamente quel mondo che invece Dio tanto ama. Contro questa tentazione, la Parola ci dice: non colmare il vuoto, non elevarti a giudice ma vivi il tempo dell’assenza come tempo della testimonianza, della fede ostinata in un Dio che desidera che sbocci la vita buona proprio su questa terra. Luca scrive un secondo libro perché il vuoto non sia colmato da noi e dai nostri idoli e il Vangelo non venga sostituito dai nostri progetti di successo. I discepoli devono lasciare al Risorto e alle sue parole il compito di tracciare il percorso da compiere nella storia.
Se il primo libro – il Vangelo secondo Luca – annuncia la salvezza, il secondo libro – gli Atti degli apostoli – invita a perseverare in quella salvezza, a non cadere nella tentazione di sostituirla con progetti più avvincenti e dai risultati più immediati o con l’atteggiamento apocalittico di chi vede che nella storia si va di male in peggio. Per Luca, è proprio in questa storia, misurandoci con le fatiche, i disastri e le opposizioni del nostro tempo, che siamo chiamati a vivere l’evangelo, a testimoniarlo, provando a prendere sul serio la Parola di Gesù. Continuando a guardare indietro, con l’occhio della fede; e in avanti, con l’occhio della speranza. Maturando un cuore pensante, che sappia amare con sapienza il proprio presente, e gambe che camminino insieme, per dare forma alla chiesa di Gesù, una comunità che, in un tempo affetto da amnesia, desidera fare memoria del futuro.
INCIAMPANDO
“Immagina la mente che si muove sulla superficie piana / del linguaggio ordinario / quando all’improvviso / quella superficie si rompe o si complica. / Emerge l’inatteso”.
Per la ripresa del nostro cammino come chiesa, dopo la pausa estiva, vi propongo questo verso, scritto da Anne Carson. Come sarà il nuovo anno sociale che iniziamo? Sarà fatto delle solite cose: lavoro, relazioni, sbagli, gesti quotidiani, i soliti. Inutile barare con noi stessi e dirci che tutto sarà diverso, che per quel problema che ci perseguita da anni finalmente ci sarà una svolta. La vita è fatta di situazioni ordinarie, che si ripetono, e di imperfezioni. Siamo animali abitudinari, che sognano la novità ma che poi si ritrovano a parlare un linguaggio ordinario, quello di sempre. Continuiamo ad inciampare, ma proprio inciampando ci ritroviamo a porci delle domande: domande che ci tengono in vita, che ci possono far scorgere nel nostro insopportabile quotidiano bagliori di senso. Non siamo noi a trovarli; è la vita, piuttosto a far emergere ciò che non ci aspettiamo più. Proprio quella vita ordinaria, con la sua superficie piana, piatta, sempre uguale, vita minuscola e imperfetta; proprio in quel campo pieno di erbacce possiamo inciampare su un’irregolarità del terreno e scorgere l’indizio di un tesoro nascosto. Non siamo noi ad attenderlo e trovarlo: è l’inatteso che ci raggiunge, quando meno ce lo aspettiamo, quando abbiamo mollato il colpo e ridimensionato i sogni.
Nessun inganno, dunque, nemmeno quelli che potrebbe suggerirci la fede: “se credi, cambia tutto; Dio farà grandi cose nella tua vita”. Certo, Dio le può fare e le farà. Ma non tu. Tu non essere preda delle illusioni. Tu guarda in faccia la realtà. Sei quest’uomo, questa donna, vivi in questo mondo ingiusto, senza pace. Anche quest’anno ti misurerai con la banalità, le imperfezioni tue e degli altri, con le malattie, la noia e l’insoddisfazione. Perché è questa la materia delle nostre vite. Ma inciampando sulle solite cose – non schivandole! – forse ti sarà dato di scorgere l’inatteso, l’insperato. Non presumere delle tue forze. Non pensare che cambierà ogni cosa dall’oggi al domani. Tu però, nonostante questo, tieni viva la domanda su quello che vivi e senti, sul quotidiano che non ti dà tregua. Continua ad interrogarlo, a lasciare che la luce della Parola faccia da lampada ai tuoi passi stanchi e incerti. Lascia che l’inatteso – che non dipende da te – ti possa raggiungere, mostrandoti il tesoro nascosto sotto la superficie dell’ordinario.
Ricominciamo così a camminare insieme, di nuovo, come chiesa piccola, fragile, imperfetta. Facciamolo con lucidità, senso della realtà e, insieme, con la disponibilità a lasciarci sorprendere da quel Dio che è pietra d’inciampo, che ci strappa al nostro monologo rassegnato. Dio è presenza inattesa, che chiama mentre uno sta pescando, nell’ordinario di una giornata lavorativa, quando non prendi niente e pensi che la vita sia tutta qui. Continuiamo a gettare le reti finché ci raggiunga la sua voce che ci dice: vieni, c’è dell’altro.
COMPITI PER LE VACANZE: ESERCITATI AD INDUGIARE
Le formiche, popolo senza forza, si preparano il cibo durante l’estate (Proverbi 30,25).
Come per Esopo, l’autore della nota fiaba della cicala e della formica, anche per la sapienza biblica l’estate non è un periodo di assoluto riposo. Non nel senso che diamo noi alla parola, ovvero un dolce far niente, lo stand-by necessario a ricaricare le pile. Per le Scritture, il riposo è una sosta per recuperare il senso di quanto facciamo, perché non ci succeda che, a furia di fare, smarriamo il significato del nostro operare. Il fermarsi non è tanto uno smettere di agire; piuttosto, è un’interruzione delle attività che svolgiamo quotidianamente, spesso in modo automatico, per fare spazio ad un altro tipo di azione, che ci aiuti a prendere consapevolezza del nostro vissuto. Un tempo per tornare a se stessi. Come si fa? Noi, abituati a vivere di corsa, non lo sappiamo più fare. Ecco, dunque, la consegna per questo tempo estivo: proviamo ad esercitarci nell’arte dell’indugiare.
Un filosofo sudcoreano che vive in Germania, Byung-Chul Han, ritiene che la nostra umanità stia perdendo il contatto con il mondo. In un suo libro, intitolato Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, mostra i rischi di una società che punta tutto sulle informazioni: “Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale”. E aggiunge: “Le informazioni non sono punti fermi dell’esistenza. Non è possibile indugiare presso di esse. Hanno una validità molto limitata. Si fondano sul brivido della sorpresa. Basta questa loro fuggevolezza a destabilizzare la vita. Oggigiorno, esse richiedono continuamente la nostra attenzione. La percezione che aderisce alle informazioni non dispone di uno sguardo lungo e lento. Le informazioni ci accorciano la vista e il respiro. Impossibile indugiarvi. L’indugiare contemplativo presso le cose, quel guardare senza secondi fini che potrebbe essere la ricetta della felicità, cede il passo alla caccia all’informazione. Oggi corriamo dietro alle informazioni senza approdare ad alcun sapere. Prendiamo nota di tutto senza imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vera esperienza. Comunichiamo ininterrottamente senza prendere parte a una comunità. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro. Così le informazioni generano un modo di vivere privo di tenuta e di durata”.
Tornare ad indugiare sulle cose, sulle persone, sulle esperienze vissuta. Non lasciare che ci scivolino via, come se non fossero la nostra vita ma solo beni di consumo usa e getta. Tornare a guardare la vita come la guardava Gesù, attento a scorgere i volti, con i segni della gioia e della sofferenza, i gigli dei campi e gli uccelli del cielo. Partendo, innanzitutto da noi, indugiando sulla nostra esistenza: che tempo è questo per me? Quali cambiamenti sono intervenuti nel corso dell’ultimo anno? Cosa mi sembra di aver capito meglio della vita e della fede? Cosa, invece, trovo molto difficile da comprendere? Come intendo affrontare le sfide che la vita mi sta ponendo? Su chi posso contare?
E poi, continuare questo esercizio dell’indugiare volgendo lo sguardo su quanto avviene attorno a noi, nel quotidiano.
Facciamo anche in modo che la riflessione lasci spazio allo stupore. A differenza di Esopo, infatti, possiamo trovare qualcosa di buono nella cicala e nel suo desiderio di cantare. Come nella filastrocca di Gianni Rodari:
Chiedo scusa alla favola antica
se non mi piace l’avara formica
io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende…
regala!
Forse, la sapienza consiste nell’essere sia formica che cicala! Per cui, insieme alla riflessione, ritagliamoci del tempo per cantare, per pregare e ringraziare il Signore che, nonostante tutto, non ci abbandona. Impariamo, di nuovo, l’arte dell’indugiare.
Buona estate!
SULLA VIOLENZA (COMPRESA LA NOSTRA)
Cosa sarà successo in Egitto, dopo che i figli d’Israele hanno lasciato quella terra? Il racconto biblico ha smantellato le telecamere da quel paese: non più usate per la videosorveglianza degli schiavi ebrei, il loro obiettivo segue gli spostamenti dei fuggitivi, in cammino verso la terra promessa. Ma in Egitto cosa succede? Ritenete verosimile che il faraone abbia cambiato la sua politica, dopo che il Signore ne ha mostrato la natura tossica, attraverso il segno delle piaghe? Forse che avrà deciso di smantellare i suoi mattonifici, di rinunciare alla gestione oppressiva dei lavoratori? La telecamera biblica è fuori uso, puntata altrove; noi, però, abbiamo più di un motivo per supporre che, dopo aver approvato un piano di riorganizzazione aziendale, con controlli più efficaci, il progetto faraonico abbia continuato la sua esecuzione, con l’intervento di altri popoli che hanno preso il posto dei figli d’Israele nella costruzione delle grandi opere. La telecamera in terra d’Egitto ha continuato a trasmettere immagini di violenza, quella che il più forte esercita sul più debole. Perché – riconosciamolo – la storia umana non ha mai rinnegato la legge della forza. Certo, alcuni hanno sognato e narrato altri modi di abitare la terra. Anche se – a ben guardare – persino le produzione artistiche che ancora ci ammaliano per la loro bellezza, dall’Iliade a Shakespeare, dai miti antichi ai film, tutte queste narrazioni mettono in scena l’eroe buono (maschio!) che abbatte l’avversario e ristabilisce l’ordine, quello dei vincitori. L’Egitto è ovunque: in Russia come in Svizzera; occupa i teatri di guerra come le scene domestiche e gli ambienti di lavoro. Anche chi non possiede armi e non fa a botte si ritrova ad agire sulla base della legge della forza e cerca di imporsi almeno laddove gli è consentito. Anche io che scrivo queste righe vorrei che le mie idee prevalessero su quanti ne dissentono. So bene che c’è differenza tra la forza violenta e quella delle idee, tra la guerra che semina morte e il conflitto delle interpretazioni. Ma, in fondo all’animo di quasi tutti, continua ad albergare l’idea di (con)vincere l’avversario, di essere riconosciuti come vincitori – con annessa la tentazione del ricorso alla violenza, magari solo verbale, come mezzo estremo per far prevalere ciò che riteniamo giusto, vero. Siamo ancora quelli della pietra e della fionda, seppur ora impugnata con guanti eleganti, senza traccia di impronte.
È questa la domanda che dobbiamo porci: come posso riconoscere e affrontare la violenza che mi abita? Un interrogativo su di noi, più urgente di quello sulla violenza altrui, sulla guerra in Ucraina, sebbene quest’ultima ci appaia più urgente.
E ancora: di quali anticorpi abbiamo bisogno – noi, non gli altri – per provare ad arginare la grande tentazione della forza? È questo il nodo da sciogliere, a partire da noi.
Lo dice bene il racconto evangelico, che mette in scena la violenza umana – anche dei discepoli – e prova a questionarla. Lo fa rivelando il meccanismo perverso dei difensori della vera fede che eliminano l’avversario pericoloso, facendone il capro espiatorio di tutti i mali. Gesù ha dismesso gli abiti dell’eroe, si è rifiutato di abbracciare la logica della forza, l’ha subita per svelarne la falsità, per dirci che non è così che Dio ha sognato l’umanità.
Duemila anni dopo non ne siamo ancora convinti. Duemila anni dopo il nodo dev’essere ancora sciolto.
Come ha scritto il filosofo Roberto Mancini, “di fronte alla tragedia dell’Ucraina bisogna anzitutto tenere il cuore pulito, la ragione lucida e la coscienza sveglia. Altrimenti si alimenta la pandemia più grave: il contagio della guerra”.
MENO TIFO E PIÙ ASCOLTO!
Secondo il libro degli Atti degli apostoli, Gesù risorto si mostra ai discepoli, per quaranta giorni, parlando delle cose relative al regno di Dio. Durante quel tempo dice loro: voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra (Atti 1,3.8). Dunque, incontrare il Risorto, fare esperienza della resurrezione mette in conto un tempo lungo – quaranta giorni, cifra simbolica per dire un’ampia estensione del tempo. Si tratta, poi, di un’esperienza comunitaria, fatta dal gruppo dei seguaci di Gesù. Inoltre, il segno che si è stati raggiunti dalla Pasqua è un dono di potenza che strappa al lamento e rende testimoni dell’evangelo di Gesù.
Tre caratteristiche che – dobbiamo ammetterlo – ci mancano. Noi viviamo i tempi veloci, dove tutto accade in fretta; e ci sentiamo impotenti di fronte alle sfide troppo grandi di una storia che fatichiamo a capire, anche perché le affrontiamo individualmente.
Noi, che cosa sia il Regno di Dio, lo capiamo nel giro di un culto; ed entro le prime 24 ore in cui si manifesta un fenomeno – dal covid alla guerra – abbiamo già maturato un nostro giudizio e siamo pronti a esporlo a voce o sui social. Ci basta un colpo d’occhio per capire chi tifare, per abbracciare una bandiera e sventolarla come l’unica.
Certo, non tutte le persone affrontano le situazioni in questo modo. Ma, in generale, la tendenza sembra proprio questa: farsi un’idea velocemente, prendere posizione, trattare chi la pensa in modo diverso come un nemico. Siamo dei tifosi che urlano per incitare la propria squadra e per umiliare gli avversari. Non ci salta neanche in mente di poter fare qualcosa d’altro: siamo spettatori, non attori dello spettacolo. L’azione spetta ai potenti, mica a noi!
Di fronte a questo scenario, occorre scegliere di coltivare una vita spirituale e di farlo come comunità. Vi sembra un’idea assurda e sproporzionata rispetto alle sfide storiche che dobbiamo affrontare? A me, invece, sembra la sola possibilità per non continuare ad esistere come tifosi. Una vita spirituale non è un distacco religioso dalle situazioni ingarbugliate della vita. “Spirituale” non è il contrario di materiale, concreto: casomai di rassegnato. È lasciarsi attraversare dalla potenza dello Spirito, che accende uno sguardo diverso su questa nostra storia. Non è fuga dalla dura realtà: è disciplina mentale. È gesto politico di chi resiste alla propaganda – a tutte, di qualsiasi colore – e si prende del tempo per riflettere e vagliare le proprie emozioni, per ascoltare altri, in particolare la parola di quell’Altro che troviamo nelle Scritture, così da giungere a discernere senza semplificazioni cosa pensare e come agire in modo generativo.
La scelta più urgente sta nel coltivare l’interiorità, nel maturare anticorpi che resistano alla malattia del tifo. Il che significa scegliere di avere tempo per fare silenzio, lasciare decantare le proprie emozioni e ascoltare voci diverse dalla mia, verificare le informazioni, approfondire e studiare le questioni, pensare e ponderare le parole prima di pronunciarle, essere disposti a rivedere le proprie opinioni…
In una parola, tornare a vivere l’arte della preghiera. Pregare, infatti, non è dire delle parole a Dio: è scegliere di uscire dalle proprie abitudini per andare in un luogo appartato e lì custodire il cuore, coltivare l’interiorità, scavare a fondo fino a scoprire la propria umanità più autentica, nel dialogo con noi stessi, con gli altri e con Dio.
In questo consistono i lunghi quaranta giorni in cui i discepoli si lasciano ammaestrare dal Risorto e attendono da Dio una potenza che metta in azione, che strappi dalla posa dello spettatore per tornare ad essere testimoni di quella vita nuova, pasquale, che il tifo neppure immagina che possa esistere.
PASQUA OGNI GIORNO
Il Covid, la guerra (le guerre), con le loro scie di sofferenze fisiche, psicologiche, economiche, sociali… e la vita che continua, con la sua ordinarietà, fatta di momenti gioiosi e situazioni tristi, di banalità e sorprese. E noi che inseguiamo le situazioni, che alterniamo emozioni opposte, a volte gettando la spugna, altre volte mostrando una resistenza e una creatività di cui non ci credevamo capaci. Nel caos del mondo, nel caos degli affetti, la vita procede, più o meno bene: come potrebbe essere altrimenti? Ma non è poca cosa che si continui a vivere, che al risveglio si possa far conto su un grumo di energie e desideri che, nonostante tutto, ci tengono vivi. Vivere è anche un azzardo, che fa di noi degli acrobati, ogni giorno in equilibrio su un filo sottile, steso sopra l’abisso di una possibile disfatta. Ogni giorno a provare a “tenersi in piedi, nel mondo che vacilla”, come dice la poetessa Chandra Candiani. Non dobbiamo disprezzare queste piccole resurrezioni quotidiane, quei nuovi inizi poco appariscenti, che sono la materia delle nostre biografie. Perché, come ha scritto Madeleine Delbrêl,
Ogni mattina
è una giornata intera
che riceviamo dalle mani di Dio.
Dio ci dà una giornata intera
da lui stesso preparata per noi.
Non vi è nulla di troppo
e nulla di “non abbastanza”,
nulla di indifferente
e nulla di inutile.
È un capolavoro di giornata
che viene a chiederci di essere vissuto.
Noi la guardiamo
come una pagina di agenda,
segnata d’una cifra e d’un mese.
La trattiamo alla leggera
come un foglio di carta.
Se potessimo frugare il mondo
e vedere questo giorno elaborarsi
e nascere dal fondo dei secoli,
comprenderemmo il valore
di un solo giorno umano.
La resurrezione dalla morte sarà l’anello finale della catena della nostra vita, il compimento riuscito degli infiniti tentativi fatti ogni mattina di rialzarci. È stato così anche per Gesù: prima ha percorso le strade della Galilea, della Samaria e della Giudea , dove ha rimesso in piedi un’umanità ferita e desolata. Ha fatto risuonare in giorni tristi il lieto annuncio: “alzati e cammina”. E solo alla fine, ha scoperchiato la pietra del sepolcro che pretendeva di dichiarare sconfitto quel desiderio di vita.
Il Risorto è al cuore di ogni cosa. Abita persino i nostri giorni bui, quando è forte la tentazione di mollare il colpo e di procedere come sonnambuli privi di coscienza e di speranza, lungo le strade di una vita morta prima di morire. Anche lì, proprio lì, si manifesta il Risorto. Lui ci chiama per nome e asciuga le lacrime; ci spinge a gettare di nuovo le reti vuote dei nostri tentativi non riusciti, scommettendo che, alla fine, si riempiranno; ci mostra che le ferite sono feritoie da cui intravvedere una pace che sconfigge le paure.
Pasqua ogni giorno, ricominciando ogni mattina daccapo, fino quando giungerà il Suo giorno!
PASQUA E’ UN DRAMMA
Che cos’è una chiesa? È una comunità che ha come suo unico tesoro la Parola. Una Parola che convoca vite molto diverse e che desidera leggerle, interrogarle, illuminarle, consolarle, attraverso un lungo dialogo che, sovente, riveste i tratti del dibattito. Una chiesa è fatta di gente imperfetta, non certo migliore degli altri, che nutre un unico desiderio: attraversare l’esistenza ascoltando quella Parola. Una chiesa scommette che prima o poi quella Parola ci parli sul serio, dica quel segreto che a noi spesso sfugge. Ogni anno, daccapo. Con un’insistenza che, dal di fuori, può essere letta come fissazione, coazione a ripetere; ma che per noi è tenacia, desiderio di scavare più a fondo, anche quando ci sembra di averlo già raggiunto quel fondo. Ogni anno, alla scuola di questa Parola, al seguito di quel Gesù che è la Parola fatta carne. Ogni anno, anche in questo nostro mondo che ci osserva allibito, mentre insegue le ultime novità. Eccoci qui, ancora una volta, a misurarci con la Parola della Pasqua e a cercare di prepararci ad accogliere quella Parola con un cammino di 40 giorni, il tempo di Passione o Quaresima. Perché la Parola domanda il nostro tempo, chiede silenzio, pazienza nell’ascolto, forza nell’interrogarla e nel farci interrogare. Proveremo a fare questo anche quest’anno. Ma non per abitudine, per una sorta di forza d’inerzia religiosa. Il tempo storico non ci concede una simile pigrizia. Ogni anno l’ascolto di quella Parola avviene lungo strade diverse: non è mai la stessa acqua che scorre nel fiume della fede. Quest’anno noi iniziamo il cammino di attesa della Pasqua mentre come comunità stiamo leggendo il racconto della Pasqua d’Israele, narrato nel libro dell’Esodo. E mentre nel nostro continente impazza una guerra, con il suo carico di morti e di terrore. Forse, quest’anno intuiamo meglio che la Pasqua è un dramma: non un dramma dell’anima, un’inquietudine interiore che si tramuta presto in consolazione. No. Pasqua è un dramma che si consuma nel teatro della storia. Ha a che fare con esistenze ridotte in schiavitù in Egitto, con un condannato all’atroce pena capitale sul Golgota. L’abbiamo sempre saputo, è vero. Ma troppo in fretta siamo passati all’altra sponda del Mar Rosso e, dimenticando i lunghi quarant’anni di cammino nel deserto, abbiamo subito scorto la terra promessa, al di là del Giordano. Troppo velocemente abbiamo distolto gli occhi dalla croce per rivolgerli alla luce abbagliante del sepolcro vuoto. La Parola che leggiamo nelle Scritture non ha la medesima fretta. Tutt’altro! È Parola che invita a leggere la Pasqua – che significa “passaggio” – attingendo alla sapienza dei passaggi. Dove l’essenziale non è il punto d’arrivo: quello, le Scritture ci dicono essere totalmente nelle mani di Dio e irraggiungibile dalla mente umana. L’essenziale è il cammino. O meglio, il provare ad aprire cammini proprio là dove non se ne scorge traccia. Pasqua è attraversamento dell’oscurità: la notte in cui Dio passa per il paese d’Egitto, le tenebre del Golgota. Ed ora, il buio della guerra, delle ingiustizie, della miseria nera. Notti in cui si può perdere la fede, mentre siamo in balia di potenti fuori controllo e di un Dio che sentiamo abbandonarci. Notti che, solo per un miracolo divino, qualcuno prova ad attraversare, resistendo alla sfiducia, scommettendo sulla sapienza dei passaggi, anche quando chi apre la strada non arriva a vederne lo sbocco.
Ha scritto David Maria Turoldo:
«No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera
è al Venerdì Santo
quando Tu non c’eri
lassù.
Quando non una eco
risponde
al suo grido
e a stento il Nulla
dà forma
alla Tua assenza».
E a questi versi, ne ha aggiunti altri:
«Tu sei venuto tra noi
per mettere in fuga la morte
per snidare e uccidere la morte.
Anche a Te la morte fa male
per questo sei amico
di ognuno segnato dal male
e ogni male
Tu vuoi condividere».
Pasqua è un dramma: quello di un Dio che passa attraverso le ferite. Un dramma che domanda una fede che scommette sui passaggi – senza fuggire le tenebre e senza farsene immobilizzare.
LA FEDE E’ CERTEZZA DI COSE CHE SI SPERANO
La certezza della fede nell’incertezza della storia
“La fede è certezza di cose che si sperano” (Ebrei 11,1).
Certezza è un sostantivo che deriva da “certo”, che vuol dire assenza di dubbi, garanzia, sicurezza.
Siamo al secondo mese del 2022 e abbiamo già sfogliato i primi 31 fogli di un libro dalle pagine misteriose ma anche avventurose.
Il futuro ci è sconosciuto, incerto. Il sentiero da percorrere ci appare inesplorato.
Eppure ci sono due cose certe su cui possiamo contare durante questo nuovo cammino:
– il Padre celeste ci ama; per Lui noi abbiamo un valore immenso;
– la meta, il traguardo finale sarà la vita eterna. Per quanto incerto sia il percorso, la destinazione è chiara.
Al popolo d’Israele che sta per entrare nella terra promessa viene detto:
“non siete mai passati per questa via” (Giosuè 3,4).
Una parola che viene detta anche a noi.
Accadranno nuovi eventi nella storia dell’umanità come nelle nostre vite personali; si modificherà il nostro carattere: ma lungo i sentieri inediti di questo anno saremo circondati dal suo amore e dalla sua misericordia.
Affronteremo nuove prove, saremo tentati, ma Egli sarà il nostro scudo.
Mentre muoviamo i nostri passi incerti, abbiamo la certezza che le sue promesse si adempiranno, che le nostre esigenze profonde saranno anticipate dalla sua sollecitudine.
Le stampelle e la Rocca
Quante volte nella vita ci siamo appoggiati a delle stampelle, a qualcosa che ci offriva un sostegno certo, necessario per continuare il cammino.
Pensiamo al lavoro, al matrimonio, alla famiglia, alla casa.
Percorsi che sembrano sicuri, all’improvviso svaniscono, si sgretolano, si spezzano.
Sembra quasi che una mano dispettosa urti la tua stampella per farti cadere.
Lo spavento e l’angoscia ti assalgono: dove mi appoggerò? Su chi potrò confidare?
Quando sei smarrito sei in preda ad una sensazione di angoscia che paralizza.
In simili momenti vedo profilarsi all’orizzonte l’immagine della rocca…
Dio è la Rocca sicura: e su quel sasso, su quello scoglio, grazie a quella pietra che fa da fondamento io rinasco, mi risollevo e proseguo il cammino.
(Anna Maria Cafiso)
2022
SCAVARE
– un augurio per il nuovo anno –
Alla soglia di questo nuovo anno, mi accompagna un verso del poeta Hölderlin:
“Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
Non è una frase ad effetto, un ingenuo “andrà tutto bene”, come quegli auguri di rito, pronunciati con le migliori intenzioni ma destinati a suonare poco credibili.
Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la tanto desiderata luce in fondo al tunnel potrebbe significare la fine di un periodo buio ma anche il faro di un altro treno che si sta dirigendo verso di noi dalla direzione opposta!
La storia è il regno dell’incertezza, non di un progresso garantito dall’avanzare degli anni.
E anche la fede, se prende forma dall’ascolto della Parola delle Scritture, non può essere intesa come una bacchetta magica che ci consente di evitare le situazioni negative o una polizza che ci tutela dai danni della vita.
La luce della Parola è lampada che non consente ai nostri piedi incerti di schivare il male ma di scavare nelle tenebre che spesso ci avvolgono.
Scavare, non schivare! È questo il senso di quel verso.
Ed è anche l’augurio che mi piacerebbe ci facessimo le une agli altri per questo nuovo anno: di provare ad affrontarlo con la sapienza di chi scava, con l’impegno di non rimanere in superficie, in balia delle reazioni di pancia, delle emozioni del momento.
Scavare l’esistenza vuol dire lasciarsi guidare dal desiderio di pensarla; e di continuare a farlo anche quando appare priva di senso, troppo dolorosa e inconcludente.
Scavare è l’arte dei cercatori di senso, di chi si impone di fare attenzione e non chiude gli occhi.
È la sapienza dei credenti che, con ostinazione, cercano le tracce di Dio nelle strade sporche e polverose del mondo.
Non siamo costretti a scavare a mani nude: abbiamo la pala della preghiera, che ci insegna ad esercitare un ascolto profondo della vita, uno sguardo penetrante sulla storia.
Non sarà un anno liscio come l’olio, tutto rose e fiori, ripieno unicamente di felicità. Ma potrà essere un anno buono, se lo vivremo intensamente, incoraggiandoci a scavare più a fondo, aiutandoci a farlo anche quando la dura scorza della terra ci spinge ad arrenderci, a mollare il colpo.
Auguri, dunque, a tutte le persone che si avventurano in questo nuovo anno con il desiderio tenace di scavare la vita!
NATALE 2021
Di chi è Gesù?
La parola che Dio ci rivolge ci giunge non come un ordine dall’alto o come una serie di affermazioni a cui aderire ma attraverso la sapienza del racconto. La Bibbia testimonia questo modo divino di comunicare offrendoci storie che fanno pensare; storie da ascoltare e da far dialogare tra loro; e anche da riscrivere, così che le nostre vite entrino in quelle storie.
Natale è un tempo in cui ascoltare la storia della nascita di Gesù. Ma quel racconto ci spinge a leggere altri racconti di nascite. L’evangelista Matteo, ad esempio, ci fa capire che la nascita di Gesù, per certi versi, assomiglia a quella di Mosè. Ed è come se ci dicesse: torna alle pagine iniziali del libro e rileggi quell’altra nascita. Un po’ come con una matriosca o con le scatole cinesi: una dentro l’altra. Ma per giungere al racconto in terra d’Egitto, le nostre dita che sfogliano il libro si imbattano prima su altre narrazioni che parlano di altre nascite. In particolare, il lettore curioso viene attirato dal racconto del cosiddetto giudizio salomonico (1Re 3,16ss). Si narra di due neonati, figli di madri che vivono nella stessa casa. Durante la notte, uno dei due muore. La madre, allora, scambia il figlio morto con il bimbo vivo dell’altra che, però, al suo risveglio, si accorge dell’inganno e si appella al giudizio del re Salomone.
Che storia tragica: mette in scena la morte al momento della nascita! E lascia che il cinismo astuto di una donna disperata abbia il sopravvento sugli affetti materni. Cosa c’entra questa storia con la nascita di Gesù? Perché le nostre dite indugiano su questo punto e non proseguono a sfogliare le pagine per giungere ad altre storie, più appropriate? Forse, perché le mani che girano le pagine sono le stesse che toccano la realtà, che entrano in contatto con una storia in cui anche Gesù è tirato da più parti, è rivendicato da più madri. Per una volta, proviamo a dare credito alla sapienza delle dita. Che ora scorrono per vedere come prosegue quello strano racconto. Salomone, ascoltate le parti in causa, emette la sua sentenza: «Dividete il bambino vivo in due parti, e datene la metà all’una, e la metà all’altra». Terribile! Deve morire anche l’altro bambino? La donna che ha scambiato i figli, la madre disperata del bimbo morto accoglie con favore la sentenza: «si divida!». Che donna snaturata, ci viene da dire. Però, mentre ne prendiamo le distanze, intuiamo che non è così lontana da noi, che viviamo in una società divisa, a tal punto conflittuale da desiderare solo l’annientamento dell’altro. Se non può essere figlio mio, che non sia nemmeno tuo. Se non posso essere felice io, ebbene neanche tu devi esserlo. La donna ingannata, la madre del figlio vivo, invece, si ribella alla sentenza: «Mio signore, date a lei il bambino vivo, e non uccidetelo, no!». Ed è questa sua reazione a far capire a Salomone che è costei la vera madre. Perché questa donna è preoccupata che il figlio viva e lo è al punto di rinunciare a rivendicare il proprio legittimo diritto sul neonato. Davvero è possibile che una madre faccia questo? Come può mettere a tacere il legame viscerale tra lei e il figlio? Come si riesce a mettersi da parte, a far tacere le proprie ragioni, avendo unicamente a cuore la vita dell’altro?
Torniamo alla nascita di Gesù. Di chi è Gesù? Di Maria e Giuseppe, degli angeli, di Dio, di Erode? A chi appartiene il Natale: alle chiese, all’umanità tutta, al mercato? È della madre di destra o di quella di sinistra? Di quella povera o della ricca? Della donna si vax o di quella no vax? “Cristo è forse diviso?” (1Corinzi 1,13). Appena nato, Gesù è tirato per la giacchetta, anzi per le fasce, quelle stesse fasce che avvolgeranno il suo cadavere, una trentina d’anni dopo. I personaggi del racconto evangelico insieme ai lettori, noi compresi, tutti schierati a rivendicare un possesso, a voler avere ragione a tutti i costi, anche al prezzo di uccidere quella vita appena sbocciata. Una morte in culla, un Natale mortale! Non sono un po’ così i nostri Natali? Belli, felici, luminosi, zuccherosi, pieni di doni ma senza bambino. Quest’ultimo abbiamo dovuto sacrificarlo per continuare a darci ragione, per coprire le nostre disperazioni. E se almeno per una volta provassimo ad ascoltare l’altra madre, quella vera? Se smettessimo di difendere la nostra reputazione, le nostre idee, le squadre del cuore e ci lasciassimo guidare unicamente dal desiderio che l’altro viva? Non è questione di abbandonare le proprie convinzioni, di smettere di pensare, di illuderci che nella storia si possa uscire dal conflitto. No. Ma di chiederci: cosa mi sta veramente a cuore? Nel groviglio dei sentimenti contraddittori che albergano nel mio cuore, a chi spetta l’ultima parola: al mio io o al desiderio di generatività?
Proviamo in questo Natale a fare spazio a quel Dio che è venuto affinché tutte e tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.
DOMANDA DI SALVEZZA, DOMANDE SULLA SALVEZZA
Siamo una chiesa che prova a muovere i suoi passi nel labirinto di questo presente oscuro e lo fa non sulla base di un chiaro piano di azione ma confidando nelle indicazioni della voce divina. Come ad Abramo, sentiamo che anche a noi Dio dice: “Va’ via dal tuo paese… e va’ nel paese che io ti mostrerò ” (Genesi 12,1). La voce ci invita a metterci in cammino ma ci nasconde la meta e le strade per raggiungerla. Esperienza ardua, al limite di quanto possa venire chiesto ad un essere umano. Mentre camminiamo nel deserto, a guidarci solo la figura sfuggente di una nuvola e un fuoco notturno (Esodo 13,21), ovvero quelle Scritture che sono pioggia che irrora la nostra terra arida e fuoco che accende passioni. Possiamo confidare solo sulla sapienza di quel Libro e sulle nostre domande con cui leggiamo il racconto biblico. Quest’anno leggiamo il libro dell’Esodo, il racconto fondatore del popolo eletto, schiavo in Egitto, urlante per l’oppressione subita, le cui catene vengono strappate dal Dio liberatore, così che possa fuggire dalla casa di schiavitù e incamminarsi verso la terra promessa. Chi non conosce quella storia? Eppure, ridotto così all’osso, correndo subito alla sua conclusione, il senso di quella vicenda sfugge e manca il bersaglio di interrogare i nostri vissuti. Forse, le nostre anime belle si sentono rassicurate al pensiero che Dio, in ogni caso, ci strappa dal male, ci libera dalla condizione di oppressione. Ma i nostri corpi affaticati sorridono di una salvezza che non sperimentano, in una storia che irride ogni desiderio epico di riscatto definitivo. Noi leggeremo, passo dopo passo, questo libro, provando a mettere tra parentesi quanto già sappiamo, quel riassunto mentale che rischia di non farci più leggere il racconto nel suo sviluppo. Proveremo a fare attenzione a quei dettagli, dietro i quali Dio ama nascondersi. Solo così, con la pazienza della lettura, potremo giungere ad udire quella voce di silenzio sottile che ci guida nel nostro deserto, così come ha fatto con le donne e gli uomini al seguito di Mosè. E insieme alla lettura rallentata e attenta, dobbiamo osare porre le nostre domande al testo, soprattutto a proposito di quella salvezza che ci appare, fin da subito, come il tema principale del racconto esodico.
C’è veramente una possibilità di salvezza per questa nostra storia? Cosa possiamo attenderci? E cosa dobbiamo fare? Come si tiene viva la speranza in un mondo che l’ha persa? Come possiamo contrastare il grande imperatore, noi che ci ritroviamo senza potere e senza sogni? E ancora: dice qualcosa questo racconto ai nostri giovani? Risponde alla domanda: da che cosa devo essere liberato? E a noi, adulti in una società sazia, che non sentiamo il bisogno di essere salvati ma solo di gestire al meglio le nostre risorse? Cosa fa scattare il desiderio di mettersi in cammino, di sfidare l’incertezza, lasciando una situazione faticosa, sì, ma certa? È veramente possibile cambiare mentalità, abbandonare il pensiero unico, quello imposto da chi detiene il potere? E cosa impedisce di tornare indietro, una volta sperimentata sulla propria pelle le difficoltà dell’impresa? C’è salvezza dalla paura, che spegne i desideri e dalla chiusura in se stessi, che ci porta a diffidare degli altri? Non è troppo bella questa immagine di un popolo che cammina insieme, visto che qui da noi ognuno cammina per conto suo? E come riconosciamo che ci sia un Dio e che si interessi delle nostre vite? Non sarà, forse, l’ennesimo miraggio che ogni cammino nel deserto prevede?
Ecco alcune domande con cui provare ad interrogare il racconto dell’Esodo. Altre, poi, sorgeranno in chi accetta la sfida di misurarsi con quella narrazione, che mette in scena la domanda di salvezza e che sollecita le nostre domande sulla salvezza.
Custodiamo, innanzitutto, le domande, come ci invita a fare il poeta Rainer Maria Rilke, nella sua Lettera ad un giovane poeta:
Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore
e cerca di amare le domande,
che sono simili a stanze chiuse a chiave
e a libri scritti in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano giorno
in cui avrai la risposta.
Buon cammino a tutti i cuori pensanti!
DUE PREGHIERE
Il pastore Bonhoeffer, mentre era in carcere, ha scritto una preghiera che richiama quei Salmi in cui il salmista si sdoppia e parla con la sua anima e, insieme, si rivolge a Dio. Alla fine di queste righe trovate questa intensa preghiera, che ci interpella personalmente e ci invita a porci a nostra volta la fatidica domanda; chi siamo, realmente? Quella preghiera è qui preceduta da una sua riscrittura non più in chiave individuale ma al plurale, riferita al nostro essere chiesa.
Chi siamo noi?
La gente che ci conosce dice bene di noi.
Riconoscono che siamo accoglienti,
che da noi si ascolta una Parola che parla alla vita.
Forse, nel passato, siamo stati visti con occhi sospettosi,
la sorte delle minoranze.
Ma oggi percepiamo sguardi di stima
e di attesa.
Chi siamo noi?
Persino alcuni che non hanno mai messo piede nei nostri locali,
domandano di noi.
Numeri esigui, certo, se raffrontati alla grande città.
Numeri ridicoli.
Sufficienti, tuttavia, per avere un po’ di autostima,
per sentirci riconosciuti.
Da voi non si è anonimi – dicono.
Voi avete anche le donne pastore.
Da voi le cose si decidono insieme.
I vostri culti non sono ingessati.
Siamo veramente così?
Siamo quello che gli altri dicono di noi?
Noi ci sentiamo fragili,
una minoranza insignificante.
Abbiamo solo due spiccioli,
come la vedova del Vangelo,
e persino quelli fatichiamo a mettere a frutto.
Noi non sappiamo se domani ci saremo ancora:
i vecchi se ne vanno e i giovani non ci sono.
Non riusciamo nemmeno a capire bene
cosa il Signore ci stia domandando,
come vivere e dire l’evangelo, qui e oggi.
Siamo come tutti:
disorientati, impotenti, delusi.
Non siamo migliori degli altri!
Non sappiamo quale segreta resistenza
ci spinga a continuare questa esperienza
di ascolto della Parola fatto insieme.
È solo la forza dell’abitudine
o c’è dell’altro,
il desiderio di condividere il sogno di Dio?
Chi siamo noi,
che procediamo a sbalzi di umore,
che abbiamo sentimenti misti
e, mentre scommettiamo sulla parola di Gesù,
la misuriamo con esistenze lontane da quella utopia?
Chiunque noi siamo, Tu ci conosci, o Dio:
noi siamo tuoi!
Non abbandonarci alla nostra desolazione.
Vieni a cercare le tue pecore perdute.
(Chiesa battista di Lugano)
Chi sono io? Spesso mi dicono questo e quello
che dalla cella in cui son tenuto
esco disteso, lieto e risoluto
come un signore dal suo castello.
Chi sono? Spesso mi dicono
che parlo alle guardie
con libertà, affabilità e chiarezza
come spettasse a me di comandare.
Chi sono io? Anche mi dicono
che sopporto i giorni infelici
imperturbabile, sorridente e fiero
come chi è avvezzo alla vittoria.
Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto quale io mi conosco?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli,
assetato di parole buone, di compagnia
tremante di collera davanti all’arbitrio e all’offesa più meschina,
agitato per l’attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per gli amici infinitamente lontani,
stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?
Chi sono?
Oggi sono uno, domani un altro?
Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me uno spregevole vigliacco?
Sono come un esercito sconfitto,
che si ritira in disordine davanti ai vincitori?
Chi sono io? Questo porre domande da soli è a mia derisione.
Chiunque io sia, tu mi conosci, o Dio, io sono tuo!
(Dietrich Bonhoeffer)
SGUARDO POETICO E CUORE SOGNANTE
Com’è difficile ripartire, quando non si sa bene dove andare! Da sempre, il mese di Settembre, dopo la pausa estiva, è sinonimo di ripartenza, di progetti e programmi, di attività riprese e di altre su cui scommettere. Ma ora, nel clima di disorientamento che respiriamo, sentiamo come una sfiducia di fondo rispetto alla possibilità di rimetterci in cammino. Le parole che, precedentemente, erano in grado di accendere l’entusiasmo o, almeno, di sollecitare la nostra buona volontà, ora ci suonano un po’ retoriche e destinate al fallimento. Come si ricomincia, in un tempo come questo?
Non lo sappiamo. E proprio perché viviamo nell’incertezza, non ci resta che provare a dare credito ad una parola altra, quella che le nostre madri e i nostri padri ci hanno consegnato come Parola di Dio.
“Io ti consiglio di comperare da me del collirio per ungerti gli occhi e vedere” (Apocalisse 3,18).
Partiamo dallo sguardo. Cosa vedi, quando guardi? Con che sguardo iniziamo questo nuovo anno ecclesiale? Dalla Sicilia in fiamme, questa estate una donna ha scritto questa riflessione sullo sguardo:
In questi giorni ho la sensazione di andare in burnout d’esistenza. Non ne posso più della malattia, del caldo, degli incendi, delle preoccupazioni. Questa mattina davvero sono scesa dal letto con la sensazione che tutto mi fosse insopportabile.
Poi ho trovato delle foto di mio figlio piccino. Allora ho capito.
La bruttezza ci deruba dello sguardo poetico sulla nostra vita. Sì, sguardo poetico, la più inutile delle risorse, senza profitto, senza guadagno, senza soluzione ai problemi. Solo la capacità di posarsi leggero, di aprire il cuore alla grazia cioè letteralmente alla benevolenza, al dono, all’avvenenza che muove all’amore, alla liberazione da una pena, alla leggiadria, all’aiuto di un dio. Bruciano le mie montagne, bruciano animali e case, mi bruciano le ossa, gli organi interni, mi bruciano gli occhi. La bruttezza di questo tempo è ferocemente oggettiva, concreta, spiazzante.
Allora con immensa fatica e alte probabilità di fallimento provo a tarare la bilancia della mia esistenza su unità di misura che facciano pesare di più quel che è personale e leggero a discapito di quel che è violento e reale.
No, non è una via di fuga, anche se fuggire in questo momento è quel che vorrei. È uno strenuo tentativo di tenere stretto ciò che è mio come identità e come esperienza.
Lo sguardo poetico non ha la capacità di evitare che le cose cambino, che i dolori arrivino, che la sconfitta bruci, che i sogni falliscano. Ha solo il potere di guardare a fondo. A quello che nessuna bruttezza può frantumare… e ognuno sa per se stesso quale sia il proprio irriducibile tesoro.
Ascoltiamo, insieme, un’altra parola delle Scritture:
“Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa,poiché da esso provengono le sorgenti della vita” (Proverbi 4,23).
Insieme allo sguardo, prendiamoci cura del cuore, come ci suggerisce il pastore Martin Luther King:
Tanti fra i nostri antenati cantavano canti di libertà. E sognavano il giorno in cui sarebbero potuti uscire dalla schiavitù, dalla lunga notte dell’ingiustizia (…) E cantavano così perché avevano un sogno grande e potente; ma molti di loro sono morti senza vederlo realizzato. (…) La lotta c’è sempre. Facciamo dichiarazioni contro la guerra, protestiamo, ma è come se con la testa volessimo abbattere un muro di cemento: sembra che non serva a niente. E molto spesso, mentre si cerca di costruire il tempio della pace si rimane soli; si resta scoraggiati; si resta smarriti. Ebbene, così è la vita. E quel che mi rende felice è che attraverso la prospettiva del tempo riesco a sentire una voce che grida: ‘Forse non sarà per oggi, forse non sarà per domani, ma è bene che sia nel tuo cuore. È bene che tu ci provi’. Magari non riuscirai a vederlo. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare. È bene che sia nel tuo cuore.
Buona ripresa, dunque: con sguardo poetico e cuore sognante!
ESTATE 2021
È l’estate dopo la pandemia. O almeno così la sentiamo: perché, cosa ci riserverà il futuro, non possiamo saperlo con certezza. Ma dopo il lungo periodo di confinamento, dopo la riduzione forzata delle attività per contrastare la diffusione del virus, ora che l’allarme sembra rientrare, sentiamo forte il desiderio di fare quello che fino all’altro ieri non potevamo fare: muoverci, incontrarci, rilassarci… goderci il periodo estivo. Qualcuno dirà che è un sentimento inopportuno e poco cristiano, in un mondo pieno di ingiustizie, dove milioni di persone vivono nella povertà, sono costrette a migrare, vengono sfruttate. È vero: la felicità, per essere tale, deve essere condivisa; il suo prezzo non può essere pagato con l’infelicità altrui. La Bibbia parla della vita buona, benedetta, felice, a proposito di un gruppo di schiavi, il cui lavoro nascosto permetteva ai liberi cittadini di godersi le opere faraoniche. Nel fare memoria del luogo originario della fede, ovvero l’evento dell’esodo – la liberazione dall’oppressione, che con Gesù diviene liberazione anche dalla morte – come credenti siamo sollecitati a guardare la storia con gli occhi di Dio, il cui sguardo non si allontana dalla scena della sofferenza. Ma quella scena siamo invitati a guardarla avendo nel cuore la promessa di una terra, in cui poter vivere felici. Credere nel Dio di cui parlano le Scritture significa essere abitati, allo stesso tempo, dall’inquietudine per il dolore che affligge il mondo e dal desiderio di una felicità per la quale tutte e tutti sono stati creati. Siamo tristi per i troppi morti della pandemia, come per ogni persona che soffre; e continuiamo a credere che, persino in questo nostro mondo, sia possibile vivere la vita buona.
Allora, il relax estivo non potrà essere solo il nostro privilegio, esibito sui selfie. Sarà, piuttosto, un riposo da godere e da pensare; un provare a stare bene noi e a far star bene quanti incontriamo. Perché godersi il meritato riposo non sia in contraddizione con una vita che non si limita a sopravvivere, che si interroga, che desidera crescere. Con le parole della poetessa Mariangela Gualtieri:
Diventeremo cosa?
Diremo io o noi? E quanto grande il noi
quanto popolato? Che delicata mano
ci vuole ora, e che passo leggero, e mente
acuta, pensiero spalancato al bene.
E allora, ecco i compiti per l’estate, suggeriti dal maestro Gianni Rodari:
Signor maestro, che le salta in mente?
Questo problema è un’astruseria,
non ci si capisce niente:
trovate il perimetro dell’allegria,
la superficie della libertà,
il volume della felicità…
Quest’altro poi
è un po’ troppo difficile per noi:
quanto pesa una corsa in mezzo ai prati?
Saremo certo bocciati”.
Ma il maestro che ci vede sconsolati:
“Son semplici problemi di stagione.
Durante le vacanze
troverete la soluzione.
Insieme ai compiti, la benedizione del Signore, scritta dalla pastora luterana Nadia Bolz-Weber:
Amici umani, siamo d’accordo sul fatto che i nostri cuori sono cose disordinate e complicate e che i cliché e i sentimenti dei biglietti d’auguri non si avvicinano nemmeno lontanamente alla loro effettiva realtà. Quindi, la benedizione più onesta che posso offrire è che tu possa trovarti sorpresa dal tuo stesso cuore. Che possa sentirlo soffrire per persone che non ti piacciono nemmeno tanto. Che tu possa sentire che ama qualcosa di completamente improbabile. E quando il tuo cuore è pieno, possa tu non perdere tutto chiedendoti quando si romperà di nuovo Che tu possa riaccoglierlo a casa quando si è smarrito e ha dato pezzi di sé a chi non potrà mai riamarlo. Che possa tornare a te. E che tu possa scoprire che sta guarendo proprio dalle cose che pensavi potessero distruggerlo. AMEN.
IL DONO DELL’IMMAGINAZIONE
A Pentecoste abbiamo fatto memoria del dono dello Spirito. Lo Spirito è lingua di fuoco, che fa della lettera morta delle Scritture una parola viva, capace di accendere passioni. Come ha detto Gesù, lo Spirito santo vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto (Giovanni 14:26); egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future (Giovanni 16,13). Lo Spirito riaccende il fuoco della Parola antica, che la cenere del tempo e dell’abitudine rischia di soffocare. E spinge a guardare il futuro con coraggio e creatività. È Lui a far sorgere nei cuori l’immaginazione, a donare uno sguardo che sappia trasfigurare la realtà.
Narra una storia di un uomo che si era imbattuto in tre lavoratori duramente impegnati a spaccare pietre. Quando chiese loro che cosa stessero facendo, i tre – seppure apparentemente immersi nella stessa attività – gli diedero tre risposte molto diverse. Il primo disse, stizzito e nervoso, che era impegnato in un lavoro stupido e doloroso; il secondo nominò la fatica ma aggiunse che almeno poteva rimanere all’aperto; mentre il terzo sorprese completamente il suo interlocutore: «Costruisco una cattedrale».
Pur lavorando duramente, l’ultimo operaio risponde con parole abitate dal domani, con una visione radicata nell’oggi ma capace di anticipazioni sorprendenti. Lo Spirito forma persone con questo sguardo, capaci di simili parole. Persone che, anche quando raccontano le resistenze del mondo, danno l’impressione di costruire qualcosa di grande. Certo, la nostra facoltà immaginativa è capace di tutto, lo sappiamo. Immaginando, noi possiamo perderci o ritrovarci, coprire di bugie i vuoti della vita o aprire spazi chiusi a chiave per paura; possiamo rifugiarci nel passato della nostalgia o fare fretta al futuro costringendolo ad anticipazioni promettenti; tradire la realtà o salvarla attraverso una nuova e audace forma di attenzione. Lo Spirito abita le nostre vite e ci invita a coltivare un’immaginazione che non sia fuga dalla realtà ma desiderio di una vita creativa, generativa.
In questo tempo in cui avvertiamo il bisogno di tornare a quei gesti che, prima del virus, eravamo soliti fare, non facciamo del ritorno alla normalità un giocare al ribasso con la vita; non spegniamo il desiderio di vivere la vita buona che Dio ha sognato per noi; non accantoniamo il compito dell’immaginazione. Scriveva Etty Hillesum prima di morire ad Auschwitz: «se non sapremo offrire al nostro mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo, e non un senso nuovo delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e desolazione, allora non basterà». Mentre ringraziamo Dio di essere vivi, di aver superato indenni la pandemia, invochiamo il dono dello Spirito, che accenda nuovi sguardi e ci faccia osare di immaginare nuovi stili di vita. Qualcuno ha detto che “peggio di questa crisi c’è solo sprecarla”. Facciamo un buon uso della crisi. Ogni crisi può essere un’occasione per evitarci il peggio, se ci liberiamo del nostro immaginario di sicurezza: a volte sembriamo quei passeggeri che hanno in mano un biglietto scaduto e lo agitano in modo ostentato davanti al controllore, nella speranza che quello non vada a leggerlo proprio da vicino!
Lo Spirito ci aiuti a riconoscere che cosa conta e che cosa passa, a separare il necessario dal superfluo, a fare i conti con le patologie e gli squilibri sociali, culture dello scarto, disuguaglianze, indifferenze. Lo Spirito continui a ricordarci la parola di Gesù, che sta alla radice della nostra esperienza credente e ci spinga a guardare il futuro con l’immaginazione della fede. «Le radici dovrebbero avere fede nel fiore» (Maria Zambrano).
ESSERE LUMINOSI NELLA FRAGILITÀ DELLA VITA
All’inizio di quest’anno scolastico è arrivata nella classe in cui insegno una nuova allieva, Emi. Il primo giorno di scuola, quando ho chiesto a lei di presentarsi, fra altre cosa ha detto: “i miei fratellini sono andati”. Ho avuto bisogno di un minuto per capire il senso di quella frase e spiegarla, poi, agli altri bambini, che non avevano compreso. Emi ha avuto due fratellini affetti da SMA, ovvero atrofia muscolare spinale, una grave malattia degenerativa che porta alla morte. Emi è una bambina speciale, come lo erano anche i suoi fratellini, che io ho conosciuto leggendo la loro storia nel libro “Nicolas. Un bambino luminoso”, scritto da Pietro Acler. Voglio condividere con voi alcune righe di questo libro. In un primo tempo, avevo pensato di commentarle; ma poi ho capito che non hanno bisogno di commenti: parlano da sole e sono sicura che faranno breccia anche nei vostri cuori.
“Di fronte alla mia ferita, di fronte alla mia fragilità le persone possono avere due atteggiamenti diversi: girarsi dall’altra parte e scappare, magari con un sorriso intriso di tristezza e paura, oppure avvicinarsi fino a entrare in me, nella mia ferita, lasciarsi abbracciare e coccolare dalla mia fragilità che, in fondo, è una delle poche cose che posso donare. Questo è straordinario perché io con la mia fragilità posso aiutare gli altri a crescere: posso aiutarli a trovare sé stessi. Chi sta con me deve togliersi la maschera: se entra nella mia ferita, anche lui come me diventa ‘ferita’, diventa ‘fragilità’! E presto scoprirà quanto ciò sia vero e importante e quanto invece il mondo che corre là fuori, sia spesso apparente e illusorio”.
“Quanta gente è entrata nella mia vita senza che io neppure lo sapessi! Forse non è vero che per conoscere le persone devi viaggiare, muoverti O spostarti in continuazione perché può accadere anche il contrario: stai fermo e le persone vengono da te, ti cercano e ti trovano, forse senza volerlo, a volte semplicemente per un caso, che un caso non è. Il “caso” della mia madrina sembra essere molto eloquente: arrabbiata con Dio di fronte al dolore della mia famiglia e nel vedere due bambini gravemente ammalati avviarsi inesorabilmente verso la loro fine, è addirittura incerta nell’accettare il ruolo che le viene proposto perché avverte una contraddizione tra ciò che sente interiormente e la visione della fede cristiana che porta a scrutare oltre, a scorgere l’amore di Dio al di là delle cose, delle situazioni, anche le più difficili, anche le più assurde. Che impegno avrebbe potuto prendere nei confronti del suo figlioccio standogli accanto in un cammino di fede? Non ho ben presente cosa abbia detto esattamente il sacerdote cui è stata posta la questione e che ha incoraggiato la mia futura madrina a non rinunciare, accettando quindi il compito di accompagnarmi in questo splendido viaggio, ma ho l’impressione che sia andato oltre i confini della mente, delle idee, delle perplessità per arrivare dritto al cuore, lì dove tutto ha un perché, dove ogni cosa acquista senso. È come se le avesse detto: ‘Non preoccuparti, tu stai con Nico… ci penserà lui!’. E in me ha trovato, a suo dire, la salvezza, un testimone dell’amore di Dio”.
“Io, ora, torno a casa perché nel film della mia vita c’è scritta la parola Fine. Rimangono solo i titoli di coda ai quali di solito non si dà molta importanza: se sono accompagnati da una buona musica, si resta comunque seduti ancora un attimo finché non si accendono le luci in sala. Poi si esce; in strada scambi due parole con gli amici che ti hanno fatto compagnia durante la serata. Ci si saluta e ciascuno torna a casa, ognuno per vie diverse. A piedi, nel buio della notte, arrivi alla macchina e percorri a ritroso la strada fatta un paio di ore prima. Mentre entri in casa il pensiero è già alle mille cose che hai fatto oggi, a quelle che farai domani, ma c’è qualcosa di diverso, qualcosa è cambiato e avverti nell’aria un “non so che” di nuovo, di speciale. Non sei ancora sotto le coperte quando senti improvvisamente suonare il campanello. Non sarà né la prima né l’ultima volta perché, in quella notte, nel giorno successivo e in quelli che verranno, il campanello suonerà tante volte. Aprirai quindi la porta alla signora insonnia, la signora solitudine, la signora malinconia, il signor malumore, la signora rabbia. Ma suoneranno il campanello anche la signora simpatia, la signora allegria, il signor incanto, la signora meraviglia! Non preoccuparti: sono tutti amici miei, quelli che hanno suonato il campanello di casa per cinque anni e mezzo. Li conosco perfettamente e ti prego di salutarli a nome mio. Solo una cosa ti raccomando: accettali con un sorriso, anche se la prima impressione non fosse particolarmente buona, dà loro il benvenuto, chiamali per nome, porgi la mano e, se ce la fai, abbracciali con affetto! Poi ascolta cosa hanno da dirti: non sono sempre cose brutte, anzi! Se così farai, qualunque sia la tua età, sarai anche tu un bambino luminoso”.
(Geisa Navarro)
SI SALVI CHI PUÒ… CI SALVI CHI PUÒ!
– Una preghiera per questa Pasqua –
Salva te stesso e scendi giù dalla croce! (Marco 15,30).
Signore, noi siamo come la folla che assiste allo spettacolo della croce. Noi, preoccupati di salvarci, al tempo della pandemia. Noi, incapaci di interrogarci sul senso della croce, sulla sfida che ci pone. Se non si trattasse di Te, tireremmo un sospiro di sollievo, pensando che non siamo noi ad essere appesi a quella croce. Siccome, però, ci sei Tu su quel patibolo, scacciamo questo pensiero indecente e preferiamo correre in fretta alla scena del sepolcro vuoto, della vita che ha sconfitto la morte. Come ci piace la tua resurrezione! Fa da specchio al nostro bisogno di happy end, di sentirci salvi. Amiamo la Pasqua che cancella la croce, che ci fa voltare pagina e ci porta il lieto annuncio che, anche quest’anno, ci siamo salvati. Una Pasqua personalizzata, tagliata su misura. L’importante è che sia io ad aver attraversato il Mar Rosso; che sia io ad essere uscito dal sepolcro. Che gli altri affoghino e rimangano chiusi nelle tombe sigillate, non mi riguarda. Mi dispiace, certo, ma non posso farci niente. Di fronte alle minacce e ai pericoli della vita, vale solo il “si salvi chi può”.
Signore, siamo uomini e donne che hanno questi pensieri, che vivono così. Tu ci conosci nell’intimo e per noi invochi Dio: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Luca 23,34).
È vero, ci succede di vivere senza sapere bene in cosa consista la vita buona, che Tu hai sognato per noi fin dalla creazione del mondo. Ci basta sapere di essere vivi, di essere sfuggiti al virus, come se la salvezza fosse solo l’aver scampato il pericolo e non anche una terra da abitare diversamente, un camminare in novità di vita. Riconosciamo di non essere migliori degli altri, di coltivare desideri piccoli, senza visioni.
Nella memoria della tua passione, noi ti chiediamo perdono, Signore, per ogni volta che abbiamo pensato di salvare la nostra pelle, dimentichi degli altri. Tu ti sei preso cura dei tuoi, ti sei fatto prossimo a questa nostra umanità mezza morta e l’hai amata fino alla fine. Noi non abbiamo ancora imparato la lezione. Pensiamo di salvarci da soli, reputiamo ingenui i gesti di attenzione, il desiderio che gli altri possano stare bene, un lusso che non possiamo permetterci. Dalla tua croce, ancora una volta, mostraci cosa significhi amare, come superare il nostro piccolo io che ci tiene in ostaggio, quali scelte compiere.
Nella memoria della tua passione noi ti chiediamo perdono, Signore, per ogni volta che abbiamo pensato di sapere tutto della vita, di essere uomini vissuti. Noi abbiamo accumulato esperienze, ci siamo fatti una posizione nella società, facciamo parte di una chiesa. Noi sappiamo cosa significhi vivere… Perdona la nostra presunzione. E fa’ che in questo tempo di pandemia, che ha interrotto e messo in discussione tante nostre abitudini, possiamo ripensare a fondo il senso della nostra umanità. Aiutaci a farlo ai piedi della tua croce.
Solo così sorgerà anche per noi l’alba della Pasqua e sperimenteremo la vita nuova, da vivere insieme: una vita libera dalla gabbia delle nostre ossessioni, libera di correre dalle sorelle e dai fratelli per dire loro le tue parole: Pace a voi! (Giovanni 20,19).
Ci salvi chi può: Tu, il Crocifisso risorto!
SOSPESI… VERSO LA VITA
Questa è esattamente la sensazione…: ”Essere sospesa….“. La vivo, la sento, la percepisco… Non ci sono appigli. Quello che esisteva è scomparso, o è completamente diverso, o si sta trasformando… e noi con lui…
È una specie di salto nel vuoto, da una dimensione ad un’altra, da un’epoca ad un’altra, in cui siamo affidati solo a noi stessi e a Dio che certamente sta agendo per il meglio, anche se non sempre lo capiamo.
Sospesi. Si è interrotto il prossimo passo che davamo per scontato, la sequenzialità che scandisce le nostre giornate. Si è rotto il tempo e non ci rimane che restare in attesa. In attesa che la tempesta passi. Ci troviamo in bilico tra un passato familiare e rassicurante, che ci sembra irrimediabilmente lontano e un futuro incerto difficile da immaginare, impossibile da progettare. Quello che resta è allora il presente, carico di preoccupazioni e dubbi. Vivere alla giornata non è facile. Abbandonarsi all’inconsapevolezza non ripaga dall’area plumbea che anche chi fugge non può non sentirsi addosso. Né riesce a consolarci il pensiero di essere dentro una svolta della storia.
È proprio così, siamo fatti per fluire, per generare. Siamo fatti per creare futuro. Quando il futuro si annebbia e diventa impossibile sognarlo o crearlo, qualcosa si blocca dentro di noi fino alla disperazione o alla fuga in una solitudine malinconica che insidia ogni aspetto della vita.
Ad offrirci una speranza sono gli aspetti essenziali della nostra esistenza che è fatta di corpo, di tempo, di altri. Lasciamo respirare il nostro corpo, libero, senza contrazioni e senza sospensioni, cogliendone fino in fondo l’energia. Abitiamo il tempo, dilatando il presente e riducendo il progetto a lungo termine: se restiamo in contatto con noi stessi e con Dio un’alba nuova sorgerà. E poi gli altri. Vegliamo a non chiuderci negli egoismi impauriti che riemergono, a volte violenti, in un momento in cui ognuno è tentato di pensare solo a sé stesso. Ritroviamo il gusto di guardarci negli occhi, scambiarci vicinanza e calore, di sperimentare quell’appartenenza (che è appartenenza all’umano, appartenenza al Creatore e al creato) che ci aiuta ad attraversare i possibili deserti della solitudine e della sofferenza.
Imparare a generare amore (è la mia preghiera quotidiana). Questo rimanere nell’accoglienza, nella cura, questo dar senso all’istante in vista del bene dell’altro. Parlavo con le mie amiche durante una passeggiata e ci dicevamo di quanta vita e di quanta vitalità questo virus sia riuscito a sospendere. Ci siamo accorte che la nostra conversazione affondava nella tristezza contagiando il nostro stato d’animo. Allora improvvisamente ci siamo guardate e scambiate un sorriso, abbiamo iniziato a condividere tutte le cose belle che in questo tempo sospeso la vita ci ha regalato, tra cui la nostra amicizia calda e rassicurante… come un abbraccio che non finisce mai… E così ci siamo rese consapevoli che c’è un luogo dove il tempo continua a scorrere sereno, immune da qualsiasi sospensione e interferenza: è il nostro cuore che batte, che richiama alla vita, il centro dell’esistenza. Amare ed essere amati. Rinascere. Come a dire che lì, pur con tutte le paure e le fibrillazioni del presente, lì dove il legame si fa più stretto e l’amore viene offerto in dono, il virus non ha presa.
Mentre fluiamo “sospesi“, ci incontriamo e ci riconosciamo, ci rassicuriamo e ci teniamo compagnIa, ci abbracciamo e ci facciamo del bene.
Rinnovare lo sguardo su questo tempo faticoso, riconciliarci con il presente, con noi stessi e gli altri ci aiuta a resistere ad ogni sospensione. Entrare in questa prospettiva ci apre a una speranza costruttiva, vera, autentica, dove le relazioni, i progetti in cui siamo impegnati, le attività quotidiane, hanno un valore e un senso al di là dell’esito finale. (KATIA ZANETTI)
ADESSO
Bisogna trovare, in mezzo ai piccoli pensieri che ci danno fastidio, la strada dei grandi pensieri che ci danno forza (Dietrich Bonhoeffer).
Non è cambiato molto rispetto allo scorso anno. Anche in questi mesi iniziali del 2021 la realtà è rimasta la stessa. Il quotidiano vivere di ciascuno di noi rimane segnato dalla fatica, dalle paure, dalle preoccupazioni e dalle sofferenze legate al diffondersi della pandemia.
Oppure qualcosa è cambiato? Dentro di noi, attorno a noi, nei nostri sguardi? Dipende da noi iniziare una stagione nuova, ricca di novità che ancora non conosciamo, che ancora non abbiamo imparato a discernere: “Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; non la riconoscerete?” (Isaia 43,19).
Aver cura del tempo che stiamo vivendo, di questo presente che è “Adesso”, chiede attenzione, una comprensione che si dilata oltre il noi, chiede che il nuovo sia novità di sguardo, speranza rinnovata, possibilità riconsegnata al futuro, chiede di credere che “il meglio nostro di specie sta davanti, non nel passato”.
È quanto ci dice la poetessa Mariangela Gualtieri, con i suoi versi che parlano di futuro e del “noi” che vive già ora la grande avventura di ciò che diventeremo.
Buon futuro, che inizia adesso!
Adesso
Adesso è forse il tempo della cura.
Dell’aver cura di noi, di dire
noi. Un molto largo pronome
in cui tenere insieme i vivi,
tutti…
Si può pensare che forse c’è mancanza
di cura lì dove viene esclusa
l’energia femminile dell’umano.
Per quella energia sacrificata,
nella donna e nell’uomo, il mondo
forse s’è sgraziato, l’animale
che siamo s’è tolto un bene grande.
Chi siamo noi? Apriamo gli occhi.
Ogni millimetro di cosmo pare
centro del cosmo, tanto è ben fatto
tanto è prodigioso.
Chi siamo noi, ti chiedo, umane e
umani? Perché pensiamo d’essere
meglio di tutti gli altri? Senza api
o lombrichi la vita non si tiene
ma senza noi, adesso lo sappiamo,
tutto procede. Pensa la primavera scorsa,
son bastati tre mesi – il cielo, gli animali
nelle nostre città, la luce, tutto pareva
ridere di noi. Come liberato
dall’animale strano che siamo, arrivato
da poco, feroce come nessuno.
Consideriamo il dolore degli altri
e delle altre specie.
E la disarmonia che quasi ovunque portiamo.
Forse imparare dall’humus l’umiltà. Non è
un inchino. È sentirsi terra sulla nobile terra
impastati di lei. Di lei devoti ardenti innamorati.
Dovremmo innamorarci, credo. Sì.
Di ciò che è vivo intorno. E in primo luogo
vederlo. Non esser concentrati
solo su noi. Il meglio nostro di specie
sta davanti, non nel passato. L’età
dell’oro è un ricordo che viene
dal futuro. Diventeremo cosa? È una
grande avventura, di spirito, di carne,
di pensiero, un’ascesa ci aspetta.
Eravamo pelo musi e code.
Diventeremo cosa?
Diremo io o noi? E quanto grande il noi
quanto popolato? Che delicata mano
ci vuole ora, e che passo leggero, e mente
acuta, pensiero spalancato al bene. Studiamo.
Impariamo dal fiore, dall’albero piantato,
da chi vola. Hanno una grazia che noi
dimentichiamo. Cura d’ogni cosa,
non solo dell’umano. Tutto ci tiene in vita.
Tutto fa di noi quello che siamo.
Ama il prossimo tuo come te stesso
Da alcune settimane mi ritrovo spesso a pensare a questa frase, all’amare il proprio prossimo e se stessi; da un po’ di tempo anche nel mio ambito lavorativo cerco di confrontarmi con questo invito-sollecitazione lasciataci da Gesù. Io lavoro con persone sofferenti, problematiche, spesso autodistruttive, con individui che non si amano e che ripetutamente si fanno del male. Come si fa ad amarsi e ad amare? Per la nostra tradizione questi due termini – “amare il prossimo” e “amare se stessi” – sono ritenuti in contraddizione tra loro. La cultura in cui sono cresciuto mi ha fatto giungere il messaggio che chi ama il prossimo è una persona con un cuore grande, che mette in secondo piano i propri bisogni rispetto a quelli degli altri; mentre chi ama se stesso è un egoista, che mette al centro di tutto se stesso e gli altri sempre un attimo dopo. Quanta tensione tra queste due polarità! Inoltre, nella grande famiglia del cristianesimo, nei secoli, sembra avere assunto valore la rinuncia, la sofferenza, il sacrificio. Come intendere l’invito ad amare se stessi? Io penso che significhi prendersi cura di sé, del proprio corpo, che in questa vita terrena è l’involucro che ci contiene. È la sede non solo degli organi vitali ma anche delle emozioni e dei sentimenti. Da sempre, individuiamo in alcuni dei nostri organi la sede della nostra emotività; e quando soffriamo o proviamo forti emozioni questi organi soffrono o gioiscono con noi. Non siamo solo mente o solo corpo: esiste una connessione tra corporeo e mentale, tra fisico e emotivo; siamo un tutt’uno fatto di materia, emozioni e pensiero. E affinché questo corpo possa continuare a vivere, bisogna volergli bene, occuparsene, prendersene cura. Ma non è solo del corpo che ci si deve occupare. Amare se stessi significa anche creare situazioni dove stare bene, essere felici, in contatto con la natura, con il silenzio, assaporare suoni, profumi, colori, ritmi che non appartengono alla città o al centro commerciale. Amare se stessi è anche prendersi cura dell’ambiente che ci circonda, rendere la propria casa accogliente, compiere piccoli gesti quotidiani come accendere una candela prima di fare la colazione o la cena, tenere una piantina o un fiore reciso sul tavolo, mettere attenzione nel preparare il cibo, ricordarsi che la propria casa è il luogo dove ci si ritira dopo una giornata di lavoro, dove possiamo rilassarci, dove stare bene: la casa è un luogo da curare e rendere il più possibile bello ai nostri occhi. Volersi bene è anche concedersi il tempo e lo spazio per favorire situazioni dove essere in pace e in armonia con se stessi e con il creato. Volersi bene significa avere una vita dignitosa, incentrata su quell’amore gratuito e immenso che Dio ha per noi: ognuno di noi è speciale e unico agli occhi di Dio ed è amato per quello che è, per come è. Una vita nell’amore è una vita con uno sguardo che tende al bello, al piacere, alla gioia. Riuscire a provare gratitudine per quello che abbiamo e dedicarsi momenti in cui fermarsi per rendersi conto di dove ci si trova, potere godere di scorci e panorami che ci nutrono, di opere d’arte, di musica, di parole lette e magari scritte da noi. Amare se stessi vuole dire contattare e nutrire il divino che c’è in noi, l’amore in noi e verso di NOI. “Ama il prossimo tuo come te stesso” ma anche “ama te stesso come il prossimo tuo”. Gesù ci chiede di amarci, di volerci bene, di coccolarci, di avere stima, attenzioni e cure verso di noi. Perchè solo amando se stessi si possono amare gli altri. Solo se ho dentro di me l’esperienza dell’amore, se credo e riconosco le mie capacità, sarò in grado di riconoscere queste qualità nell’altro e di incontrare il mio prossimo.
Ma come si fa ad “amare il prossimo”? E chi è il mio prossimo? Gesù non indica delle categorie: familiari, amici, fratelli di chiesa, appartenenza geografica, sociale o politica, di genere, di religione, di razza. Ci dice: “il prossimo tuo” è chiunque incontri, ognuno che incrocia la tua vita. Farsi prossimi richiede un atteggiamento di apertura, accoglienza, ascolto, riconoscendo all’altro la stessa dignità che riconosciamo a noi stessi. Serve la curiosità di conoscere altre storie e altre vite, non nascondendosi dietro i pregiudizi, non facendo della paura l’unico nostro metro di misura, non trasformando in nemico chi è differente da noi. È nel nostro quotidiano che dobbiamo esercitare una modalità di apertura, un desiderio di incontro con l’altro: salutare chi incontriamo, offrire un sorriso, rendersi disponibili ad ascoltare o aiutare chi in quel momento avvertiamo come fragile e bisognoso del nostro aiuto, del nostro tempo. Dunque, amare il nostro prossimo comporta il non essere indifferenti di fronte a ciò che ci circonda, non girare la testa o passare oltre ignorando un’ingiustizia, un sopruso; attivare un atteggiamento da buon samaritano, che offre il proprio aiuto a chi ne ha bisogno al di là di chi sia.
In questo periodo così complicato, denso di paura, che sembra dirci che l’altro è un potenziale nemico, che il prossimo va evitato, c’è ancora maggior bisogno di gesti di attenzione, di cura, di un sorriso e di una parola di sostegno, conforto. Per noi e per tutti. (Dino Bianchi)
SPILLOVER
NATALE 2020
Sapete cosa vuol dire “spillover”? Probabilmente, avrete sentito questa parola intrufolarsi nei discorsi degli esperti a proposito della pandemia. Spillover significa “salto di specie”. Come quello fatto dal virus, che ha varcato il confine tra il regno animale e quello umano, abbandonando il pipistrello per occupare le nostre cellule. E questa presenza silenziosa ed ostile ha messo sottosopra il nostro mondo. La prossimità è divenuta minaccia e la distanza un obbligo morale; la pari dignità di ogni essere umano ha lasciato il posto a divisioni tra giovani e anziani, forti e deboli, sani e malati. Questo “salto di specie” parla il linguaggio della morte e suona come un verdetto di condanna sul nostro modo di abitare il mondo, di sfruttare l’ambiente. Chissà se le nostre orecchie saranno in grado di udire il campanello d’allarme, anche quando l’emergenza sarà del tutto rientrata. Chissà se saremo in grado di ripensare i nostri stili di vita, le priorità da ricercare. Qualcuno ha detto che peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi. Sarebbe il tradimento di quella sapienza biblica che insegna a cercare il bene anche nel male, ad apprendere dai nostri errori e a cambiare strada. Resta il fatto che questo spillover del virus ha seminato morte, paura, povertà.
L’evangelo ci parla di un altro spillover, un salto di specie vissuto da Gesù che da divino si è fatto umano, che da ricco si è fatto povero per condividere la nostra sorte e donarci la sua ricchezza (2 Corinzi 8,9). La sua nascita ha messo in circolazione un virus positivo, che, al contrario di quello che ora ci affligge, dà respiro ad un’umanità sofferente di asfissia, ricrea legami tra le persone chiuse in se stesse, fa rinascere la voglia di vivere laddove prevale la rassegnazione.
Giunti al termine di questo anno, che ha messo in discussione molto di quanto davamo per scontato, ci prepariamo a fare memoria del Natale di Gesù. A lasciarci sorprendere dalla buona notizia di un Dio che non guarda dall’alto in basso la nostra storia ma la condivide in prima persona, cammina con noi.
Natale parla il linguaggio della vita, della nascita. E proprio come oggi, anche duemila anni fa quel linguaggio risuonava in un contesto di morte e di sfiducia. L’evangelo del Dio-con-noi ha dell’incredibile e irrompe improvviso e imprevisto in una storia che sembra giunta alla sua conclusione. Riusciremo a credere a questo annuncio di vita e a ricercarne la luce, come i pastori, come i magi? O ci faremo ammaliare da Erode, che conosce solo la lingua della morte, che pensa solo a difendere la sua posizione eliminando gli altri?
Credere, oggi, al lieto annuncio del Natale vuol dire osare immaginare che il deserto possa fiorire, che la vita possa sbocciare nella sua bellezza anche in questa nostra terra desolata.
“La quercia chiese al mandorlo:
Parlami di Dio.
E il mandorlo fiorì” (Nikos Kazantzakis).
Buona preparazione allo spillover di Dio! Buon Natale!
Scommettere sull’amicizia
Non vi sembra che respiriamo con l’aria la paura dell’altro, possibile portatore di contagio? L’immunità dal virus ci appare raggiungibile solo al prezzo di lasciar perdere la comunità. All’individualismo orgoglioso di chi ritiene di farcela da solo è subentrato un individualismo preoccupato, che evita gli altri per non ammalarsi. Ma la preoccupazione per il proprio stato di salute ci mette in allerta non solo dal rischio del contagio. Come non essere preoccupati anche per la crisi economica, le ricadute sociali, l’alterazione psichica ed il pericolo della solitudine? Più si prolunga questo tempo dell’emergenza del virus e più sentiamo che, se l’unica preoccupazione è quella di non contaminarci, la vita si impoverisce. E così, insieme alla paura si fa spazio l’intuizione che è proprio in un tempo incerto come questo, dove ci sentiamo fragili ed esposti alla malattia, che possiamo riscoprire l’urgenza di coltivare le relazioni. Che nelle tenebre della paura possiamo dire: sia la luce dell’amicizia. Ma come diamo corpo all’amicizia? Ecco quanto suggerisce Wislawa Szymborska, nella poesia Domande poste a me stessa:
Qual è il contenuto del sorriso
e d’una stretta di mano?
Nel dare il benvenuto
non sei mai lontana
come a volte è lontano
l’uomo dall’uomo
quando dà un giudizio ostile
a prima vista?
Ogni umana sorte
apri come un libro
cercando emozione
non nei suoi caratteri,
non nell’edizione?
Con certezza tutto,
afferri della gente?
Risposta evasiva la tua,
insincera,
uno scherzo da niente-
i danni li hai calcolati?
Irrealizzate amicizie,
mondi ghiacciati.
Sai che l’amicizia va
concreata come l’amore?
C’è chi non ha retto il passo
in questa dura fatica.
E negli errori degli amici
non c’era colpa tua?
C’è chi si è lamentato e consigliato.
Quante le lacrime versate
prima che tu portassi aiuto?
Corresponsabile
della felicità di millenni-
forse ti è sfuggito
il singolo minuto
la lacrima, la smorfia sul viso?
Non scansi mai
l’altrui fatica?
Il bicchiere era sul tavolo
e nessuno lo ha notato,
finché non è caduto
per un gesto distratto.
Ma è tutto così semplice
nei rapporti fra la gente?
La poetessa ci invita a mettere da parte i grandi proclami sull’importanza dei legami: la retorica abbaglia, senza portare contributi significativi nel cantiere della costruzione del “noi”. Anche la retorica religiosa sull’amore reciproco. Di fatto, Gesù non ha elargito belle frasi ma ha mostrato con un preciso stile di vita come la Parola divina possa in concreto aprire agli altri, creare comunità. E non ha nascosto le difficoltà, come se non esistessero i nemici, i tradimenti, i fraintendimenti, le stanchezze. Di qui l’importanza delle domande, dell’interrogarci sui gesti ordinari dell’amicizia: che peso diamo ad un sorriso offerto o negato, alle parole che mettono in contatto ma anche feriscono, agli sguardi troppo veloci, distratti? E ancora: come superiamo l’irresistibile tentazione del giudizio, che tutto consuma senza esplorare? Come reagiamo alla paralisi degli affetti, all’amicizia mancata – irrealizzate amicizie, mondi ghiacciati – che ci priva del calore, del nutrimento necessario per la vita?
Il nostro presente ci sfida ad essere artigiani di relazioni e a farlo con molta responsabilità, mettendoci seriamente in gioco nei limitati contatti che abbiamo. Per questo, la prima mossa sulla via dell’amicizia sarà quella di rientrare in noi stessi e interrogarci sul senso di quanto facciamo e diciamo. Sul senso, prima ancora che sul gesto. Perché persino con un bacio si può tradire l’amico! Anche Gesù ci interroga: amico, cosa sei venuto a fare? (Matteo 26,50). Non vendiamo gli amici per trenta denari! È un guadagno meschino, una scelta che ci porta alla morte. Scommettiamo sull’amicizia, su un amore per nulla semplice ma che, per chi lo osa, si rivela forte come la morte. E mettiamoci all’opera per dargli forma nel nostro quotidiano.
IN ASCOLTO DELLA PAROLA E DELLA STORIA
Proviamo a ripartire. Lo facciamo con il culto domenicale, vissuto di nuovo ogni settimana, e con lo studio biblico in presenza. Sono due momenti costitutivi di una chiesa, che è una comunità convocata dalla Parola. Da queste due fonti scaturisce tutto il resto: la scuola domenicale per introdurre i più piccoli al mondo delle Scritture; le relazioni pastorali, per discernere cosa la Parola mi sta dicendo personalmente; i rapporti fraterni per sostenerci reciprocamente lungo la via tracciata dalla Parola. Dal momento che, senza l’ascolto della Parola, non esiste la chiesa, ciò da cui ripartiamo è quanto abbiamo sempre fatto. Ma questo non significa che ci limitiamo a schiacciare il tasto play dopo la lunga pausa. La Parola, annunciata nel culto e approfondita nello studio biblico, è voce che risuona in una storia. Come abbiamo scritto in vista della nostra Assemblea,
per una chiesa il tempo non può essere un contenitore vuoto, da riempire come più ci piace. Il tempo deve essere scrutato per coglierne i segni attraverso cui il nostro Dio ci interpella (Matteo 16,2-3). Il tempo è il terreno su cui il seme della Parola desidera attecchire per produrre quel frutto in grado di sfamare una determinata situazione storica. Per la fede cristiana è decisivo il principio dell’incarnazione: poiché persino Dio si è incarnato in una storia, anche noi siamo chiamati a vivere la fede incarnandola nel tempo in cui ci è dato di esistere. Impossibile pensare la fede in astratto, come una serie di credenze valide a prescindere dal contesto in cui ci troviamo. Una fede che si gioca solo interiormente, nell’anima, non è una fede biblica. La storia, però, non si lascia facilmente interpretare. Perlopiù ci sfugge il suo senso. Perché la storia non procede seguendo una logica: è il luogo dell’imprevedibile e dell’inafferrabile. Soprattutto per noi, che viviamo nell’epoca delle trasformazioni veloci, dell’inflazione di notizie (anche “false”, messe appositamente in circolazione per disorientarci), a cui si accompagnano una miriade di interpretazioni in opposizione tra loro. Come possiamo leggere il nostro tempo? Come discernere in quanto succede i segni con i quali Dio ci parla? E la nostra chiesa, quale testimonianza può offrire alla città di Lugano? Capiamo tutti che non si tratta di un’operazione semplice, a portata di mano. E già questo è significativo: ci induce ad un atteggiamento umile, che accetta l’incertezza di non vedere con chiarezza, di non saper leggere e tanto meno avere le soluzioni per far fronte ai problemi del nostro tempo. E se non abbiamo la verità in tasca, possiamo solo metterci in ascolto, farci domande, prenderci del tempo per un serio confronto. L’incertezza non per forza deve essere solo subita. Anch’essa è un “segno dei tempi” da interpretare, una Parola che Dio rivolge alla nostra generazione. A patto, però, che essa non ci paralizzi, con la scusa che in questa storia troppo aggrovigliata non sia possibile fare niente. Dovremmo vivere l’incertezza come “attesa” di una luce che non possediamo. Un’attesa non passiva ma riempita dall’ascolto.
È un tempo di pericolo ma anche di possibilità. Nella ferita, che ha colpito l’intero globo e che continua a preoccuparci – ogni giorno leggiamo i numeri degli infettati e dei morti – proviamo a scorgere una feritoia, uno squarcio per vedere più in profondità ciò che veramente conta, quel tesoro nascosto nel campo che il Signore ci domanda di cercare.
NELL’INCERTEZZA
Negli scorsi mesi, mentre facevamo l’esperienza inedita di dover rimanere isolati nelle nostre case a causa del virus, dopo lo shock iniziale, abbiamo provato ad attrezzarci per affrontare l’emergenza. Nella sospensione del modo consueto di vivere il lavoro, la scuola ed anche la vita nella chiesa, un po’ tutti abbiamo cercato altre strade da percorrere momentaneamente, in attesa che il tempo dell’isolamento sociale finisse. Ci siamo ritrovati spaesati, certo, ma abbiamo mostrato forza di sopportazione ed anche una certa dose di creatività. Cosa potevamo fare, del resto? E poi – così pensavamo – dopo l’estate, sarebbe finito tutto e allora avremmo potuto ricominciare. La preoccupazione che molti di noi avevano in quei mesi era quella di pensare una ripresa che non fosse semplicemente tornare a fare quello che facevamo prima ma che mettesse in campo un ripensamento degli stili di vita: un nuovo inizio che avesse i tratti della rinascita. Eravamo spaventati: sentivamo tante opinioni, opposte, ma in un certo senso avevamo fiducia che le cose si sarebbero sistemate e che, a settembre, il quadro della situazione sarebbe stato più chiaro e l’emergenza esaurita. Ora settembre è arrivato. E nonostante la fase acuta della pandemia sembra (così speriamo) alle nostre spalle, non abbiamo ancora chiarezze sulla situazione. Questo non sapere che cosa ci aspetta ci logora. Sappiamo che vivere comporta affrontare situazioni difficili, dolorose; ma crediamo anche che le difficoltà si possono risolvere. Non è così la vita di tutte le persone? Problemi e soluzioni, nero e bianco. Siamo meno attrezzati per affrontare il grigio, per rimanere nell’incertezza senza sapere bene cosa fare. Anche il nostro modo di vivere la fede sembrerebbe più in grado di aiutarci a fare i conti con le scene solenni del dolore e del riscatto che non col panorama piatto di un deserto privo di strade. Come possiamo vivere questa incertezza che perdura a lungo, mettendo a dura prova il nostro desiderio di tenere sotto controllo la situazione?
Proviamo a meditare quanto il pastore Bonhoeffer ha scritto in proposito:
Noi siamo cresciuti nell’esperienza dei nostri genitori e dei nostri nonni, secondo la quale l’uomo può e deve progettare, costruire, plasmare la sua vita con le sue proprie mani, secondo la quale esiste nella vita un fine, che l’uomo deve scegliere e impegnarsi a raggiungere con tutte le sue forze. Oggi, l’esperienza nostra è che non possiamo fare progetti neppure per l’indomani, che nella notte viene distrutto quello che si era costruito nel giorno, che la nostra vita – a differenza di quella dei nostri genitori – è informe o, se non altro, frammentaria. E tuttavia, nonostante tutto questo, dico e affermo che non avrei voluto e non vorrei vivere in un tempo diverso dal nostro, anche se esso disprezza e calpesta la nostra felicità esteriore. Si legge in Geremia: “Così parla il Signore: ecco, ciò che ho edificato, io lo distruggo; ciò che ho piantato, io lo sradico… E tu cercheresti grandi cose per te? Non le cercare! Ma a te darò come bottino la tua anima, dovunque tu vada” (45,4-5).Se dalla distruzione dei beni della vita noi riusciremo a recuperare intatta la nostra anima vivente, potremo esserne soddisfatti. Il compito della nostra generazione non sarà quello di mirare a grandi cose, ma di salvare la nostra anima dal caos, di preservarla e di vedere in essa l’unica cosa da mettere in salvo – come nostro bottino – dalla casa che brucia. “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso procedono le sorgenti della vita” (Proverbi 4,23). Dovremo portare, più che plasmare la nostra vita, dovremo sperare, più che pianificare, tener duro più che andare avanti.
CERCARE ANCORA
Durante il periodo in cui abbiamo vissuto lo shock di un intero mondo costretto a fermarsi a causa del virus, ci siamo resi conto della serietà della sfida che avevamo davanti. Siamo come stati costretti a ripensare le nostre vite, le relazioni con gli altri, il senso delle esperienze che danno forma alle nostre esistenze. Ora che il pericolo sembra più sotto controllo e che le attività sono riprese, pur con la cautela necessaria, è forte la tentazione di pensare i mesi precedenti come una parentesi da chiudere il più in fretta possibile, un passato da lasciarci alle spalle. Come se non avessimo imparato nulla da quanto ci è successo! Come se non scorgessimo l’azione dello Spirito negli avvenimenti della storia!
Quella che abbiamo vissuto – e in parte, continuiamo a vivere – è una crisi; ma le crisi possono anche rivelarsi dei doni meravigliosi. Per questo non dobbiamo gettarci alle spalle quanto abbiamo vissuto in questo periodo, provando piuttosto a discernere cosa lo Spirito stia dicendo alle nostre vite e alla nostra chiesa
Prendo spunto da alcune considerazioni fatte da Timothy Radcliffe, a partire dalla domanda: come possiamo riscoprire il dono della vita e della comunità in tempi di isolamento sociale?
Lo shock più evidente che abbiamo vissuto è stato l’essere stati privati del contatto. Non ci è stato possibile abbracciare e baciare le persone che amiamo. Ci siamo ritrovati confinati da soli o con la nostra famiglia. Pascal diceva che «tutti i problemi dell’umanità derivano dall’incapacità dell’essere umano di stare seduto in una stanza da solo e in silenzio». E Harold Bloom, un critico letterario americano, ha scritto: «Col passare degli anni ho sviluppato un orrore sempre più crescente nei confronti della solitudine, del trovarmi a dover affrontare le notti insonni e i giorni frastornati in cui l’io smette di sapere come parlare a sé stesso».
Tuttavia, quando si è soli con se stessi, cadono le maschere Non possiamo fuggire da noi stessi! La crisi per il virus ci porta il dono del fare verità su noi stessi, ci pone la domanda su chi siamo veramente.
E insieme ci interroga sul nostro rapporto con gli altri. Certo, l’isolamento può essere distruttivo: bambini e genitori, almeno qualche volta, sono giunti a considerarsi vicendevolmente insopportabili e le coppie hanno vissuto periodi di orribili silenzi. Tuttavia, questo tempo ci ha rivelato l’altra persona nella sua fragilità, vulnerabilità e bellezza. Quando siamo costretti a stare insieme, dobbiamo imparare a leggere il volto delle altre persone. Chiediamoci: sono capace di leggere sui loro volti i segni della paura e della speranza, della tenerezza e dell’ansia? Se ne sarò capace potrò dare un fugace sguardo alla loro bellezza e dignità come figli di Dio.
Questa pandemia ci mette a confronto con domande a cui non sappiamo dare risposta. Ha messo alla prova molte delle nostre supposizioni su come viviamo insieme e su quale sia il significato delle nostre vite. Riusciremo a trovare le risposte solamente se cercheremo insieme la verità. La chiesa dovrebbe essere una comunità di cercatori. Questo non è relativismo. La verità della nostra fede si trova sempre avanti a noi. Non è mai nelle nostre mani. Gesù dice: quando sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose a venire (Giovanni 16,13). I fondamentalisti credono che abbiamo in mano tutta la verità ora, mentre i relativisti credono che non abbiamo nulla. Noi invece viviamo, grazie allo Spirito, in un percorso nel quale la pienezza della verità ci chiama a viaggiare insieme. Tutti i cercatori della verità sono nostri alleati, non importa a quale fede appartengano o che non ne abbiano una.
Questa crisi potrebbe rendere più profonda la nostra comunità su molti livelli. Tramite l’isolamento sociale ci confrontiamo con noi stessi e con gli altri. Cadono le maschere. Questo potrebbe portare a una comunione più profonda. Possiamo empatizzare con gli altri solo se abbiamo il coraggio di affrontare noi stessi, conoscerci in profondità. Il dolore dell’esclusione dal culto potrebbe condurci a un desiderio più profondo per il Regno dove tutti saremo una cosa sola. E mentre affrontiamo tutte queste questioni nuove e complicate, possiamo cercare la comunione con tutti i cercatori di verità.
Non lasciamo cadere le domande che questo tempo ci sta ponendo. E, come chiesa, affrontiamole insieme: “il mondo è troppo complesso e interessante perché un modo solo di conoscerlo possa contenere tutte le risposte” (S. J. Gould).
LA COMPAGNIA DELLA FEDE
L’emergenza del coronavirus ci ha mostrato che siamo tutti sulla stessa barca e che la luce in fondo al tunnel si chiama “noi”. Sull’importanza di tessere legami con gli altri, del vivere l’esperienza della chiesa come comunione nella diversità, ci aiuta a riflettere questo racconto di di A. Kühner, propostoci da Hanna:
Quanta vita variopinta sull’arca. Noè anziano con la sua consorte, i suoi figli e le loro mogli. E poi gli animali così diversi gli uni dagli altri. Che immagine meravigliosa della comunità!
C’è il levriero, che è sempre davanti e la lumaca, che è sempre ultima. Questa è la realtà di una comunità: persone che sono sempre all’avanguardia, ed altre che fanno fatica e sono ultime. Entrambi fanno parte della comunità e Dio li ama.
C’è il leone, con il muso spaventoso, le zampe potenti: è il re della giungla. E c’è il topo, così piccolo, che parla con una vocina fine e scappa subito in un angolo. Ci sono persone con qualità di leader ed altre più timide, che si esprimono sottovoce. Entrambe le categorie fanno parte della comunità; e quello che le salva non è la loro forza ma il fatto di “essere nell’arca”.
C’è l’usignolo, che canta in modo che tutti rimangono affascinati e c’è il piccolo passero, che fischia in modo stonato. Ciascuno fa parte della comunità e contribuisce alla sua vita. Dio si rallegra della moltitudine dei doni e delle voci.
C’è l’elefante, con il suo corpo massiccio e la pelle ruvida. Dove lui mette piede per molto tempo non cresce più niente; la sua pelle sembra non sentire proprio niente, tanto è spessa. Ma c’è anche il tenero capriolo, dalla pelle tenera, che facilmente si può ferire, fragile e sensibile. Nell’arca di Dio abitano persone con la pelle ruvida e spessa ed altre con la pelle molto fine. Gli uni sono forti mentre gli altri sono così sensibili che ci vuole poco per ferirli. E Dio li custodisce tutti e due nella sua mano.
C’è il gufo, con la sua saggezza e c’è anche la pecora, che si ritiene stupida perché non apre bocca. Anche nella comunità vivono persone sagge e con tanta conoscenza ed altre che, erroneamente, sono giudicate poco intelligenti perché taciturne e timidi. Dio non guarda all’apparenza: vede il cuore di tutti e si rallegra di quanti vivono nell’arca.
C’è il pavone, con lo splendore delle sue piume rima, che fa rimanere a bocca aperta; e c’è anche il ratto, che fa schifo a tutti. Ci sono persone che con i loro doni sanno risplendere come il sole e ci sono altre che sentono di far ribrezzo a tutti. Dio vuole bene ad entrambe e le accoglie nella sua arca per farle vivere serene.
Quello che ci salva non sono tanto le nostre bellezze o qualità; e quello che ci manda in rovina non sono tanto le nostre debolezze o i nostri errori. Piuttosto noi viviamo grazie agli altri.
Ci salva la comunione con Dio e con gli esseri umani.
DOMANDE PER RIPRENDERE
Come si riprende dopo i 100 giorni in cui il virus ha interrotto il corso abituale delle nostre vite? Col desiderio di tornare a fare quello che facevano prima? In parte è inevitabile che ci sia la ripresa delle consuete attività. Anche come chiesa riapriamo i nostri locali e, nel rispetto delle norme di prevenzione del contagio, riprendiamo i nostri culti domenicali. Ma cambia tutto se lo facciamo “come se niente fosse” o interrogandoci sul senso di quanto ci è successo aprendoci a nuove possibilità.
Come credenti, dovremmo conoscere l’importanza delle domande. Le Scritture, più che offrire risposte, sono il Libro delle domande. Fin dall’inizio, nel racconto biblico risuonano gli interrogativi essenziali: “dove sei?” (Genesi 3,9), “dov’è tuo fratello?” (Genesi 4,9). Dove siamo esistenzialmente, dove ci ha posti l’esperienza di questi mesi? E che ne è delle relazioni? Come possiamo far sì che la necessaria distanza fisica non diventi distanziamento sociale, paura dell’altro?
Come uditori della Parola, dovremmo porcele sempre queste domande, che sono pungoli a non subire passivamente la vita, a viverla responsabilmente. Sappiamo però quanto pesi la forza dell’abitudine, che spegne le domande e spinge a procedere in automatico. Solo quando qualcosa si spezza, nei momenti di crisi, queste domande riemergono dalla cantina in cui, di solito, le confiniamo. Solo quando, all’improvviso, nel nostro paesaggio ordinato, tutto fiori e cigni bianchi, fanno la comparsa dei cigni neri, allora veniamo scossi e incominciamo ad interrogarci.
“Cosa sono i «cigni neri»? Sono quegli eventi imprevedibili e rari che non solo ci cambiano la vita, ma anche ci rivelano a noi stessi, mostrandoci, come in uno specchio magico, le nostre realtà più autentiche e profonde. In questi momenti critici, come quello provocato dal virus, ci sono delle domande significative, che può essere utile farci per assumere la responsabilità di noi stessi e costruire, intorno agli eventi che affrontiamo, significati che possano sostenerci.
• In che modo hai impattato queste notizie?
• Come stai vivendo i cambiamenti di abitudini di vita che la prevenzione ci richiede?
• Quali cose, persone, azioni, ti mancano di più?
• Come vivevi queste stesse cose, persone, azioni, prima di questa emergenza?
• Di che cosa stai diventando più profondamente consapevole in questa vicenda?
• Quali competenze hai messo in atto durante questo periodo?
• Cosa hai scoperto di nuovo o cosa hai riconfermato su te stessa/o nell’attraversare questa situazione?
• Se potessi descrivere con una immagine il tuo modo di rispondere oggi a questa situazione, quale sarebbe l’immagine?
• Se la parte più vitale di te stessa/o volesse darti un suggerimento, un aiuto, per affrontare al meglio questa situazione, cosa ti direbbe?”
Queste domande suggerite da una psicologa, Rosella De Leonibus, possono aiutarci a riprendere le attività facendo tesoro di quanto ci è successo e interrogandoci sul senso di questo tempo che ci è dato da vivere. È Gesù stesso a domandarci questa sapienza nell’interpretare il nostro tempo:
Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia!” e la mattina dite: “Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!” L’aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli? (Matteo 16,2-3).
RESPIRATORE PER L’ANIMA
Non è che non sappiamo cosa sia un’emergenza. Basta un mal di denti per finirci dentro. A tutti è capitato un incidente che ha interrotto il normale scorrere dei giorni. Dolore, ansia, nervosismo, acuti nel loro manifestarsi ma ridimensionati nell’arco di alcuni giorni. Poi, si ritorna alla vita di prima. Ma se l’emergenza si prolunga nel tempo e coinvolge il mondo intero, allora ci sentiamo persi. All’inizio, dopo il primo sconcerto, mettiamo a frutto le nostre risorse: ci attrezziamo di pazienza; pensiamo ad una diversa organizzazione del tempo e dello spazio; ci spingiamo fino a ritenere che questa pausa forzata sia un’occasione per capire meglio la vita, le scelte personali e sociali. Insomma, facciamo di necessità virtù. Ma il prolungamento della situazione logora. Incominciano a pesarci certi divieti. Ci sentiamo come in trappola. Sorgono i primi segnali di insofferenza e rabbia o, al contrario, di rassegnata depressione. E anche se, nonostante tutto, in mezzo alla tempesta riusciamo a mantenere la barra dritta, dobbiamo fare i conti con altri sballottati dalle onde della rabbia, del risentimento, del lamento. Anche i più forti respirano un’aria avvelenata, che toglie il respiro e lascia senza forze. Che fare?
Come le persone colpite dal virus hanno dovuto ricorrere a respiratori esterni, dal momento che i loro polmoni non erano in grado di ossigenare i corpi, così anche noi, che siamo stati risparmiati dal virus, abbiamo bisogno di respiratori per le nostre anime a rischio di apnea.
Prima di tutto, riconosciamo che anche noi abbiamo il fiato corto. Che anche noi siamo abitati da paure; che pure noi non sappiamo bene come muoverci in questa situazione inedita. C’è una grazia del limite, una forza della fragilità, di cui ci parlano le Scritture. Nel momento della forza non capiamo: ci sembrano frasi paradossali, da accettare per fede. Ma con l’insorgere della crisi, iniziamo ad intuirne la verità. La fede avrebbe dovuto tutelarci da quei deliri di onnipotenza che affascinano questa società della performance individuale. La Parola delle Scritture avrebbe dovuto aiutarci a mettere a fuoco uno sguardo sulla vita che non è preoccupato dell’immagine, dell’affermazione di sé. Sguardo realistico, non certo umiliante: non si tratta di disprezzarci per lasciare che sia Dio a svolgere il compito. La Bibbia sa tenere insieme potenzialità e limiti, vittorie e sconfitte. Senza denigrare la creatività e godere dei fallimenti. Non usa le nostre debolezze per poi introdurre Dio come tappabuchi! Leggendo le Scritture avremmo dovuto imparare, insieme al gioire per la vita benedetta, la sapienza del limite. Ma i nostri occhi sono stati ciechi, nel tempo del benessere (Salmo 49). Il collirio della crisi ci fa scorgere meglio quanto siamo fragili.
Solo dopo aver fatto i conti con questa diagnosi, possiamo cercare quei respiratori esterni che ci possono far tirare il fiato, liberandoci dall’affanno. Come la Parola delle Scritture, che libera i polmoni dalle tossine del tono lamentoso, dalle paure ossessive, dall’assecondare il peggio che una situazione di crisi può far nascere. Ci manca l’incontrarci come comunità per ascoltare insieme la Parola. Però possiamo metterci in ascolto nelle nostre stanzette (Matteo 6,5-6), alla ricerca di quella sapienza che sia in grado di farci attraversare la crisi, leggendo le situazioni come segni dei tempi (Matteo 16,1-3).
Questo gesto antico e sempre nuovo di aprire il Libro delle Scritture e metterci in prolungato ascolto di una Parola che non è nostra, oggi, più che mai, rappresenta il respiratore necessario per non soccombere alle malattie dell’anima.
Non sappiamo cosa succederà in seguito a questa epidemia. Non sappiamo quali conseguenze ci saranno per il nostro essere chiesa. Nel buio che ci spaventa, abbiamo solo la lampada della Parola e la determinazione dei nostri passi, che intendono seguirne la via indicata (Salmo 119,105).
PASQUA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
Per ripensare il senso della Pasqua, in questo tempo in cui non possiamo incontrarci a motivo del virus, ci lasciamo guidare da una riflessione di Timothy Radcliffe:
Al cuore della fede cristiana c’è un uomo morto in totale isolamento. È stato innalzato sulla croce al di sopra della folla, senza più alcun contatto, trasformato in un nudo oggetto. È sembrato persino che si sentisse separato dal Padre e le sue ultime parole, secondo i Vangeli di Marco e di Matteo, sono state: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
In quel momento egli non ha solo abbracciato le nostre morti. Egli ha fatto del tutto sua la solitudine che tutti noi, talvolta, sopportiamo e che milioni di persone stanno oggi vivendo.
La notte prima che morisse, questo isolamento era già palpabile. Aveva raccolto attorno a sé gli amici più stretti per un’ultima cena. Uno di loro l’aveva già venduto a quelli che volevano la sua testa; Pietro stava per negare di averlo anche solo conosciuto, e la maggior parte degli altri era lì lì per voltargli le spalle.
In quel momento così atroce egli fece qualcosa di assolutamente sconvolgente: prese il pane e il vino e disse: «Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue, versato per voi».
Quando la comunità stava andando a pezzi e ciascuno si preparava ad affrontare il futuro da solo, Gesù fece la promessa di una nuova comunione, che sarebbe stata più forte del tradimento e della codardia e che nulla avrebbe potuto distruggere, neppure la morte.
Quando le chiese sono chiuse e il culto pubblico è temporaneamente sospeso, quella promessa resiste ancora e il dono non smette d’essere offerto.
E dunque, sì, questo orribile virus può isolarci l’uno dall’altro fisicamente, e questa è una privazione profonda. Ma i cristiani credono che tutta la nostra solitudine sia abbracciata in una comunione che oltrepassa ogni barriera. Il Signore risorto viene attraverso le porte dietro alle quali i discepoli si erano chiusi in auto-isolamento e li libera dalla paura e dalla solitudine.
Anche quando non posso raggiungere la comunità in preghiera e unirmi a essa, Dio rimane presente, come scrive Agostino, «nel profondo della mia interiorità».
Per quanto mi senta solo, non lo sono, perché al centro del mio stesso essere c’è un Altro.
Buona Pasqua!
NELLA RUOTA DEL CRICETO
Abbiamo il cuore in subbuglio per la morte di Nicole, ancora giovane. Siamo allarmati dalle notizie del coronavirus e delle smisurate reazioni della gente. Una chiesa che vive nel tempo non può fare a meno di impastare la pasta della storia col lievito dell’evangelo. Ma perché succeda questo, bisogna scegliere di non farsi travolgere dagli avvenimenti; occorre guadagnare una certa distanza, quella necessaria per capire, per non subire passivamente le situazioni.
Per provare a comprendere qualcosa di questo nostro mondo ingarbugliato vi propongo di iniziare a riflettere sul “tempo”. E più precisamente, sull’accelerazione impressa al tempo in questo periodo storico. Le innovazioni tecnologiche ci consentono di sbrigare molto più velocemente faccende che, prima, richiedevano molto tempo: gli elettrodomestici per la gestione domestica, i mezzi di trasporto per i viaggi, l’automazione nel lavoro, i mass-media per le informazioni; per non parlare della rivoluzione digitale operata con l’avvento di internet. Tutto è più veloce e più accessibile. Eppure, noi continuiamo a non avere tempo. Ci sentiamo pressati dalle tante cose da fare ed abbiamo paura di non essere in grado di reggere il ritmo, di rimanere indietro, in una società competitiva dove, in ogni momento, devi dimostrare di essere all’altezza per rimanere in gara. Mai come ora le donne e gli uomini si sentono liberi: nessuno dice loro cosa fare, in cosa credere, cosa pensare, come vivere. E mai come ora si sentono costretti da un “dovere” superiore: “devo lavorare di più, devo compilare il modulo e rispondere alle mail, devo aggiornare il pc, devo stare al passo con i tempi”. La vita quotidiana è diventata un mare che ci sommerge di richieste. E alla fine della giornata ci sentiamo colpevoli, perché non siamo riusciti a fare tutto. Siamo come prigionieri di una ruota da criceto che va sempre più veloce e non si ferma mai. E la sfida principale è diventata vivere in modo tale da rimanere in gara e non cadere fuori dalla ruota. Facciamo tantissime cose ma non le “digeriamo”, perché il digerire comporta tempo. Moltiplichiamo esperienze che non si legano tra loro, che non ci segnano. Tutto scorre velocemente e viene presto dimenticato. Nel nostro mondo accelerato manca l’appropriazione del tempo: cioè, il tempo non diventa “nostro”. Ciò che facciamo, le relazioni che instauriamo mancano di risonanza: sono materiale neutro, intercambiabile, non danno corpo ad una storia. Il mondo è diventato silenzioso, freddo, indifferente.
A partire da queste veloci considerazioni – tratte dall’analisi del sociologo tedesco Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione – varrà la pena ripensare l’importanza pedagogica dei quaranta giorni che precedono la Pasqua. La cosiddetta quaresima o tempo di passione potrebbe non essere un residuo del passato, una pratica ormai priva di senso. Potrebbe, invece, rivelarsi un tempo propizio in cui coltivare l’anticorpo decisivo per la patologia di questa società della competitività accelerata, offrendo la cura del fermarsi, del rientrare in se stessi, e del provare a far risuonare la nostra vita grazie alla riflessione e alla preghiera.
Forse, a qualcuno serve un suggerimento pratico per vivere diversamente questo tempo. Suggerisco un piccolo esercizio: prenditi cura di qualcosa e fallo con piena consapevolezza. Non importa se un cassetto da riordinare, un cibo da preparare, una camicia da stirare, non importa se una piccola pianta da trapiantare o un amica a cui telefonare, ascoltandola senza fare altro che questo. Un piccolo gesto per appropriarsi di un tempo rigenerato dalla cura.
Ciò che è decisivo sta nel trovare una sapienza del tempo che ci invita a fermarci, a riprendere consapevolezza. Con le parole dell’apostolo Paolo: Eccolo ora il tempo favorevole; eccolo ora il giorno della salvezza! (II Corinzi 6,2). Non lasciamoci trasportare dal ritmo ipnotico dell’accelerazione: è ora ormai che vi svegliate dal sonno (Romani 13,11). Non siamo criceti: siamo umani. E la qualità della nostra umanità dipende da come viviamo il tempo. Ne va anche della qualità della nostra fede. Credere nel Dio di Gesù significa lasciare che Dio entri nel nostro tempo, ci parli, ci aiuti a scorgere la vita buona, da Lui promessa, e ci educhi con la sua Parola a far risuonare con rinnovata intensità ogni momento delle nostre giornate, di questa vita così fragile.
Buona quaresima, dunque! Che il nostro tempo possa aprirsi alla vita nuova della Pasqua!
RICOMINCIARE AD AMARE QUESTA NOSTRA VITA
Leggendo il Vangelo secondo Marco, ci interroghiamo sulla sfida lanciata fin dalla prima parola: quella di posizionarci all’inizio, di ricominciare daccapo, come eterni principianti. Sfida ardua e controcorrente, in tempi in cui contano le novità, dove quello che è già stato visto, udito, fatto deve essere messo da parte per lasciare posto ad altro.
Quando la vita che viviamo non ci soddisfa facciamo di tutto per fuggirla, per pensarci altrove, in un altro luogo, con un diverso lavoro, con altre persone. La possibilità di riprenderla in considerazione così com’è, ricominciando a viverla con una nuova consapevolezza non è un’idea molto gettonata. Preferiamo la fuga verso la novità (se non proprio reale, almeno immaginata, sognata) e temiamo la ripetizione. Perché mai dovrei rimanere bloccato e precludermi ulteriori possibilità? E se poi la vita si mostrerà poco generosa, senza offrire nuovi orizzonti, beh, almeno non chiedetemi di riconsiderare le solite cose che faccio ormai in automatico, di ricominciare daccapo rimanendo nello stesso luogo, con la solita gente!
Perché dovrei farlo? Cosa ci guadagno con questo accanimento nel mettere il dito nella piaga?
Nell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, Colibrì, il protagonista del racconto ha il vizio del gioco. In un giorno particolarmente fortunato accumula una cifra enorme, come una vincita al Lotto. Insieme all’euforia, si fanno strada nella sua mente strani pensieri:
Man mano che vincevo tutti quei soldi la vita che vivevo ogni giorno diventava sempre più misera. Vincevo cinquantamila euro e pensavo che mi ci sarei comprato una macchina nuova, perché quella che avevo improvvisamente era un catorcio. Ma io non l’avevo mai pensato, prima, che fosse un catorcio. È una cosa tipica del giocatore: schifare la propria vita, pensare di cambiarla vincendo, anche se in realtà quel desiderio non l’ha mai veramente avuto. Ero sopra di duecentomila e mi vedevo alle Maldive, o in Polinesia, nei posti di lusso dove in realtà non ho mai desiderato andare. Quattrocentomila, ed ecco spuntare assistenti, servitori, cuoche, autisti, bambinaie, come se a me mancasse quello. Seicentomila, ed ecco che smettevo di lavorare e andavo in pensione, come se il mio lavoro, che faccio da trentacinque anni, per il quale mi sono sacrificato e al quale ho dedicato tanto tempo, di colpo mi facesse schifo. Ma non era vero. A me la vita che vivo non fa schifo, anzi, mi piace, perché diversamente da tante altre vite la mia ha uno scopo…
Si respira l’aria della grazia in queste righe. Proprio mentre ricasca nel vizio che l’affligge, ecco accendersi un pensiero luminoso che lo sottrae alla sua dipendenza, che gli mostra la vita sotto un’altra luce. Nella fragilità si affaccia il dono di una nuova vita.
Nella nostra società c’è come un’insoddisfazione indotta, che porta a ricercare la novità e a disprezzare il presente. Come per il protagonista del romanzo, anche per l’evangelista Marco la prima mossa da compiere è quella di sottrarsi a questa trappola, di tornare ad amare la propria vita, per quanto imperfetta e fragile si dimostri. Non è la fuga la soluzione; è il ricominciamento tenace, il desiderio di capirla più a fondo, non banalizzandola, rifiutandosi di disprezzarla, smettendo di guardarla in tono lamentoso.
La vita non è qualcosa da consumare in fretta, per fare spazio ad altro; non è fatta di risultati raggiunti una volta per tutte e subito dimenticati. La sapienza degli inizi, la forza del ricominciare ogni volta dall’inizio, è una preziosa forma d’amore per quello che siamo, per questa nostra vita, all’apparenza così povera ma che nasconde un tesoro.
Il Gesù di Marco ci precede in Galilea (Marco 16,7), in quella nostra Galilea in cui viviamo la solita vita, territorio di sempre, ambiente quotidiano. Lì lo possiamo incontrare, lì possiamo ricominciare, riconciliandoci con questa nostra vita che Dio ci ha donato.
2020
INIZIO APERTO
Vi ricordate le favole di Gianni Rodari con tre finali tra cui scegliere?
E se per cominciare questo nuovo anno scegliessimo tra tre diversi inizi?
Vi propongo questi tre:
– Inizio per tipi e tipe “vorrei puntare in alto, ma non sono in grado di fare cose straordinarie”. Per te l’inizio potrebbe essere questa poesia di Douglas Malloch, da porre in esergo all’anno:
Se non puoi essere un pino in cima alla collina,
sii un arbusto nella valle, ma sii
il miglior piccolo arbusto sulla sponda del ruscello;
sii un cespuglio, se non puoi essere un albero.
Se non puoi essere un’autostrada, sii solo un sentiero,
se non puoi essere il sole, sii una stella.
Se non puoi essere un cespuglio, sii un filo d’erba,
e rendi più lieta la strada.
C’è qualcosa da fare per tutti noi qui,
ci sono grandi compiti da svolgere e ce ne sono anche di più piccoli,
e quello che devi svolgere tu è li, vicino a te:
sii il meglio di qualunque cosa tu sia.
– inizio per quelli che “sto troppo male e so già che anche quest’anno andrà di male in peggio”. Ripeti più volte e riempi tutta prima pagina con la seguente frase:
proprio per chi non ha speranza, è data la speranza.
– inizio per gente al top, della serie “vado al massimo, vado benissimo, nessun problema”. Che ne dici di cominciare con questa canzone di Paolo Conte?
Sono anni che studio la vita e ancor non l’ho capita.
E dire che mi sono applicato,
e dire che la materia mi piaceva.
Di più, di più, la vita io l’ho corteggiata,
qualche volta conquistata.
Baci, carezze, oh! sì, l’ho proprio amata.
Usata, bevuta, mangiata, spalmata
sul pane col burro e con la marmellata.
Mi hai fatto dei torti, e va beh, lasciamo andare
perché sei stata bravissima,
bravissima a farti perdonare,
con tutti quei regali che solo tu, che solo tu sapevi fare.
con tutti quei baci che solo tu, che solo tu sapevi dare.
Mi hai detto “continua così che sei forte,
c’è tempo per pensare alla….”.
Ho ancora bisogno di baci e di carezze,di regali, di sogni, di un paio di certezze.Ti prego ritorna a dirmi “sei forte,c’è tempo per pensare alla…”.
A voi la scelta! E se non vi piacciono gli inizi proposti, trovatene altri. L’importante è cominciare, credere negli inizi. E scegliere.
Gesù ne ha scelto uno stranissimo, nascendo tra povera gente, affrontando l’opposizione dei potenti, dando fiducia ai peccatori e speranza ai piegati dalle fatiche della vita. E così ci ha mostrato che si può iniziare anche in mezzo ad una storia storta. Proprio in mezzo alle tenebre prende avvio la storia luminosa del Dio-con-noi: “inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Marco 1,1).
Buon anno! Buon inizio!
ATTESA E SORPRESA
La vita è fatta di attese. Siamo stati a lungo attesi, prima di venire alla luce. E una volta messi al mondo, fin da subito abbiamo incominciato a vivere di aspettative, di desideri. Se non ci attendessimo più nulla dalla vita, che razza di esistenza sarebbe? Attendiamo, desideriamo e facciamo di tutto affinché le nostre attese trovino compimento, si realizzino i nostri desideri. E quando succede, allora stiamo bene, ci stupiamo del risultato raggiunto e sentiamo che la vita è affidabile, non è un imbroglio. L’attesa non è stata vana.
A volte succede che “noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello”: ci facciamo dei programmi ma le cose vanno diversamente. Ci sorprende l’inatteso. E alla sorpresa segue una nuova attesa: cosa posso aspettarmi da una situazione imprevista? Come si ridisegna la mia vita, dopo quello che mi è successo, senza che l’avessi messo in conto?
Nel tempo di Avvento siamo invitati a riscoprire l’alfabeto dell’attesa, a coniugare il verbo “attendere” sia all’attivo che al passivo: che cosa attendiamo? Quali progetti abbiamo? E la vita, con le sue sorprese, i suoi imprevisti, che cosa si aspetta da noi?
Anche Dio parla il linguaggio dell’attesa. Tutti i racconti biblici narrano di una promessa e dell’attesa del suo compimento. E insieme sollecitano a rimanere aperti alle sorprese di un Dio che batte altre vie, diverse dalle nostre.
In questo tempo che precede il Natale, mentre facciamo memoria della prima venuta di Gesù, noi ne attendiamo il ritorno. Non solo quello che metterà fine alla storia. Dio, infatti, continua a venire nelle nostre vite, sia nelle piccole cose di ogni giorno come nei momenti decisivi. A noi è chiesto di saperlo attendere: un’attesa che si fa attenzione, apertura del cuore e della mente, disponibilità a lasciarsi sorprendere dalla vita, da Dio.
La fede non è questione di volontà ma di attenzione e attesa. “Fate attenzione, vegliate”, dice il Signore. Imparate ad attendere.
“Attendere i germogli. Cercare e ricercare segni sui rami oscuri del mandorlo, quando ancora è inverno. Spiare invisibili tracce di rigonfiamenti, presentimenti di vita in gestazione. E invocare dall’alto la pazienza del contadino del vangelo. Contro ogni indebita innaturale pretesa di chi osa forzare i tempi, contro ogni intrusione dello spirito. Contro la violenza delle programmazioni, che esigono, spietate i risultati alla sera e non conoscono il tempo nascosto dei nove mesi. Uomini e donne della rigidità, che non conoscono né tenerezza né misericordia.
Attendere nell’ingorgo della città, prigionieri del traffico urbano. Città della corsa frenetica e non dell’indugio, della sosta.
Attendere dentro un’umanità senza gloria, dentro le parole vane, dentro i pettegolezzi quotidiani, dentro i discorsi scontati. Attendere e sentirsi parte. Non sopra, ma dentro la povera misura che ti appartiene, dentro la povertà e il limite che ogni giorno ci segnano corposamente. Dentro le meschinità, le nostre, che solo Dio conosce e perdona. Attendere e riconciliarsi. Attendere e fasciare di un sorriso quanti incontriamo.
Attendere passi nuovi nella mia vita. Attendere una nascita fuori dalla presunzione della maturità raggiunta, delle crescite concluse. Essere come argilla. In attesa del vasaio, in attesa di mani che ci rimodellino nella carne, in attesa di mani che ridisegnino un figlio.
Attendere, nonostante tutto, il Natale. Nonostante le risse, nonostante le corse, nonostante gli sfinimenti. Attendere Gesù, nella grande veglia della vita. Dilatare, giorno dopo giorno, l’attesa del suo ritorno. Cristo atteso nella notte con fiaccole che faticano al vento” (A. Casati).
FATE ATTENZIONE A COME ASCOLTATE!
Sentite cosa racconta un saggio cinese:
“Un giorno, l’imperatore domandò al primo pittore della sua corte di cancellare la cascata che questi aveva dipinto a fresco sul muro del palazzo, perché il rumore dell’acqua gli impediva di dormire”.
Com’è possibile, vi domanderete? È solo un quadro e le immagini non fanno rumore. Ah sì? – ribatte il sapiente cinese – allora perché quando ascoltate i racconti della Bibbia dite di crederci, di ritenere che quella Parola possa cambiare le vostre vite?
Forse, noi, oggi, stiamo vivendo troppo in superficie, stiamo perdendo il contatto con il mondo e con le parole e le immagini che ne esprimono il senso. Parole e immagini che non fanno più rumore, che ci lasciano dormire sonni profondi. Come sarebbero le nostre vite, se ciò che ascoltiamo e vediamo non ci scivolasse via come elemento decorativo, solo contorno di esperienze troppo veloci, incapaci di far nascere qualcosa di nuovo? Come sarebbero le nostre esistenze se avessimo uno sguardo poetico su quello che ci capita? Vi sembrano domande strane, troppo solenni? Proviamo, allora, a tradurle nel linguaggio più semplice del fare attenzione. Del dare attenzione. Non come indicazione di rispetto: se un altro parla, provo a non mostrarmi annoiato. Al di là del galateo, l’attenzione dice un modo di stare al mondo, ed anche di volersi bene. Per comprendere meglio cosa significhi, lascio la parola ad una poetessa, Wisława Szymborska, che ci offre una sorta di confessione di peccato a proposito della disattenzione che affligge la vita quotidiana:
Disattenzione
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
oppure
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
È durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.
Attenti dunque a come ascoltate: perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, anche quello che pensa di avere gli sarà tolto (Luca 8,18).
A SCUOLA DA MARCO
Noi siamo il popolo dei salvati. Noi abbiamo incontrato il Signore Gesù e l’abbiamo riconosciuto come il nostro personale Salvatore. Noi abbiamo fatto l’esperienza della conversione e siamo passati dalle tenebre dell’errore alla luce della verità. Noi abbiamo la certezza che solo la fede può dare. La fede, infatti, è uno scudo che ci mette al riparo del dubbio e dell’incertezza.
Se ti riconosci in queste affermazioni, sei la lettrice, il lettore giusto per fare i conti con il Vangelo secondo Marco.
Fin dagli inizi dell’avventura cristiana, fede e certezza sono andate a braccetto, come sorelle inseparabili. E tutti ne ammiravano la bellezza, l’entusiasmo. Finché è arrivato Marco, il quale, come un genitore attento, ha sollecitato le figlie ad uscire dal loro mondo adolescenziale, ad abbandonare il nido caldo ed affrontare l’età adulta. Un risveglio brusco e doloroso: il sogno di una fede certa, rassicurante, non poteva durare per sempre? Non sta proprio in questa sicurezza il cuore dell’esperienza dei discepoli e delle discepole di Gesù? L’evangelista Marco prova a mettere in discussione questa nostra convinzione.
Noi, quest’anno, leggeremo il suo racconto evangelico: una lettura per niente facile, dal momento che, ad ogni pagina, Marco suggerisce un modo di fare i conti con Gesù molto differente da quello che siamo abituati ad avere. Con gesto a volte impietoso smonta le nostre sicurezze; ma non lo fa per buttarci a terra, come se fosse felice dei nostri fallimenti. Il suo è un racconto pedagogico: è la mossa del genitore che si interroga su cosa possa aiutare a crescere i propri figli; e che si prende la briga di accompagnarli fuori casa per affrontare il mondo.
Leggere Marco sarà una sfida per crescere nella fede; ed anche per fare i conti con il nostro presente. Infatti, se gettiamo uno sguardo al di là della corazza con cui cerchiamo di difenderci, vediamo che viviamo in tempi nuovi ed eccezionali. Tempi talmente inediti che non li abbiamo ancora capiti; e ci sono avvisaglie che ci dicono che gli sviluppi in ambito culturale, tecnologico, mediale, politico e religioso sono così imprevedibili da produrre eventi del tutto inaspettati che, di fatto, trasformano l’intero quadro in cui noi ci muoviamo. Tempi nei quali anche “il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare” (Geremia 14,18); in cui la Parola è rara e, di fatto, mancano visioni di futuro (1Samuele 3,1).
Nel racconto di Marco potremo trovare qualche luce per guardare in faccia il nostro presente insieme alla nostra fatica a raccapezzarci. Ci accorgeremo di come il lieto annuncio della salvezza risuoni a caro prezzo: a condizione di ricominciare sempre daccapo, di inizio in inizio, lasciando cadere la pretesa di aver già capito, trovato. Marco ci insegnerà a tacere e ci farà dono dell’incertezza: attitudini difficilissime ma decisive in una situazione di crisi, quando abbiamo la responsabilità di ripensare il senso della fede per un tempo nuovo. E, forse, da questa lettura fatta insieme impareremo che ci si può sentire inadeguati senza essere paralizzati; che anche nel disorientamento può risuonare l’evangelo.
Dunque, con tenacia, mettiamoci in ascolto di quella Parola che rimane il nostro tesoro persino quando ci sfugge, anche quando le tenebre sono così dense da far sorgere la sensazione che non esista una luce in grado di diradarle. Diamo fiducia al Signore Gesù, che non ha temuto di attraversare tempi incerti e momenti bui: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Marco 9,24).
CREDICI!
Pronti a ricominciare? Ricominciare che cosa, dirà qualcuno? Certo, i ragazzi ricominciano la scuola; ma gli adulti, a parte qualche giorno di ferie, giusto per tirare il fiato, non smettono mai. Quanto ai pensionati, a loro resta solo la nostalgia del poter ricominciare. E poi, nella nostra società, dove si vive all’insegna dell’accelerazione, in cui il vortice degli avvenimenti travolge tutto e tutti, ha ancora senso parlare di ricominciare?
“C’è un tempo per ogni cosa”, ci ricorda il Qohelet (o Ecclesiaste). Ma per noi, è sempre meno evidente il ritmo del tempo, quello scandito dal giorno e dalla notte, che distingue i giorni feriali dai festivi, le stagioni, i diversi periodi sociali. Oggi, quel ritmo, che per secoli ha segnato la vita delle generazioni, dando un ordine all’esistenza, sembra, almeno in parte, venuto meno. Ci sono ancora calendari e scadenze, ma hanno sempre meno l’aspetto di gabbie d’acciaio uguali per tutti, assomigliando di più a case costruite su misura. Se fossimo dei poeti della vita, potremmo salutare con favore questo nuovo modo di vivere il tempo, più personalizzato. Il fatto è che, spesso, siamo degli improvvisatori umorali, volubili. E così, venuto meno quel ritmo che era di tutta una società, ci ritroviamo a vivere un tempo senza ritmo, giorni tutti equivalenti. Ed anche quando i calendari degli altri – quello del lavoro, della scuola, della chiesa – fissano nero su bianco che a settembre si riprendono le attività, fatichiamo a cogliere in quell’indicazione una sfida, un invito a dare quel particolare valore ai giorni.
Per ritrovare un certo ritmo e poter parlare di ripresa, bisognerebbe, innanzitutto, crederci… Credere che non è vero che, per forza di cose, siamo succubi dell’inerzia di una vita immodificabile. Credere che non esistono solo le novità del mercato. Credere nella vita. Credere che abbiamo una destinazione, non un destino; e che a noi è chiesto di continuare a camminare verso quella meta. Credere in un Dio che crede in noi e che continua a ripetere: credici!
Una chiesa è un laboratorio di fiducia; in Dio, in se stessi, negli altri. È un anticorpo alla malattia della sfiducia, dello scoraggiamento, della depressione.
Il culto è coltivazione della fede nella vita; è sorgente a cui attingere il gusto di vivere. È esperienza di ricerca dell’acqua, della luce, del sapore, proprio quando siamo tentati di pensare che sono solo miraggi, che la vita è deserto.
Ha scritto il pastore Bonhoeffer:
“E’ più da furbi essere pessimisti: si dimenticano le delusioni e si sta in faccia alla gente senza compromettersi. Così l’ottimismo è passato di moda presso i furbi. Nella sua essenza, l’ottimismo non è un modo di vedere la situazione presente ma è un’energia vitale, una forza della speranza là dove altri si sono rassegnati: la forza di tenere alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario ma lo reclama per sè. Certo, c’è anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere vietato. Ma l’ottimismo come volontà di futuro non dev’essere mai disprezzato anche se porta a sbagliare cento volte: rappresenta la sanità della vita, quello che il malato non deve intaccare. C’è gente che ritiene poco serio, cristiani che ritengono poco pio, sperare in un migliore futuro terreno e prepararsi a esso. Credono nel caos, nel disordine, nella catastrofe come nel senso degli eventi contemporanei e si sottraggono – con rassegnazione o con la pia fuga dal mondo – alla responsabilità di continuare a vivere, di ricostruire, alla responsabilità verso le generazioni future. Può darsi che il giudizio universale cominci domani; allora, e non prima, smetteremo di lavorare per un futuro migliore”.
Credici e ricomincia il cammino: di questa fede vive la sapienza divina, di questo lievito necessita la pasta delle nostre esistenze..
FESTINA LENTE
A Palazzo Vecchio di Firenze, c’è una grande sala detta Salone dei Cinquecento. Il soffitto, affrescato dal Vasari, mostra delle tartarughe che sul loro carapace sorreggono una vela gonfiata dal vento.
Queste raffigurazioni sono accompagnate da una scritta, un motto latino: “festina lente”, che significa: “affrettati lentamente”. La tartaruga è simbolo della lentezza, mentre la vela gonfiata dal vento rappresenta la velocità. Come fanno a stare insieme lentezza e velocità? Per gli antichi, non si tratta di due atteggiamenti opposti. Entrambi sono necessari; per questo è saggio saperli coniugare. Ad esempio, facendo in modo di pensare e riflettere (operazione lenta) prima di agire (operazione veloce). La vita domanda di agire, di fare delle scelte: impossibile fermare lo scorrere del tempo. E tuttavia, puoi sottrarti all’impulsività e all’improvvisazione assumendo un passo lento nel tuo cammino. Oggi, viviamo vite di corsa e la fretta ci tradisce. Tutto è veloce: sfioriamo un tasto e subito viene trasmesso un messaggio, di cui magari poco dopo ci pentiamo di averlo scritto; sappiamo in tempo reale cosa avviene all’altro capo del mondo, senza, però, avere il tempo di verificare se le notizie siano vere o manipolate. Tutto è veloce e noi abbiamo la sensazione di perdere il controllo della situazione, di essere trascinati da una corrente sempre più accelerata. L’imbarcazione della nostra vita procede a gonfie vele, ma ha buttato a mare la sapienza della tartaruga. Ci manca la lentezza.
Forse, in questo periodo estivo potremmo fare qualche tentativo per riappropriarci di questa dimensione perduta. Possiamo rallentare il flusso delle immagini e delle voci che ci invadono, scegliendo di spegnere almeno per un’ora il telefono, il televisore, il computer. Possiamo rallentare il nostro passo, di solito spedito, per fermarci ad osservare quanto ci circonda e coltivare l’arte dell’attenzione e dello stupore. Possiamo provare a parlare più lentamente, usando meno parole, evitando chiacchiere inutili e giudizi affrettati. Possiamo gustare il ritmo lento della riflessione, osservando con calma, in silenzio, la trama delle nostre vite. Possiamo inoltrarci nello spazio della preghiera, mettendoci in ascolto di quella Parola che domanda la pazienza di una lettura prolungata, ripetuta, sottratta alla preoccupazione di capire in fretta il messaggio e lasciata agire nei lunghi tempi necessari alla crescita del seme. E possiamo anche concederci il lusso dell’ozio, che non è detto sia sempre il padre dei vizi: può pure diventare la madre delle virtù, sottraendoci all’abituale agire frettoloso e generando sguardi diversi su noi, sugli altri, sul mondo e persino su Dio.
Se non ora, quando? Se non ci proviamo d’estate – questa estate – la vita continuerà a rotolare lungo la grigia pianura di una quotidianità ripetitiva, usurata, senza sorprese.
Oggi, ascoltiamo la voce di Gesù che dice ai suoi discepoli: «Venitevene ora in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco». Difatti, era tanta la gente che andava e veniva, che essi non avevano neppure il tempo di mangiare. Partirono dunque con la barca per andare in un luogo solitario in disparte (Marco 6,31-32).
Partiamo, dunque. Affrettiamoci a riscoprire il dono della lentezza, in disparte rispetto al mito della velocità che ci ha stregati, impedendoci di assaporare a piccolo sorsi l’acqua della vita.
ATTENDERE LO SPIRITO
È affascinante il modo con cui l’evangelista Matteo presenta Gesù come un maestro, che ha fiducia di poter insegnare ai suoi i misteri del regno, insieme all’arte della vita. Gesù è convinto che, alla sua scuola, possiamo imparare la sapienza dell’esistere. Indicazione preziosa per un tempo, come il nostro, vissuto da un’umanità disorientata, in cui abbiamo la sensazione di aver perso la bussola, di non sapere più bene cosa significhi essere “umani”. La Parola evangelica suona come un invito a fermarsi per lasciarsi istruire e apprendere una sapienza di vita, che ci strappi dallo spaesamento, dalla solitudine, dal lamento che stanno spegnendo in molti la gioia di vivere. Le parole del Maestro di Nazareth risuonano luminose: fanno vedere quanto non siamo più in grado di scorgere; aprono prospettive inedite. Ma saremo in grado di farle nostre? Non è, forse, destinata al fallimento quella sapienza affidata a noi, così fragili, incoerenti, ingarbugliati nelle preoccupazioni di ogni giorno? Bella e impossibile: perché tra il sogno e la realtà, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare di guai e di complicazioni che costituiscono la pasta della nostra vita quotidiana. L’esperienza fatta da ogni persona porta alla conclusione che la sapienza, da sola, non basta. Occorre anche la forza che sia in grado di farla diventare carne, vita.
La Pentecoste rimodula il lieto annuncio proprio in questi termini: il Dio che parla è anche il Dio che promette la forza per dare corpo all’evangelo. È il suo Spirito la forza in grado di dare forma alle nostre vite. Come ci viene detto per bocca del profeta Ezechiele:
Vi aspergerò d’acqua pura e sarete puri; io vi purificherò di tutte le vostre impurità e di tutti i vostri idoli. Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne. Metterò dentro di voi il mio Spirito e farò in modo che camminerete secondo le mie leggi, e osserverete e metterete in pratica le mie prescrizioni. Abiterete nel paese che io diedi ai vostri padri, sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio (36,25-28).
Qualcuno dirà: perché, allora, continuiamo ad essere distanti dalla sapienza evangelica? Non abbiamo ricevuto lo Spirito? Eppure, continuiamo a sentirci impotenti, incoerenti, impermeabili all’insegnamento di Gesù. È vero. E, forse, il coraggio di ammetterlo ci apre ad una diversa comprensione dello Spirito. Che non è una dotazione assicurata, un possesso già acquisito. Negli Atti degli apostoli, l’evangelista Luca racconta di comunità cristiane che rimangono in attesa del dono dello Spirito e di molte e differenti Pentecoste, in grado di infiammare una Parola altrimenti destinata a rimanere retorica. Lo Spirito, dunque, va atteso. Proprio come in una gravidanza. Non c”è automatismo: sono credente e, dunque, ho lo Spirito. Va continuamente invocato, mentre proviamo a lasciare che il seme della Parola raggiunga il terreno delle nostre vite, si sviluppi nei lunghi tempi della crescita, fino a portare frutto. Il nostro incontrarci come comunità cristiana trova il suo senso nel provare ad attendere insieme un dono che non possiamo presumere di avere già. Ci mettiamo insieme in ascolto della Sapienza divina e invochiamo lo Spirito affinché ce la faccia comprendere a fondo, ci aiuti a discernere il senso in questa nostra storia e ci dia la forza di sperimentarne la bellezza nelle nostre esistenze.
Che la sapienza diventi vita è il miracolo dello Spirito. Per questo, senza scoraggiarci per i nostri insuccessi, con tenacia e fiducia, attendiamo che il fuoco dello Spirito accenda le nostre vite spente, sprigioni entusiasmo, illumini le menti e riscaldi i cuori.
Credere nello Spirito significa credere che il nostro impossibile può diventare possibile; che nella nostra storia può essere generato un nuovo e diverso possibile. E crederlo oggi, in un tempo che ha bandito la speranza, che irride l’attesa del compimento del sogno di Dio. Tu mandi il tuo Spirito e sono creati, e tu rinnovi la faccia della terra (Salmo 104,30).
PICCOLE RESURREZIONI QUOTIDIANE
Che senso ha la resurrezione di Gesù per noi, oggi? È la speranza che non finisca tutto con la morte? È il lieto fine tanto desiderato? Sì, è anche questo. Ma il senso dell’annuncio pasquale, come quello delle esperienze che facciamo, non lo si coglie in astratto. Noi leggiamo le Scritture, come anche gli avvenimenti della nostra vita, con gli occhiali del nostro tempo, che mettono a fuoco alcuni aspetti e ne lasciano in ombra altri. E nel nostro contesto individualista, gli occhi desiderano essere rassicurati sulla propria personale tenuta: che tutto possa procedere come vogliamo; che possiamo scansare le sofferenze; e se qualche avversità attraversa le nostre vite, che alla fine venga superata. Desideriamo sentirci dire che nemmeno la morte avrà l’ultima parola sulla nostra esistenza; che quel tesoro che abbiamo gelosamente custodito per tanti anni non andrà disperso. Un po’ come dire: “chi ama la sua vita, la conserva”, giusto il contrario di quanto leggiamo nei Vangeli (Giovanni 12,25)! Per non equivocare sul senso della Parola evangelica: è positivo il desiderio di stare bene, di autorealizzarsi; il problema è pensare di farlo da soli, senza preoccuparci del bene degli altri, mossi dall’imperativo: “si salvi chi può” e non più dalla speranza di una redenzione che abbracci l’intera creazione.
Per comprendere più a fondo la Pasqua dovremmo cambiare i nostri occhiali o almeno pulirli, in modo da scorgere l’evangelo senza costringerlo a passare per l’imbuto del nostro piccolo “io”.
Per Matteo, la resurrezione è un “terremoto” (Matteo 28,2), che sconvolge l’intera umanità, che mette sottosopra le convinzioni di sempre. È uno sguardo differente sulla storia. I capi di allora provarono a spegnerlo con la diceria che non è successo niente di sconvolgente, che sono stati i discepoli a rubare il cadavere di Gesù (Matteo 28,11-15).
Lo stesso avviene oggi. Non le sentiamo, ogni giorno, le voci che parlano il linguaggio della contro-pasqua? “Lascia perdere gli slanci di generosità, i sogni di una vita giusta per tutti. Sta con i piedi per terra: la vita finisce presto e tu puoi solo affrettarti ad arraffare il più possibile, a goderti gli attimi fuggenti. E se gli altri non hanno neppure il necessario per vivere, peggio per loro!”.
Oggi, è arduo credere ad un’umanità nuova, le sorelle e i fratelli del “Primogenito dai morti” (Colossesi 1,18). Fede pasquale è parlare di vita in un contesto di morte. È agire per la vita di tutte e tutti, irrisi da quanti seguono l’imperativo del pensare per sé e basta. E questa fede, oggi, si esprime compiendo scelte minime, di attenzione e cura, di perdono e sostegno. Troppo poco? Una resurrezione sciolta dalle strettoie del proprio “io” ma, poi, costretta entro i limiti delle banali occupazioni quotidiane?
C’è un episodio della vita di uno dei più grandi filosofi dello scorso secolo, Ludwig Wittgenstein, che mi sembra possa far intuire il senso della resurrezione per il nostro tempo. Dopo la guerra mondiale, la cattura e la prigionia in Italia, Ludwig torna a Vienna e decide di diventare maestro di scuola elementare nelle montagne dell’Austria. E sarà un fallimento. Mentre frequenta la scuola per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, la sorella maggiore Hermine chiede a Ludwig perché, nonostante la sua raffinata preparazione filosofica, abbia preso questa decisione ai suoi occhi totalmente assurda. Ludwig le risponde: “Mi ricordi un uomo che guarda attraverso una finestra chiusa e che non riesce a capire gli strani movimenti di un passante; non ci riesce perché non sa quale tempesta si è scatenata là fuori, e che quell’uomo forse fa a fatica a tenersi in piedi”.
Vivere la Pasqua oggi, non come spettatori, che guardano attraverso una finestra chiusa, nel luogo protetto dove celebriamo il culto, ma come persone in mezzo alle tempeste della storia, vuol dire coniugare la passione per la vita redenta con i piccoli gesti di chi prova a stare in piedi, a non lasciarsi trascinare dalla corrente, a compiere delle scelte che portano vita nelle esistenze altrui.
Pasqua è un modo inedito di stare al mondo. Duemila anni dopo, noi siamo ancora “quelli della pietra e della fionda”, del “mors tua, vita mea”. Diciamo di credere nella resurrezione di Gesù ma continuiamo a crocifiggere i poveri cristi che intralciano i nostri progetti. Le nostra abitazioni sono antisismiche, a prova di terremoto. I nostri sepolcri rimangono sigillati. “Chi ci rotolerà via la pietra dalla tomba?”. Se avessimo fede, potremmo spostare le montagne (Matteo 21,21). “Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità” (Marco 9,24).
OGNI ANNO PASQUA
Ogni anno torniamo sul Golgota, ai piedi della croce; e poi, ancora increduli, scorgiamo la tomba scoperchiata. Lo facciamo ogni anno, tentando strade nuove o ripetutamente calcate per penetrare il mistero della pasqua di Gesù. Proviamo e riproviamo ad avvicinarci alla tenebra troppo angosciante di un Dio crocifisso e alla luce troppo abbagliante della sua resurrezione. E ogni anno sentiamo di non essere molto progrediti nella comprensione; ancor meno nella conversione. Siamo quelli di sempre: che si commuovono per l’amore sconfinato di Gesù, che offre la sua vita per noi; ma poi continuiamo a lasciarlo solo, preferendo percorrere altre strade, diverse dalla sua. Ogni anno arriviamo a Pasqua a mani vuote. Ed ogni volta, Lui è lì, che prega per noi: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. È lì non per condannare i nostri tradimenti, ma per venirci incontro e dirci: “Pace a voi”.
È con gente come noi che il Crocifisso risorto vuole edificare il suo Regno. Pasqua è esperienza di grazia. Di stupore per quel dono immeritato, più forte della morte. E di fiducia: “se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”.
Non ho niente da darti
– “Eccomi, o Dio. Mi cercavi? Cosa volevi?
Non ho niente da darti.
Dopo il nostro ultimo incontro
non ho messo da parte niente per te.
Niente… neanche una buona azione. Ero troppo stanca.
Niente… nemmeno una buona parola. Ero troppo triste.
Nient’altro che il disgusto di vivere, la noia, la sterilità.
– Dammeli! dice Dio.
– La fretta, ogni giorno, di arrivare a sera, senza esser servita a niente; il desiderio del riposo, lungi dal dovere e dalle attività, il distacco dal bene da fare, perfino il disgusto di te, mio Dio!
– Dammeli!
– Il torpore dell’anima, i rimorsi dell’indolenza e l’indolenza più forte dei rimorsi…
– Dammeli! Dice Dio.
– Il bisogno di essere felice, la tenerezza che sfianca, il dolore di essere senz’alcun aiuto…
– Dammeli!
– I turbamenti, gli spaventi, i dubbi…
– Dammeli! Dice Dio.
– Ma Signore! tu vai raccattando rifiuti, immondizie, come uno straccivendolo. Cosa ne farai?
– Il Regno dei cieli, dice Dio”.
(Marie Noel)
COME UN ASINO
“Un giorno, l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva più uscirne. L’asino continuò a ragliare per ore, mentre il proprietario pensava cosa fare. Alla fine, il contadino decise che l’asino era troppo vecchio e che il pozzo era ormai secco. Non valeva la pena tirare fuori l’asino. Allora, chiamò i vicini perché lo aiutassero a seppellire vivo l’asino. Ognuno di loro cominciò a buttare terra dentro il pozzo. L’asino si rese conto di quello che stavano facendo e pianse disperatamente. Ma, ad un certo punto, rimase zitto. Il contadino, allora, guardò nel fondo del pozzo e rimase sorpreso da quello che vide. Ad ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava scrollandosela, facendola cadere e salendoci sopra. In questo modo, l’asino riuscì ad arrivare fino all’imboccatura del pozzo e uscirne trottando”.
Questa storia, citata dalla poetessa Chandra Livia Candiani, nel suo libro sull’arte di meditare Il silenzio è cosa viva, suggerisce uno sguardo sapienziale sulla nostra vita, che a volte ci sembra insopportabile, senza scampo. La sapienza è un modo di guardare all’esistenza non accontentandosi di un’occhiata veloce ma riflettendo, meditando. E meditare non è cercare vie d’uscita, ma vie d’entrata: proprio come fa l’asino, che entra nella sua situazione, sente la disperazione, grida, poi accoglie quello che sta succedendo, non ne resta sommerso. Non è vittima della situazione: si scrolla di dosso la terra e quella stessa terra diventa la sua risorsa. È la sapienza dello “stare”, dell’entrare in intimità con quanto ci succede.
Abbiamo tutti bisogno di avere momenti di silenzio non tanto come evasione dai rumori e dalle chiacchiere ma per offrire a quanto ci accade nella vita quotidiana una risposta e non solo una reazione impulsiva. Un silenzio che serve a guardarci e ad ascoltarci. La vita domanda ascolto. Meditare significa lasciare spazio intorno ai gesti ordinari, dare loro una stanza, affinché possano brillare e quella luce riesca ad aprire un varco nell’oscurità in cui, di solito, viviamo. E mentre ascoltiamo più a fondo il nostro vissuto, ci apriamo anche alle voci delle altre persone e a quella di Dio.
La fede nasce dall’ascolto (Romani 10,17). Ciò di cui più abbiamo bisogno, oggi, è concederci il lusso di alcuni momenti di silenzio e di ascolto. Per lasciarci istruire dalla vita e dalla sapienza divina testimoniata nelle Scritture. Non c’è opposizione tra le due: la Parola di Dio parla al nostro quotidiano, lo illumina e apre squarci di senso; e la nostra vita di sempre, se ascoltata a fondo, dà carne al sogno di Dio.
Nei giorni che precedono la Pasqua, proviamo a rinunciare al lamento per cercare, nel silenzio, di ascoltarci. E, insieme, di ascoltare la Parola di Gesù, il Maestro di sapienza che ci insegna ad attingere al nostro pozzo – un pozzo che fissa il cielo – con l’ostinazione e l’intelligenza che non mancano nemmeno agli asini!
TRE PORTE
Un proverbio arabo recita così: “Ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare attraverso tre porte. Sulla prima c’è scritto: È vera? Sulla seconda c’è la domanda: È necessaria? Sulla terza porta è scolpita la scritta: È buona?”.
Chi siamo noi? Non è difficile rispondere: siamo una chiesa. E che cos’è una chiesa? Qui le cose si complicano. Stiamo al senso primo della parola: chiesa è la traduzione italiana di un termine greco che significa: chiamati, convocati. Da chi? Da un Dio che parla. Se fosse muto, non ci chiamerebbe. Ma il nostro Dio parla. E Gesù è la sua Parola fatta carne. Il tesoro di una chiesa, ciò che la costituisce e la identifica, è la Parola, testimoniata nelle Scritture. Una chiesa, ovvero un gruppo di persone che si riunisce intorno alla Parola, ha nel sangue una particolare sensibilità per le parole. Il suo Dio, infatti, si serve delle parole umane per comunicare il suo progetto di salvezza. Senza le parole, la vita diviene muta e anche Dio tace.
Torniamo alla domanda iniziale: chi siamo? Siamo una chiesa, ovvero una comunità sensibile alla Parola. Aggiungiamo una coordinata storica: siamo una chiesa che si trova a vivere in un epoca in cui le parole sono umiliate. Da sempre, le parole sono fragili. Da sempre gli esseri umani le cambiano con disinvoltura, le svuotano di significato, le falsificano e se le rimangiano. Eppure, questa corruzione delle parole costituiva l’eccezione, una deviazione da cui prendere le distanze. Oggi, viviamo in un tempo che è stato definito come l’epoca della post-verità, ovvero dove le parole vengono usate non per dire la verità delle cose ma per l’interesse di chi parla. Quando sentiamo una notizia, non sappiamo più se sia vera o inventata, se le parole descrivano quanto succede veramente o siano fake news, notizie false. E noi stessi rischiamo di cadere in questo uso disinvolto delle parole, facendo circolare false notizie, parlando male delle persone, indulgendo al pettegolezzo e al facile giudizio. Ha scritto Italo Calvino: “Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola… Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile”.
Oggi, i credenti nel Dio che parla sono chiamati a vivere una fede che si assume la responsabilità delle parole, la cura del linguaggio. Che si rifiuta di usare le parole distrattamente, in modo superficiale. Leggiamo nel libro dei Proverbi: “Come un pazzo che scaglia tizzoni, frecce e morte, così è colui che inganna il prossimo, e poi dice: «L’ho fatto per ridere!»” (26,18s). Riascoltiamo quanto dice l’apostolo Giacomo: “Se uno pensa di essere religioso, ma poi non tiene a freno la sua lingua e inganna se stesso, la sua religione è vana” (1,26). E ancora: “la lingua è un piccolo membro, eppure si vanta di grandi cose. Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta!” (3,5). Anche Gesù, nell’insegnamento riportato da Matteo, affronta la questione: “il vostro parlare sia: “Sì, sì; no, no”; poiché il di più viene dal maligno” (5,37).
Chi considera la Parola come il tesoro più prezioso, è chiamato a custodire le parole, tenendo a freno la propria lingua.
Abbiamo bisogno di ritrovare questa sapienza nel parlare, che domanda cautela, attenzione a non ferire l’altro, desiderio di offrire parole buone, come quelle che Dio rivolge a noi.
Le parole tessono la trama quotidiana del nostro vivere. Interrogati su come parli. Se prima di parlare sai ascoltare; e, allora, saprai se la tua vita è sana, se sai custodire la bellezza e la bontà del mondo, amato da Dio; o se, invece, devi purificare il tuo parlare, facendolo nascere dal silenzio e dall’ascolto, rendendolo meno simile alla chiacchiera e più essenziale, facendolo passare per le tre porte evocate dal proverbio.
2019
PARTIAMO DALLA VITA CONCRETA
Nelle nostre vite sperimentiamo “sentimenti misti”. Anche se ci descriviamo a tinta unica – sto bene, sto male, è un buon periodo, va tutto storto – è raro che sia veramente così. In noi convivono sensazioni opposte, che possiamo esplicitare solo ricorrendo ad una tavolozza di più colori. Prendiamo l’inizio di un nuovo anno. Non ci sorge il desiderio di ricominciare, di sperare in qualche novità, non ancora vissuta finora? E nello stesso tempo, non sentiamo in sottofondo quell’altra voce, che ci dice: sarà tutto come prima, se non peggio, visto che gli anni passano e le forze diminuiscono? In noi abitano sia la fede che l’incredulità; nel nostro cuore si combattono la speranza ed il sospetto che si tratti solo di un’illusione. La tentazione sta nel pensare che, se credi in Dio, devi respingere questi sentimenti misti ed essere una persona tutta d’un pezzo. Ovvero, che dalla parte di Dio ci sono la fede, la speranza e l’amore; mentre è dalla parte delle nostre debolezze che troviamo l’incredulità, la disperazione e l’egoismo. È vero che il Dio di Gesù desidera per ciascuna persona una vita piena; che siamo chiamati ad essere “beati”, felici, coltivando la fiducia, la passione per il bene e la bellezza delle relazioni. Ma questo Dio, per il quale siamo prezioso, che scommette su di noi, ci incontra proprio mentre viviamo e, di conseguenza, abbiamo sentimenti misti, sperimentiamo la contraddizione.
C’è una leggenda a proposito di Girolamo, un cristiano dei primi tempi, un grande studioso delle Scritture, che dice bene tutto questo.
Ben prima di diventare uno studioso della Bibbia, Girolamo aveva tentato per un periodo di vivere da eremita in una grotta del deserto di Giuda. Con la presunzione tipica dell’età, il giovane Girolamo si era dedicato con ardore alle molteplici forme di ascesi allora in uso tra i monaci. Ma i risultati si facevano attendere: nonostante tutti i suoi sforzi generosi, non riceveva alcuna risposta dal cielo. Girolamo era scoraggiato: cosa aveva fatto di male? Dov’era la causa di questo cortocircuito tra Dio e lui? Mentre Girolamo si arrovellava il cervello, notò all’improvviso un crocifisso che era comparso tra i rami secchi di un albero. Girolamo si gettò a terra. Subito Gesù rompe il silenzio: “Girolamo – gli dice – cos’hai da darmi? Cosa riceverò da te?”. La semplice voce di Gesù bastava già a ridare coraggio a Girolamo, che si mette subito a pensare a qualche regalo da poter offrire all’amico. “La solitudine nella quale mi dibatto, Signore”, gli risponde. “Ottimo, Girolamo, – replica Gesù – ti ringrazio. Hai fatto davvero del tuo meglio. Ma non hai qualcosa di più da offrirmi?”. Girolamo ripensa a cosa potrebbe ancora offrire a Gesù. Ecco allora che ricorda le veglie, la recita dei salmi, lo studio assiduo, giorno e notte, della Bibbia, la povertà, gli ospiti più imprevisti che si sforzava di accogliere senza brontolare e con una faccia non troppo burbera. Ad ogni offerta, Gesù si complimenta e lo ringrazia; ma, con un sorriso astuto sulle labbra, lo incalza e gli chiede: “Girolamo, hai qualcos’altro da darmi?”. Alla fine, un po’ scoraggiato, finisce per balbettare: “Signore, ti ho già dato tutto, non mi resta davvero più niente!”. Allora Gesù replica un’ultima volta: “Sì, Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi anche i tuoi peccati, affinché possa perdonarteli”.
All’inizio del nuovo anno, partiamo da qui. Dalla vita concreta, limitata, contraddittoria e fragile. Non siamo persone tutte d’un pezzo e la nostra chiesa non è, certo, perfetta. Eppure, è proprio con noi che il Signore desidera camminare anche quest’anno, accompagnandoci nel groviglio delle nostre esistenze, senza arrendersi di fronte alle nostre incapacità. Lui ci ama con amore gratuito: ci accoglie nel suo perdono e cerca di farci fare qualche passo in avanti.
“Noi vogliamo credere in Te, Signore. Ma Tu aiutaci nella nostra incredulità!” (cfr. Marco 9,24).
Buon cammino, buon anno!
UN NATALE IN CAMMINO
Per comprendere il senso delle Scritture, senza cadere nella trappola di far dire loro quello che noi desideriamo, si possono percorrere molte strade. Un modo abbastanza semplice consiste nel mettere a confronto l’idea che ci siamo fatti di un episodio con ciò che effettivamente sta scritto nella Bibbia in proposito. Ovviamente, all’inizio le nostre idee ci sembreranno simili a quello che leggiamo. La tentazione è quella di dire: è così, come dicevo io. Non fermiamoci, però, a questa prima impressione. Come nel gioco del “Trova le differenze”, diamoci del tempo per aguzzare la vista e cogliere i particolari.
I due disegni da confrontare si riferiscono al Natale. Il primo fotografa il nostro immaginario. Per noi, Natale è una festa domestica: si sta insieme, a casa; si respira quel clima che ci fa gustare – almeno una volta all’anno – la bellezza degli affetti familiari. Non è poco, anzi! Ed è proprio “natalizio”: non c’è migliore situazione di una nascita per sentire l’importanza della casa, della famiglia. Di fronte ad una bimba, ad un bimbo appena nati, anche i più duri si stupiscono; e i tanti problemi che ci preoccupano, almeno per un attimo, sono messi a tacere di fronte alla vita che si rinnova. Lo stesso avviene per la nascita di Gesù. E noi ci sentiamo coinvolti con quella famiglia che, pur in mezzo a tante difficoltà, ora gioisce per quel neonato e si sente a casa persino in quell’alloggio di fortuna, rimediato all’ultimo momento. Dunque, nel nostro immaginario, Natale significa casa, affetti, stupore. Ora volgiamo lo sguardo al secondo disegno, quello illustrato dai racconti evangelici. Impossibile non vedere la differenza principale. Sia per Matteo che per Luca – i due evangelisti che narrano la nascita di Gesù – quella nascita non ha nulla di “statico”, di casalingo; tutto è movimento, viaggio. Sembra quasi che Gesù venga partorito in una pausa tra un viaggio e l’altro. Viaggi fisici: quello di Maria incinta, che va a trovare Elisabetta, sua parente; quello di Giuseppe e Maria, che vanno da Nazareth a Betlemme per il censimento; e, dopo la nascita di Gesù, la fuga in Egitto, per scampare al piano criminale di Erode. Non è solo la famiglia di Gesù a muoversi: anche gli altri personaggi del racconto lo fanno. I sapienti che vengono dall’Oriente; i pastori, che custodiscono il gregge nei campi. Una lettura ancora più attenta riesce a vedere, poi, altri viaggi, quelli interiori: vissuti da un uomo che sentiva il mondo crollargli addosso, di fronte alla notizia che la sua amata era incinta di un figlio non suo; e da una ragazza che non pensava esattamente in questi termini il suo futuro.
Ma allora, dove sta il senso del Natale? Nella casa o nella strada? È un festa che ci chiede di fermarci, per assaporare gli affetti; oppure, che ci mette in movimento, che domanda cambiamento? Come nel gioco del trovare le differenze, ci rimaniamo male per non averle viste prima. E ci giustifichiamo dicendo che la differenza era troppo piccola per essere notata, che noi non stiamo a guardare il pelo nell’uovo. Che a Natale l’importante è volersi bene. Giusto! Ma se stiamo al gioco, quella differenza è importante. Non ci dice che il primo disegno, quello del nostro immaginario, è brutto. Ci dice solo che il racconto evangelico desidera aprirci gli occhi su un altro panorama. Smuove il nostro “io”, preoccupato di difendere l’esistente, di giustificarsi, per aprirlo ad altri orizzonti. Oggi, viviamo un tempo di vite spesso bloccate, spaventate, incapaci di aprirsi al futuro e costrette a giocare il brutto gioco del “tutti contro tutti”. Possiamo arrenderci al presente, al “così fan tutti”; oppure, possiamo disporci al viaggio, metterci in discussione, lasciare che la Parola di Dio ci converta. Mossa azzardata? Non dimentichiamoci che, durante un terremoto, il luogo più sicuro è la strada!
Buon Natale a chi non si sente sazio, arrivato e continua ad interrogarsi sulla vita e sul senso della fede, oggi. La nascita di Gesù sia anche la nostra nascita. Ci smuova, ci apra al cammino, avendo la sua Parola come lampada per i nostri piedi.
LA RINCORSA
La chiesa è un gruppo d’ascolto, fatto di persone accomunate dal desiderio di sentire e fare propria una Parola che consola, incoraggia, illumina, corregge, indica cammini. Una Parola speciale, certo, poiché è quella di Dio. E tuttavia, parola e, dunque, fragile, che si propone e non si impone: un “soffio leggero”, come cantiamo. Eppure, noi scommettiamo sulla forza di quella fragile Parola. O almeno, intuiamo che è nell’ascolto della Parola che ci giochiamo la fede. Ma ci succede anche di smarrirne il significato, di perdere le motivazioni, di ridurre l’arte dell’ascolto ad abitudine vissuta per forza d’inerzia. Anche questo fa parte della fragilità della Parola, sempre a rischio di essere smarrita persino da chi si dice credente. E allora una chiesa non può limitarsi ad annunciare la Parola; è chiamata a rimotivare l’ascolto, interrogandosi sul senso di questa Parola “altra”.
Perché mettersi in ascolto di una Parola vecchia di due millenni? Perché dedicare del tempo a testi antichi, scritti con un linguaggio che non è più il nostro? Non dovremmo, piuttosto, concentrarci sul presente, affrontando le sfide attuali? Non corriamo il rischio di evadere questo nostro tempo, con la scusa di ricercare Dio? Domande importanti, che ci aiutano a recuperare il senso dell’ascolto della Parola.
Perché, dunque, scommettere ancora oggi sulla Parola? Mentre me lo chiedo, prende forma nella mia testa un’immagine, quella della rincorsa. Per saltare un ostacolo, per far sì che i nostri movimenti puntino più in alto o più distante, è necessario prendere la rincorsa. Altrimenti, stando fermi, il margine di movimento è estremamente ridotto. Noi, oggi, viviamo “schiacciati sul presente”, sequestrati dalle cose da fare e dalle notizie del giorno. Certo, ci sembra di essere sempre in movimento, nelle nostre vite di corsa. Ma è come se camminassimo su un tappeto rotante: ci affanniamo, sudiamo, ma non andiamo da nessuna parte. Lo sguardo che accendiamo sulla vita ha un orizzonte ristretto. È come se gli occhi fossero appiccicati alla pagina, che dovremmo leggere, ma che non riusciamo a farlo, perché manca la distanza necessaria, non c’è prospettiva.
Per non essere eternamente bloccati, per non essere succubi del nostro piccolo “io”, per non andare a rimorchio del “così fan tutti”, dobbiamo prendere la rincorsa.
Ebbene, la scelta di ascoltare la Parola delle Scritture può giocare questa funzione. Poichè non è una delle tante parole del nostro presente: viene da lontano e apre ad un futuro differente. È Parola che si distende nel tempo; non si consuma nell’attimo in cui è detta, come gli slogan che risuonano nelle nostre orecchie. È Parola “sapiente”, che interroga il nostro presente e lo apre al futuro di Dio.
Nel nostro cammino di quest’anno, alla scuola di Matteo, l’evangelista che punta sulla sapienza del Maestro Gesù, ci viene proposta questa mossa atletica del prendere la rincorsa.
Facciamo dei passi indietro. Distogliamo l’attenzione sequestrata dal presente, per ascoltare una Parola più antica, che parla diversamente della vita, di ciò che veramente conta. E cerchiamo in quella Parola lo slancio necessario per osare il futuro, per andare oltre quel giocare in difesa, che ci sta schiacciando, oltre le molte paure che ci paralizzano, incattivendoci gli uni contro gli altri, giudicanti e pieni di risentimento. Più che mai, abbiamo bisogno di esperienze di rincorsa, di ascoltare una Parola “slanciata”, che ci rimette in cammino, insieme alle donne e agli uomini che Dio, nonostante tutto, continua ad amare.
IN CERCA DI SAPIENZA, OLTRE IL NOSTRO EGO
Quest’anno, sarà l’Evangelo secondo Matteo a guidarci nel nostro cammino come chiesa. In un passaggio-chiave di questo racconto evangelico, leggiamo:
«ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa
il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie» (13,51s).
Cosa significa questa immagine usata da Gesù? Che i discepoli e le discepole sono chiamati ad essere come degli scribi, ovvero i dottori della Torà, che conoscono a fondo le Scritture e da esse sanno estrarre la sapienza antica, fornendole nuove interpretazioni. Matteo ci invita a leggere il suo racconto alla ricerca di una sapienza, che è tanto antica quanto attuale. La sfida di quest’anno, dunque, sarà quella di maturare una sapienza, vincendo la tentazione di agire impulsivamente, sulla base degli umori e delle sensazioni del momento. Un rischio più che mai attuale, in questo mondo che assomiglia ad uno stadio, popolato di tifosi eccitati, che gridano a favore della propria squadra e contro quella avversaria. Tifosi che desiderano sfogare la rabbia ed il rancore a lungo accumulati; che si sentono un corpo compatto, sicuro, che fischia o esulta con un’unica voce. La scommessa dei discepoli di Gesù consiste nel credere che la vita non può essere vissuta sulla base di slogan, ma ha bisogno di sapienza. Che non è tempo perso fermarsi ad ascoltare il Maestro, per riflettere sulle nostre vite alla luce della sua Parola.
Per Matteo, il punto fermo nella scena mobile della storia umana è costituito dalla Parola di Dio: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (24,35).
Una chiesa che non voglia soccombere alle intemperie della storia, deve porre le proprie fondamenta sulla roccia di un ascolto che prevede la messa in pratica; deve diventare comunità “sapiente” e “operativa” (7,21): «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato a un uomo avveduto che ha costruito la sua casa sopra la roccia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno investito quella casa; ma essa non è caduta, perché era fondata sulla roccia» (7,24-25).
Ecco, quest’anno vogliamo provare a compiere la mossa dello scriba di Matteo, che estrae dal suo tesoro la sapienza necessaria per amministrare la casa. Lo facciamo sapendo che i nostri occhi soffrono della poca luce imposta dall’orizzonte ristretto del nostro io. Niente di nuovo, del resto. Sentite che ironica preghiera ha intonato al proprio “Ego” (l’io) Pierre de Bruys, un autore vissuto mille anni fa:
Oh mio Ego,
anche oggi dilatati ed espanditi a dismisura!
Fa che anche in questo giorno, tu sia il mio tutto, il metro per misurare ogni cosa.
Lascia che io parli male degli altri, così giusto per parlare,
con quel grado di allusione col quale io possa screditare l’altra persona,
senza neppure prendermi il fastidio di pronunciare il suo nome.
Concedimi quel pizzico di verità che mi basta per impastare tutte le mie menzogne che risulteranno così molto più convincenti.
Fa che io sia attento a parlar male sempre degli assenti e di quelli che perciò non possono difendersi. A turno, lo so nel profondo del mio cuore, riuscirò a farlo di tutti!
Concedimi una vista acuta,
perché io possa vedere ogni pagliuzza nell’occhio dell’altra,
ma evitami ogni specchio che possa rivelare la mia condizione.
Fa che io ricordi e ricordi bene,
ogni errore degli altri, ogni parola inopportuna,
ogni danno che mi è stato fatto,
al solo scopo di potermi vendicare al momento opportuno.
Oh mio Ego, com’è bello e dilettevole togliersi i sassolini dalle scarpe!
Ma fa, ti prego, che io riesca a manipolare bene la memoria,
in maniera da non ricordare neppure una delle cose
sbagliate e della parole ingiuste che io stesso ho pronunciato.
Lascia che anche oggi io possa esercitarmi nella distribuzione severa di voti verso tutti.
Tutte insufficienze, naturalmente!
Ma ad alcuni, quelli che non insidiano la mia superiorità e che mi sono acquiescenti,
lascia che io dia, qui e là, una approvazione, giusto per mostrarmi anche un po’ benevolo.
Fa che anche oggi io riesca a provare quella interiore soddisfazione
che viene dall’aver demolito un’altra persona che godeva prima di una qualche pubblica o privata stima.
Poi, mio adorato Ego, mio solo Signore,
fa che io non debba incontrare nessuno più bravo di me, più intelligente di me, più onesto di me.
E se questo dovesse accadere,
fa che la mia invidia trovi la strategia per neutralizzare le altrui virtù.
E’ così facile farlo per i personaggi pubblici!
Ma fa che mi riesca bene anche con persone semplici.
Dammi le espressioni più colorite per parlar male dei religiosi.
Fa che io possa trovare appigli per criticare anche la mia chiesa;
soprattutto dammi argomenti contro quelli che si affaticano per farla progredire.
Che io possa in tal modo avere il giusto alibi del mio disimpegno e della mia diserzione!
Ed ora, o mio Ego amato,
ora che ti sei gonfiato oltre ogni misura,
fa che io non scopra mai di essere soltanto
un pallone gonfiato. Amen
Non vi sembra che siamo ancora qui, col nostro “io” che detta legge? Alla scuola di Matteo, cercheremo di capire come resistere al ripiegamento su noi stessi, al fascino dell’immediatezza e della novità e come tenere viva la sapienza dell’ascolto, come affrontare la sfida di scavare significati nuovi in discorsi antichi. Proviamo a scommettere su quella sapienza che, oggi, ci manca, per quella roccia di cui proviamo una nostalgia struggente, in questo nostro mondo liquido.
ERAVAMO QUATTRO AMICI AL BAR…
DIALOGO SETTEMBRINO
RENZO: ciao Antonio, tutto a posto? Come sono andate le ferie?
ANTONIO: passate, archiviate, dimenticate!
RENZO: beh, si sa che è così; adesso, per un po’, tocca lavorare.
ANTONIO: lascia perdere, che se penso al lavoro, sto male. Un capo che pensa di essere il Padre eterno, dei colleghi che non capiscono niente. Mi tocca fare di tutto e di più: ho il fegato rovinato e gli incubi di notte.
RENZO: ma almeno tu un lavoro ce l’hai. Pensa a me, che non ho niente da fare, se non venire al bar. Praticamente sono depresso.
ANTONIO: ecco, vedi come va il mondo? c’è chi troppo e chi niente. E intanto quelli in alto se la godono, alla faccia nostra!
RENZO: sì, è vero. Dicono che è sempre stato così. Ma io sento una rabbia: li ammazzerei tutti, quei bellimbusti che ci hanno portato a questa disastro.
ANTONIO: sì, che poi, ci fossero solo i nostri problemi, potremmo risolverli in fretta. Ma dobbiamo mantenere anche gli altri, quelli senza arte né parte, che vengono qua e se ne approfittano di noi.
COSIMO: eccoli qui, i miei amici! Non mi avete aspettato per il bianchino?
RENZO: sei il solito ritardatario: si vede che vieni dall’Italia.
COSIMO: senti chi parla, quello che timbra il cartellino per primo…
ANTONIO: ragazzi calma. Non litighiamo.
COSIMO: giusto, niente risse stasera. Però, a dirla tutta, da un po’ di tempo avrei voglia di muovere le mani. Non va bene niente. Sono arrabbiato con tutti. Ci mancava anche mio figlio, che mi fa disperare.
ANTONIO: cos’è successo?
COSIMO: niente. E’ strafottente, pretende tutto. Un giorno o l’altro gli metto le mani addosso, così capisce la lezione.
GIULIO: ehilà, la compagnia della tazza! In vino veritas!
RENZO: ma come fai ad essere sempre allegro? Si vede che sei un figlio di papà, un privilegiato: senza debiti, senza figli, cambi partner ogni tre per due… Vorrei farla io la tua vita.
GIULIO: bell’amico che sei! Ti fa rabbia che io sia felice? E dai: la ruota gira e prima o poi incomincerà ad andare bene anche a te.
ANTONIO: dici? A me sembra che è sempre uguale, che non cambia niente.
COSIMO: anche il bianchino del Grotto è sempre lo stesso. E in questi tempi mi va di traverso.
RENZO: chissà come lo fanno, cosa ci mettono dentro. Meglio non pensarci, altrimenti non bevi e non mangi più niente.
GIULIO: beh, non si fa la partitina a carte? Stasera siete tutti filosofi. Canta che ti passa. Alla salute!
COSIMO: alla salute!
ANTONIO: che si faccia un repulisti della brutta gente!
RENZO: e che io possa vincere al lotto, almeno una volta!
IL QUINTO AMICO
ISAIA: Io dimoro nel luogo eccelso e santo,
ma sto vicino a chi è oppresso e umile di spirito [vengo anche al Bar, a sentire i vostri spropositi!]
per ravvivare lo spirito degli umili,
per ravvivare il cuore degli oppressi…
I miei pensieri non sono i vostri pensieri,
né le vostre vie sono le mie vie …
Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare;
non la riconoscerete?
Sì, io aprirò una strada nel deserto,
farò scorrere dei fiumi nella steppa…
Poiché, ecco, io creo nuovi cieli
e una nuova terra;
non ci si ricorderà più delle cose di prima;
esse non torneranno più in memoria.
NOI
Signore, nei deserti delle nostre vite mediocri, inconcludenti, arrabbiate,
mentre pensiamo che questo tempo che ci dai sarà uguale a quello già vissuto,
irrompi Tu, novità assoluta.
Tu, che non ti arrendi di fronte alle piccolezze e agli scoraggiamenti.
Continua a credere in noi, nonostante tutto!
DAL SENSAZIONALE AL SENSIBILE
Che cosa fai, questa estate? Dove vai in ferie? Domande ordinarie, che risuonano in questo periodo e che smuovono desideri e delusioni. Qualcuno, infatti, risponde descrivendo il sogno coltivato durante l’anno, quel paesaggio da favola che, tra poco, potrà vedere e gustare. Quelli, invece, che rimangono a casa o che vanno in posti per niente speciali, si sentono privati di qualcosa che li avrebbe resi felici. In ogni caso, per tutti, soddisfatti e delusi, l’estate passerà troppo in fretta, riportandoci al solito trantran quotidiano. Siamo tutti assetati di bellezza e ogni persona dovrebbe poterla gustare. Ma come fare, se poi non abbiamo la possibilità di vivere esperienze speciali, sensazionali? La vita non sempre – quasi mai! – corrisponde ai nostri desideri. Che cambiano da persona a persona ma sono tutti desideri di “altrove”, di fuga dal quotidiano. Se abitassi in un’altra casa, se avessi un altro lavoro, se incontrassi altre persone…, allora sì che potrei essere felice! In questo modo, però, ci condanniamo a sopportare il presente, a disprezzarlo perché non è come vorremmo. E se provassimo, invece, a stare nel presente, a guardarlo con occhi curiosi, ad ascoltarlo con interesse? Non c’è bisogno di andare in capo al mondo per fare esperienze belle, per udire parole illuminanti. Certo, se hai l’occasione, vai: visita altri paesaggi, ascolta altre musiche. Ti si allargherà la mente, il corpo si distenderà. Sappi, però, che ciò che si allarga facilmente torna a restringersi; e al rilassamento, segue di nuovo la tensione. Le parentesi per tirare il fiato servono; ma bisogna respirare anche quando le parentesi si chiudono.
In ferie o nel lavoro, in luoghi esotici o tra le solite mura di casa, la differenza è data dai nostri sensi e dall’arte di renderli attenti, sensibili. In ogni situazione, tu puoi guardare e gustare la realtà che si presenta ai tuoi occhi; ma il vedere è un’arte. Non conta l’eccezionalità delle cose che vedi; conta il “come” le guardi. Il poeta Rilke lo dice molto bene:
Noi siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra, –
al più: colonne, torre… ma per dire, capisci,
per dire così, come mai le cose stesse
intimamente sapevano d’essere.
Saper guardare l’ordinario, lasciandolo finalmente parlare. Non come qualcosa di banale e scontato ma come l’ingrediente che rende gustosa la vita. Guardare e nominare diversamente le cose di tutti i giorni: è lo sguardo trasfigurato a rendere speciale l’esistenza.
Sguardo rivolto al mondo ma anche indirizzato alla nostra persona. La Bibbia ci può aiutare nel lavoro di affinare e rendere sensibili gli occhi e gli orecchi.
“La Sacra Scrittura – diceva Gregorio Magno – si presenta agli occhi della nostra mente come uno specchio, perché in essa appaia il nostro volto interiore. È qui infatti che noi prendiamo conoscenza delle nostre cose brutte, delle nostre cose belle, per non diventare superbo per temerarietà e neppure disperato per paura, ma rafforzato nella fiducia e nella speranza”.
Guardare e guardarsi, ascoltare e ascoltarsi: mentre proviamo a staccare dalle occupazioni che svolgiamo durante l’anno e a rilassarci, scommettiamo sull’importanza di accorgerci, di essere sensibili alle persone, alle cose, alle parole e a quella Parola che, nel silenzio, risuona luminosa ed è acqua viva per la nostra sete di felicità.
RILASSATEVI E CREDETE ALL’EVANGELO!
C’è aria di ferie, a giugno. Finiscono le scuole e qualcuno inizia già a partire per le vacanze. Le giornate si allungano, gli impegni di diradano. E poi, quest’anno, ci sono i mondiali di calcio, con la Svizzera che affronta il Brasile! Anche questo bollettino, normalmente serioso (!), fa il cambio stagione e indossa indumenti estivi, più leggeri e colorati. La T-shirt di questo mese esibisce una frase che corregge e riscrive una più impegnativa affermazione evangelica, quella con cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico: “ravvedetevi e credete all’evangelo” (Marco 1,15). La versione estiva suona così: “rilassatevi e credete all’evangelo”! Vi sembra dissacrante e troppo scanzonata? Senza offesa, ma se avete questa reazione scandalizzata, significa che avete venduto l’anima all’idolo della produttività e dell’efficienza. Che vi siete persi l’ultima mossa del Creatore, quando ha riposto nella cassetta degli attrezzi i diversi strumenti impiegati per dare alla luce il mondo e ha creato il sabato. Il giorno del riposo è il vertice della creazione divina:
Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che aveva fatta. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso Dio si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta (Genesi 2,2-3). La Bibbia, che aveva previsto l’obiezione di cristiani troppo seri, ripete per ben due volte che Dio si riposa. E se lo fa Lui, non dovremmo farlo anche noi? Grazie a Dio, non siamo noi i salvatori del mondo. Ed anche il nostro modesto contributo risulterà utile, a patto che lo offriamo con serenità, arginando quell’urgenza che è tale solo nella nostra testa.
Rilassiamoci, allora. Ovvero, sgombriamo la testa dai pensieri ossessivi. Riposiamo il corpo, sottraendolo allo stress da performance. Lasciamo che lo sguardo vaghi altrove dai soliti panorami e gli orecchi intercettino suoni nuovi.
E nel relax, potremo rileggere l’anno trascorso non sotto le voci di un bilancio economico, che prevede solo guadagni e perdite, ma con la libertà dello stupore, che non viene meno neppure quando ammettiamo di non avere chiaro quale strada abbiamo percorsa. Come mi ha scritto un caro amico: “Vagando e vagando/ raccogliendo e raccogliendo/ senza direzioni,/ ma fissi all’orizzonte/ abbiamo esplorato oceani/ dentro le nostre vite”.
Lo senti il rumore delle onde che si agitano in te? Sei capace di gustare l’acqua viva che, pur in mezzo ai deserti della vita, continua a scorrere? Sai bere al tuo pozzo?
Ecco, rilassarsi è, insieme, riposarsi e tornare alle sorgenti del proprio esistere. E’ credere alla lieta notizia che tu sei più di quello che riesci a fare. Che c’è una gioia di vivere che nessuna esperienza negativa può toglierti.
Rilassiamoci, dunque, per gustare la vita e credere nella sua bellezza!
GLI OCCHI DELLA RESURREZIONE
Per poter credere alla resurrezione dei morti, occorre che risorgano gli sguardi!
Il racconto di Luca insiste su questo aspetto. I due discepoli di Emmaus non riconoscono quel forestiero che cammina con loro perché i loro occhi erano impediti (Luca 24,16). Solo dopo che Gesù ha spiegato loro le Scritture e spezzato il pane, allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero (Luca 24,31).
Come guardiamo le nostre vite, il mondo? Il famoso pittore Pablo Picasso ha scritto: «C’è un solo modo di vedere le cose, finché qualcuno non ci mostra come guardare con altri occhi». Ecco, la resurrezione consiste, innanzitutto, nell’avere altri occhi con cui guardare la realtà, senza accontentarci del nostro primo sguardo, delle idee che ci siamo fatti e che continuamente ripetiamo.
A differenza dai nostri occhi miopi, capaci di vedere solo il nostro io e quanto gli sta vicino, gli occhi della resurrezione permettono una visuale ampia, che mette a fuoco ogni malcapitato che incrociamo, sebbene sconosciuto, convincendoci a “farci prossimi” a lui (Luca 10,25-37). Gli occhi della resurrezione permettono uno sguardo profondo, che non si accontenta delle prime impressioni, che non si ferma alla superficie di ciò che guarda ma prende sul serio la realtà, lasciandosi interrogare da essa.
Lo sguardo redento, per Luca, abbraccia l’intera storia e sa scorgere in essa la presenza di Dio.
Una storia da amare e da comprendere. Questo ci chiede Gesù: «Quando vedete una nuvola venire su da ponente, voi dite subito: “Viene la pioggia”; e così avviene. Quando sentite soffiare lo scirocco, dite: “Farà caldo”; e così è. Ipocriti, l’aspetto della terra e del cielo sapete riconoscerlo; come mai non sapete riconoscere questo tempo? Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Luca 12,54-57).
Gli occhi della resurrezione sanno discernere il proprio tempo e scorgere ciò che è giusto fare, come singoli e come comunità.
In questo mese vivremo due importanti momenti di discernimento: l’Assemblea di Chiesa (20 maggio) e la giornata comunitaria in cui ci chiederemo come discernere la volontà di Dio sulla nostra Chiesa in questo nostro tempo (26 maggio). Due momenti che vogliono iniziare a gettare sguardi ampi e profondi sul presente e sulla fede. Per questo abbiamo bisogno di occhi nuovi, gli occhi della resurrezione. Occhi dati a chi ha davvero incontrato Dio. Occhi che non temono di incrociare altri occhi, quelli delle donne e degli uomini da Lui creati e amati. A partire dai nostri cari, dalle sorelle e fratelli di Chiesa, guardati con occhi nuovi, capaci di vedere persino nelle debolezze delle opportunità. Questi occhi li domandiamo al Signore Gesù, il Crocifisso Risorto:
Ti ringrazio, Signore, tesoro del mio vivere:
Con te la vita è sorpresa, incanto, scoperta,
caduta e risurrezione, altre vite che entrano nella mia vita
e il cuore del mondo che batte insieme al mio.
Signore, oggi non oso chiederti
ancora regali o tesori:
Me ne hai già dati tanti.
Donami occhi profondi, da scriba attento,
che sappiano vedere impigliati nella mia rete
i tesori raccolti in tutta la vita
i talenti ricevuti,
le persone incontrate.
Donami solo un cuore che ascolta,
un cuore dolce che sia in me,
antico come le montagne,
nuovo come questo mattino,
riconoscente come un bambino.
Amen.
PESCE D’APRILE?
Felice come una pasqua! L’avete sentita, qualche volta, questa espressione, usata per indicare una persona molto contenta? Noi, però, non riusciamo ad essere del tutto felici, a Pasqua. Un po’ perché il Risorto è quel povero Cristo, messo in croce dall’umanità che Lui ha tanto amato. Un po’ perché questo nostro mondo – ma forse è sempre stato così… – fa di tutto per rendere incredibile l’annuncio di una vita più forte della morte. I sepolcri si moltiplicano e rimangono ben sigillati. E poi, quest’anno – ironia della sorte – Pasqua cade proprio il primo di aprile, da sempre giornata di scherzi!
Cosa dobbiamo pensare: che il cuore della fede cristiana è come un pesce d’aprile? Che l’umanità è incapace di amare la vita e continuerà a seminare morte? E che, quindi, la resurrezione non è che un’illusione, una speranza destinata ad arrendersi di fronte all’evidenza?
Non viviamo tempi che ci spingono a sperare. Ci sembra che niente tenga. E che l’umanità sia ancora quella della pietra e della fionda. Violenta, spietata. Come dice il poeta:
T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora
…
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata. (S. Quasimodo)
L’evangelista Luca, però, proprio mentre descrive questa umanità che si accanisce contro Gesù, ci dice che non bisogna fare di ogni erba un fascio. Che non è proprio vero che tutti sono spietati. E che anche quelli che lo sono, possono cambiare. Luca, infatti, prova a gettare uno sguardo comprensivo su questa umanità che ha crocifisso Gesù. Nel suo racconto della passione è come se volesse scusare i presenti. Non è tanto Giuda a tradire Gesù ma Satana, che è entrato in lui (22,3). La folla e le donne che accompagnano Gesù verso il Golgota non lo insultano ma piangono per lui (23,26s), si battono il petto (23,48). Uno dei due malfattori crocifissi insieme a Gesù si pente del male commesso e prega; a costui Gesù dice: oggi tu sarai con me in paradiso (23,39ss). Lo stesso avviene per Pietro (22,31s), Pilato ed Erode (23,13-15), il centurione romano (23,47), Giuseppe d’Arimatea (23,50ss). Per questa umanità Gesù prega: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno (23.34).
Nella scena della morte, Luca vede già all’opera la resurrezione!
E’ vero che la nostra storia continua ad odorare di sangue ingiustamente versato. Ma dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia; dove sperimentiamo il non-senso, affiora un senso.
Forse, non riusciamo ad essere felici come una pasqua; ma possiamo essere ottimisti perché la morte non è l’unica parola che risuona nella nostra storia.
L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che ogni cosa vada per il verso sbagliato… L’ottimismo è volontà di futuro”. (D. Bonhoeffer)
Luca ci sollecita a maturare questo sguardo. E ripete anche a noi la domanda fatta alle donne che si erano recate al sepolcro:
Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato (24,5s).
La Pasqua non è un pesce d’aprile. Piuttosto, è quel pesce che il Risorto mangia con noi, ancora increduli (24,36ss), per dirci che c’è una vita più forte della morte e che noi siamo chiamati ad alimentare questa speranza. Il cristiano è l’avversario dell’assurdo, è il profeta del senso.
LA SAPIENZA DEL CAMMINO
La sai l’ultima? Ci sono novità? Cosa mi racconti? Per noi conta essere aggiornati, conoscere le news in tempo reale. Le novità ci eccitano e la loro mancanza ci annoia. Non possiamo perdere tempo con cose vecchie, già viste e sentite. Rimarremmo indietro, non più al passo con questo mondo dove tutto avviene in modo veloce, accelerato. Le vite che viviamo sono fatte di bei momenti che non possono durare a lungo. Attimi da godere all’istante, senza farsi troppe domande. Interrogarsi su quello che stiamo facendo è mancanza di spontaneità: meglio farne a meno e vivere alla giornata. Le vite non hanno progetti da perseguire; sono contenitori per quello che capita. Guai a noi se ci mettessimo a scegliere in base ad alcuni principi, cercando una coerenza astratta: ci perderemmo la vita e… ogni lasciata è persa!
Vi ritrovate in queste considerazioni? Probabilmente, non del tutto. Tuttavia, esprimono la temperie del nostro presente, quello che la gente pensa. Il problema sta nel non detto: è vero che molti vivono così, ma non è che abbiano trovato quella felicità che dicono di avere a portata di mano. Intendetemi bene: gliela auguriamo di cuore! Nessuna invidia per chi sperimenta la gioia, percorrendo altre strade, rispetto a quelle suggerite dall’evangelo. I cristiani non dovrebbero gioire delle sconfitte altrui, confondendo la fede col risentimento nei confronti di quanti non credono. Sarebbe una fede ben triste! La questione è se si giunga o meno a quella felicità che ognuno cerca. E qui siamo tutti sulla stessa barca, credenti e non credenti. Siamo sulla barca della comune umanità, in cui si viene al mondo senza le istruzioni per l’uso. Nessuno sa in partenza cosa significhi vivere, e vivere bene. Le culture, le religioni e persino le mode del momento provano a rispondere alla domanda di sempre: come possiamo essere felici? Nel coro dalle mille voci, l’evangelo avanza la proposta di abbracciare la sapienza del cammino. Ovvero, di non accontentarsi di vivere di attimi, di sensazioni a fior di pelle. Perché la vita, per non essere subita, domanda attenzione, più che distrazione; passioni forti, più che attimi fuggenti. E’ una pianta fragile, da coltivare con cura, affinché possa crescere e offrire frutti gustosi. Per questo le chiese propongono cammini, presentano ipotesi di lavoro. Non sempre funzionano: a volte, la cura religiosa mortifica la pianta, invece che renderla rigogliosa. I cammini non sono infallibili, non tutelano dagli effetti collaterali indesiderati. Hanno però un pregio: suggeriscono la sapienza del passo dopo passo a persone abbagliate dal miraggio del tutto subito. Educano alla concretezza della vita, che è fatta di piccole scelte, da mettere in conto in tempi e luoghi precisi.
I quaranta giorni che precedono la Pasqua sono questo: la proposta di un itinerario, che richiede tempi certi di silenzio e preghiera, per camminare con Gesù verso Gerusalemme. Tempo propizio, a patto di operare delle scelte precise: quando trovo mezz’ora per leggere la Bibbia e pregare? Dove posso farlo, senza essere disturbato da altri, dal telefono, da rumori invasivi? La sapienza del cammino non è fatta di buoni propositi ma di passi concreti, stabiliti con cura e verificati. Lo facciamo per il lavoro e per gli impegni che ci assumiamo. Facciamolo anche per la vita di fede, non lasciandola all’improvvisazione e all’altalena emotiva delle voglie.
Buon cammino!
COME UN POLITTICO
Come un polittico che si apre
E dentro c’è la storia
Ma si apre ogni tanto
Solo nelle occasioni,
Fuori invece è monocromo
Grigio per tutti i giorni…
In alcune chiese antiche, si può ammirare un’opera pittorica costituita da vari elementi (scomparti) uniti fra loro, talvolta anche con cerniere, in modo che possano essere chiusi come sportelli. Si tratta di un “polittico”, come quello evocato nella poesia di Franco Buffoni. La storia – quella personale, come anche la grande storia del mondo – assomiglia ad un polittico richiuso, un grigio contenitore che non è in grado di attirare la nostra attenzione. Per poterla osservare, occorre aprirlo e osservarlo con cura, fino a scorgervi la nostra figura, inserita in un paesaggio più ampio. L’immagine del polittico ci dice che non è automatico sentirsi parte di una storia; che per rendersene conto occorre aprire ciò che chiuso, guardare ciò che è nascosto, vedersi in qualcosa che non sia il solito specchio, il quale inquadra la scena in uno spazio troppo ristretto.
Il vangelo secondo Luca, che stiamo leggendo, funziona come un polittico. L’evangelista traccia una storia della salvezza che è composta da molte scene, l’una accanto all’altra, l’una in dialogo con l’altra. Non solo: l’autore, oltre ad essere un abile pittore, è anche un sapiente maestro che ci insegna ad aprire questa storia chiusa, a non fermarci alla deludente apparenza di una scatola, priva di colore e significato. Operazione importantissima, visto che noi viviamo in un momento in cui fatichiamo ad alzare lo sguardo dal nostro ombelico, tutti concentrati sul nostro piccolo “io” e dimentichi di quanto ci circonda. Per Luca, la vita e la fede trovano senso nella storia. In una storia dominata, certo dai potenti (“ai tempi di Tiberio Cesare… sotto i sommi sacerdoti Anna e Caiafa…”), ma letta tenendo conto delle strane scelte di Dio, che opera “dal basso”, che fa risuonare la sua Parola laddove non ce l’aspetteremmo (“la Parola fu diretta a Giovanni, nel deserto…”). Storia di generazioni partorite: non disciplina da studiare a scuola, ma vita. Vita che pulsa e che Luca ci fa guardare dalla prospettiva di Dio, che è anche quella dei piccoli segni che non fanno rumore, non fanno notizia e cambiano il mondo
A noi, così individualisti, rinchiusi nel nostro mondo, che al massimo esprimiamo apprezzamento o disgusto per quanto succede nella società, come spettatori o come tifosi del partito x o del partito y, Luca suggerisce di guardare il mondo con gli occhi di Dio, facendo nostro il suo sguardo ampio, che non si ferma alle apparenze, che non giudica ma desidera capire. Uno sguardo che abbraccia tutto il polittico e che ne scorge i vividi colori: quelli che annunciano che in ogni contesto, per quanto difficile, e per ogni persona, per quanto abbia sbagliato, è possibile far risuonare l’evangelo della salvezza.
Gli antichi dicevano che “la storia è maestra di vita”. Noi, però, di solito, siamo cattivi allievi, che faticano a studiarla e ad imparare da essa, condannati in tal modo a ripeterne gli errori. Chissà se questo nuovo insegnante, Luca, riuscirà a convincerci dell’importanza della materia e ci aiuterà ad apprendere un metodo per maturare l’arte di vivere in questo nostro tempo, nel quale Dio ci ha posti perché lo attraversassimo con intelligenza e con passione!
2018
UN ANNO PER RISCRIVERE LA VITA
Il nuovo anno, ci vedrà impegnati a leggere il vangelo secondo Luca. Che nel suo prologo dice: Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti che hanno avuto compimento in mezzo a noi… è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine… illustre Teofilo. Che strano inizio! Se altri avevano già scritto il racconto dell’evangelo di Gesù, perché scriverne una nuova versione? Non bastavano le testimonianze di Marco, Matteo e Giovanni? Luca non presenta il suo scritto come una correzione dei precedenti o come una necessaria integrazione per far fronte alle lacune degli altri racconti. Non c’è nessuna polemica nelle sue parola. Vi troviamo solo un sorprendente: è parso bene anche a me… scrivertene. Altri hanno scritto; ma quella Parola verrebbe fraintesa, se pensassimo di conoscerla già, di possederne la verità. Quella Parola domanda di essere nuovamente ri-scritta, per essere capita più a fondo, a partire dalla propria storia ma anche in ascolto degli altri testimoni, informandosi accuratamente.
E se ci facessimo convincere da Luca a guardare nello stesso modo il nuovo anno? Perché anche nei confronti del tempo che passa, in prima battuta, abbiamo la sensazione di conoscere già tutto. Che tutto quello che c’era da sapere sulla vita, l’abbiamo appreso. Che non c’è niente di nuovo da attendere. Per cui, facciamoci pure gli auguri e stappiamo lo spumante, sapendo bene, però, che tutto resterà come prima, che il nuovo anno sarà come il precedente. E se diciamo che speriamo in qualche cambiamento, in realtà, non crediamo fino in fondo alle nostre parole. Del resto, come potremmo, noi che viviamo in questo tempo di disillusioni, propensi più al lamento che alla speranza?
Eppure, la mossa di Luca dovremmo, se non altro, prenderla in considerazione. La vita, come la Parola divina, non è già tutta scritta. Ogni volta – ogni anno, ogni giorno! – puoi riscriverla, leggendola diversamente da come avevi fatto fin’ora, osando accendere uno sguardo che vada più in profondità, una mente che non tema di mettersi in ricerca, un cuore che scommetta sull’ascolto.
Anno nuovo, vita nuova? Un po’ ingenua, come affermazione. Più vera quella che osa dire: anno nuovo, vita da riscrivere. Non daccapo: sarebbe impossibile. Ma a partire da quanto abbiamo già scritto, vivendo gli anni trascorsi, e osando stendere una nuova versione dei fatti.
Buon anno a tutte le persone che osano ripensare e ri-scrivere la propria vita!
NATALE: UN DIO MESSO AL MONDO
Nel nostro immaginario occidentale, Natale è sinonimo di intimità. Una casa calda, piena di doni, di musica e di affetti, mentre fuori nevica. E se agli occhi dei credenti questo paesaggio patinato appare troppo laico, un’immagine più da pubblicità che da chiesa, ecco allora che viene inserito Gesù. Lo scenario rimane lo stesso; con l’aggiunta di un personaggio che conferma e accresce il tepore della situazione. Dio viene ingaggiato nel nostro progetto di gustare un po’ di consolazione, entro le calde mura di casa. Il freddo mondo rimane fuori: tanto, sappiamo che non c’è niente da fare in una storia triste e pericolosa. Lasciamo il mondo ai giochi della politica, felici di avere una fede che ci garantisce la consolazione dell’anima. Il nostro Natale cristiano mette in scena Dio, l’anima e basta. Una festa dall’orizzonte piccolo, nel quale si trova a suo agio quel mercato che spegne le domande e riempie le vite di oggetti (morbidi, per l’occasione!).
L’evangelista Luca prova a rompere la morsa di questo ristretto orizzonte, dove tutto gira intorno a noi, ai nostri desideri individuali; e ci narra di un Natale che avviene in una storia mortale. Dove le persone devono fare i conti con i decreti degli imperatori, ed i più poveri sono costretti ad emigrare, sognando una casa che non troveranno. Una storia che ad alcuni assicura felicità e ad altri dice che non c’è posto per loro. Siamo onesti: questo racconto di Luca non ci piace tanto. Ci lascia delusi e perplessi: noi aspettavamo consolazione e l’evangelista semina inquietudine. Ci affascina di più la narrazione dei media, piena di gente sorridente, di cuoricini e angioletti. Almeno a Natale!
E dunque, che fare? Smettiamo di leggere Luca? O al contrario, smettiamo di desiderare un po’ di tranquillità, in nome dell’impegnativo programma evangelico? Vi confesso che non so risolvere facilmente il dilemma. Non penso sia giusto demonizzare quel desiderio di consolazione, che ci abita. E allo stesso tempo, non possiamo non ascoltare la voce narrante di Luca, che ci parla di come Gesù sia venuto al mondo, come vita minuscola in mezzo alla povera gente. Sento l’urgenza di vivere una fede che non perda il mondo. Ma che lo faccia senza creare sensi di colpa, senza mettere a tacere i legittimi desideri del nostro pur piccolo “io”. Quadratura del cerchio, ad opera di cristiani che, in fondo, stanno bene e nemmeno si rendono conto delle fatiche che altri vivono? Forse. Ma la sapienza biblica ci insegna a non mettere in opposizione troppo in fretta esigenze che, a prima vista, risultano opposte, inconciliabili. A non contrapporre l’interno e l’esterno, la cura di sé e la cura del mondo. A fare di un’intimità felice la sorgente a cui attingere per spendersi fuori casa, con chi quella felicità non l’ha mai assaporata. Se ti prepari a vivere un Natale in cui star bene con i tuoi, decidi anche di compiere un gesto di attenzione per gli altri. Cioè, ama il tuo prossimo come ami te stesso. Sii un pastore che cura il suo gregge, ma sa anche lasciarlo per andare a vedere cosa succede a Betlemme, a Lugano, tra chi non abita le nostre belle case ma giace nelle stalle. Almeno, tenta! Nella misura delle tue possibilità, secondo la tua personale creatività, discernendo la chiamata che Dio ti rivolge.
E mentre dai gloria al Dio dei cieli, che viene a condividere la nostra sorte, non smettere di operare perché l’umanità da Lui amata possa gustare sulla terra la pace.
Buon Natale!
UNA CHIESA SEMPRE DA RIFORMARE
La nostra storia con Dio è una ricerca che non finisce mai, che domanda apertura mentale e non presunzione, pazienza nell’ascoltare e non la fretta del giungere a conclusione. Lo stesso vale per il modo del nostro essere chiesa. La comunità voluta da Gesù non è un’istituzione chiusa, inossidabile al tempo, sempre uguale in tutte le stagioni. E neppure una realtà garantita: secondo le Scritture, non è detto che, poiché ci riteniamo credenti e compiamo i gesti della fede, automaticamente siamo la chiesa di Gesù. Sia la comunione con Dio che quella tra sorelle e fratelli non procedono per forza di inerzia, sulla base di abitudini invalse.
Lutero, 500 anni fa, aveva espresso con forza questa convinzione: una chiesa deve sempre ripensarsi, convertirsi, interrogarsi su come possa dire l’evangelo, in un preciso momento storico, compiendo alcune scelte e vagliando le parole dell’annuncio.
Sulla sua scia, anche noi ci stiamo interrogando, partendo dalla sfida che fa di un gruppo umano la chiesa di Gesù, ovvero quella di portare il lieto annuncio di Dio alle persone del nostro tempo. Per iniziare questo cammino di discernimento comunitario, ci siamo rivolti due domande:
– Qual è l’aspetto dell’evangelo che oggi, nel nostro mondo, rischia di essere dimenticato?
– Dove la nostra chiesa battista di Lugano rischia maggiormente di allontanarsi dall’evangelo di Gesù?
Partiamo dal rischio – sempre in agguato – del mettere a tacere, se non tutto l’evangelo, almeno qualche suo aspetto. Una possibilità concreta non solo per la nostra società ma anche per la nostra chiesa. Lutero, nelle sue 95 tesi, denunciava per la chiesa del suo tempo la perdita della grazia, sostituita dalla legge di mercato, dove tutto si compra, persino la salvezza. Anche noi desideriamo provare a leggere il nostro tempo e comprendere come continuare ad essere segno del Dio della grazia, come ripensare il nostro essere chiesa a Lugano, oggi.
E’ questo il nostro modo di fare memoria dei 500 anni della Riforma. E’ questa la nostra responsabilità nel tempo presente. Innanzitutto, desideriamo capire, come suggerisce Gesù: «Quando vedete una nuvola venire su da ponente, voi dite subito: “Viene la pioggia”; e così avviene. Quando sentite soffiare lo scirocco, dite: “Farà caldo”; e così è. Ipocriti, l’aspetto della terra e del cielo sapete riconoscerlo; come mai non sapete riconoscere questo tempo?» (Luca 12,54-56). Compito impegnativo, decifrare i tratti principali di questo mondo complesso! Ma la difficoltà non ci deve esimere dal tentare. Lo facciamo con i figli o con le persone amiche, anche se non siamo psicologhe o sociologi. Sarà possibile rispondere alla domanda di Gesù, riconoscendo questo nostro tempo, se faremo attenzione alla vita che ci circonda, se metteremo a freno il risentimento che ci abita e ci lasceremo animare da quell’amore che Dio, per primo, ha per l’umanità: Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio (Giovanni 3,16).
Una chiesa deve essere in grado di amare con intelligenza la storia in cui è chiamata ad essere lievito, sale, luce. A questo esorta l’apostolo Paolo: che il vostro amore abbondi sempre più in conoscenza e in ogni discernimento (Filippesi 1,9). Siamo in grado di credere che l’evangelo è indirizzato proprio al nostro presente? Perché il Signore continua a ripetere a noi, increduli: Eccolo ora il tempo favorevole; eccolo ora il giorno della salvezza! (2Corinzi 6,2).
Buona festa della Riforma!
CERCATE SENZA STANCARVI
Dopo aver letto il vangelo secondo Giovanni, questo mese iniziamo la lettura continua del vangelo secondo Luca. Entreremo nel mondo narrato dal terzo evangelista e ci interrogheremo, di nuovo, sul senso della figura di Gesù di Nazaret e sulla Parola delle Scritture che in Lui ha trovato compimento.
Si tratta di una vera e propria nuova ricerca. Non nel senso che quanto abbiamo appreso alla scuola di Giovanni risulti insufficiente, necessiti di integrazioni e, dunque, di un apprendimento aggiuntivo. Ci rimettiamo in cammino perché quel Maestro che, a partire da gesti simbolici, capaci di scavare ed interrogare l’esistenza umana – quei gesti che Giovanni chiama “segni” – ci ha in-segnato un percorso di “vita in abbondanza” (Giovanni 10,10), questo Gesù non si lascia afferrare una volta per tutte, ha ancora molto da dirci. In fondo, è questo il motivo per cui la medesima storia di Gesù ci viene narrata in quattro racconti diversi, i quattro vangeli. Il Dio di cui parlano quei testi è sempre più grande della nostra comprensione, sfugge alle nostre definizioni, non ci sta a lasciarsi rinchiudere nelle semplificazioni in cui lo costringiamo. Presumere di conoscerlo, di essere in possesso della verità, significa fraintendere il senso del cammino al seguito di Gesù. Noi non siamo “padroni” della verità, ma “discepoli”. Persone sempre in cammino che non smettono di cercare.
E’ proprio l’evangelista Luca ad indicarci questa via: Cercate senza stancarvi (11,9).
Con altre parole, è quanto suggerisce il pensatore Gotthold Ephraim Lessing:
Se Dio tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: «Scegli!», sia pure a rischio di errare eternamente smarrito, io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: «Padre, ho scelto; la pura verità è per te soltanto».
Solo così saremo liberi da quella presunzione che ci allontana da Dio e ci apriremo con rinnovato stupore al mistero dell’Altro e degli altri. Una fede così ci libera dal nostro piccolo “io”, sempre in cerca di conferme e ci apre alla novità. E’ esperienza liberante che possono fare quanti vivono come umili cercatori, persone che provano a smettere di giocare in difesa, giudicando con durezza quanti pensano e agiscono diversamente. E’ stile di vita di chi, innanzitutto, si mette in ascolto. E nella fatica di un ascolto reale, paziente, si apre a Dio e agli altri, acquisendo una sapienza di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno. Come suggerisce uno scrittore:
«Sforzarsi senza tregua di pensare a chi ti sta davanti, prestargli un’attenzione reale, costante, non dimenticarsi un secondo che colui o colei con cui tu parli viene da un altro luogo, che i suoi gusti, le sue idee e i suoi gesti sono stati plasmati da una lunga storia, popolata di molte cose e di altre persone che tu non conoscerai mai. Ricordarsi in continuazione che colui o colei che guardi non è una parte del tuo mondo. Questo esercizio mentale – che mobilita il pensiero e anche l’immaginazione – è un po’ duro, ma ti conduce al più grande godimento che ci sia: amare colui o colei che ti sta davanti, amarlo per quello che è, un enigma – e non per quello che credi, per quello che temi, per quello che speri, per quello che ti aspetti, per quello che cerchi, per quello che vuoi» (Christian Bobin, Autoritratto al radiatore).
Che la lettura attenta del vangelo secondo Luca possa significare per la nostra chiesa questo stile di ricerca e di attenzione, sia in verticale che in orizzontale!
LA PAROLA INATTESA
Non viviamo tempi di grandi entusiasmi. Piuttosto, sono le paure a farsi sentire. Per questo, facciamo fatica a pensare un nuovo inizio. La sensazione è quella di essere bloccati o di girare a vuoto. Il tempo dopo la pausa estiva non possiede più il fascino del ricominciare, del riprovare. E’ come se una voce interiore ci ripetesse continuamente: “tanto, è inutile”; “un mese vale l’altro”; e tu rimani con i tuoi problemi irrisolti.
La ripresa di un nuovo anno sociale non va in automatico. Se dipendesse dal nostro sentire, lasceremmo perdere ogni velleità di rinnovamento e ci accontenteremmo di tirare a campare. Ma ecco, che una parola straniera, non nostra, ci raggiunge e ci sussurra:
Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione,
hai aperto gli orecchi, ma senza sentire (Isaia 42,20).
Ti è sfuggito qualcosa della vita: non è vero che non c’è più niente da scoprire.
Noi tutti abbiamo fatto molti passi per soddisfare bisogni materiali, poco cammino per approfondire il senso dell’esistenza.
Molto movimento per trovare la posizione sociale migliore, poco dinamismo nel rivedere le nostre teorie scarsamente provate.
Molte nozioni strumentali apprese, poca conoscenza di se stessi.
Molti sfoghi, poca accoglienza del dolore altrui.
Molti lamenti, poco coinvolgimento nei disagi reali.
Molta comunicazione, poca empatia.
Molta conoscenza, poca sapienza.
Molti calcoli, poca utopia.
Molti scambi, pochi doni.
Molte formule, poca preghiera.
Molte strutture, poca profezia.
Che cosa dobbiamo fare, allora? Con quale piede riprendere quel cammino che ancora ci aspetta, nonostante la nostra sensazione che non ci sia spazio per qualcosa di nuovo?
Come chiesa, abbiamo un’unica luce, solo un’intuizione, che non si presenta come la risposta ai nostri problemi, eppure ha la forza di riaprire i sentieri interrotti, di indurci a rimetterci in cammino. E’ quella Parola che Dio indirizza a ciascuna e ciascuno di noi. Parola personale, unica, preziosa. Parola differente dalle nostre parole usate, che ci ripetiamo a pappagallo. Parola che accende un nuovo sguardo sulle nostre vite.
Lascia che la parola
inattesa
prenda il posto
che lei stessa si crea
semplicemente occupandolo
col suo apparire
come da sempre
le fosse preparato.
Sarà annuncio
principio
di nuova creazione.
Diamo fiducia a questa Parola preziosa. Buon cammino!
LA PARTE BUONA
Quante parole sentiamo, leggiamo, diciamo ogni giorno.
Il filosofo Emmanuel Mounier afferma che nella nostra epoca le “parole parlanti” si sono fatte sempre più rare e le “parole parlate” sempre più frequenti. E lo scrittore Italo Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, scrive: “Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola… La letteratura può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”.
Almeno nel periodo estivo, dovremmo provare a fare la cura di un buon libro. E soprattutto, dovremmo dare nuovo credito al Libro per eccellenza, la Scrittura.
La parola biblica, oltre che rivelazione di Dio e del suo progetto di salvezza, è anche un anticorpo alla malattia delle parole inutili, dette e non pensate, senza consistenza.
E’ il mettersi in ascolto della Parola, “la parte buona” da scegliere continuamente. Come ricorda Gesù a Marta, arrabbiata perché la sorella Maria, invece di aiutarla, se ne sta ai piedi di Gesù ad ascoltarlo: «Marta, Marta, tu ti affanni e sei agitata per molte cose, ma una cosa sola è necessaria. Maria ha scelto la parte buona che non le sarà tolta» (Luca 10,41-42). Parola che non disprezza il lavoro di Marta, ma lo colloca in una scala di priorità. A fronte delle molte cose, che agitano Marta, ve ne è una sola giudicata necessaria, senza la quale la vita perde consistenza. Gesù non dice che occorre fare solo quanto fa Maria. Sappiamo bene che la vita è fatta di molti ingredienti, è complessa; semplificare significherebbe tradirne la ricchezza. Del resto, la Scrittura attesta la pluralità delle esperienze. E tuttavia, l’intera narrazione biblica pone la questione di che cosa sia essenziale, irrinunciabile, decisivo per avere “vita eterna” (cfr. Luca 18,22). Ora Gesù indica nell’ascolto della discepola la parte buona, che non può essere tolta per far spazio ad altre azioni.
L’ascolto del discepolo, che nasce dall’amore e sfocia nell’agire obbediente (per la Bibbia, non c’è differenza tra “udire” ed “ubbidire”) è la sola cosa necessaria, quella da cui dipende tutto il resto.
I “sola” della Riforma, come la sola cosa necessaria, indicata dalle parole di Gesù, mirano a recuperare l’essenziale dell’esperienza cristiana. Sono parole che riequilibrano una situazione squilibrata, che distolgono dall’urgenza del momento per porre attenzione a ciò che costituisce la sorgente, la radice di un’esperienza.
Puntiamo all’essenziale. Scegliamo di metterci in ascolto della Parola consegnataci nelle Scritture. Facciamo nostra la sfida del prestare attenzione ad una Parola altra. Come suggerisce un verso della poetessa Nelly Sachs:
“Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria,
Orecchio degli uomini
ostruito d’ortica
sapresti ascoltare?”.
Buona estate! Buon ascolto!
SOLA SCRITTURA
Il Dio di grazia, che Gesù ci ha rivelato, non corrisponde all’immagine che l’umanità, lungo i secoli, si è fatta del divino. Noi immaginiamo Dio sulla base dei nostri desideri e delle nostre paure. Lo pensiamo come un “io” proiettato su una scala infinita, illimitata. E così, quando Lui si è manifestato, ci ha preso lo stupore e lo sconcerto per questo strano Dio, potente sì ma nell’amore; giusto sì, ma nel perdono. Un Dio che cammina con un popolo minuscolo, non con un grande impero. E che si ostina ad accompagnarlo, nonostante le resistenze e i tradimenti. Un Dio che si fa uno di noi, che desidera il nostro bene più del suo, che non ci domanda di sacrificarci per Lui ma si sacrifica Lui per noi. Mai avremmo immaginato un Dio così. Per questo ha deciso di prendere Lui stesso la parola, di raccontarsi, di rivelarsi a noi. La Bibbia è la testimonianza di questo Dio, il Dio di Israele, il Padre di Gesù. Una testimonianza plurale, una biblioteca di narrazioni che ci parla in molti modi di Dio. Le pagine della Scrittura attestano la storia di questo Dio con la nostra umanità. Leggendo quelle pagine, noi possiamo percepire il volto di Dio e l’abisso del cuore umano. La Bibbia, infatti, è “specchio” e “finestra”: ci consente di vedere più a fondo il nostro vissuto e ci apre ad un nuovo e differente paesaggio, quello del regno di Dio.
Ma affinché la Scrittura possa parlarci in questo modo, noi dobbiamo invocare il dono dello Spirito, che fa di questa lettera morta una Parola viva, che rende possibile il miracolo di scorgere la presenza vera di un Dio che continua a parlare alle nostre vite. E’ lo Spirito che ci fa intuire che le parole non sono carta ma carne. Che quelle lettere, peraltro così simili a quelle che leggiamo in un’opera letteraria, hanno la forza di dire il nostro nome, di trasfigurare il nostro mondo. Come ha promesso Gesù, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito (Giovanni 16,13).
Mettiamoci in ascolto della Scrittura. E domandiamo allo Spirito di guidarci in essa, per comprendere e vivere questa Parola di vita.
CRISTO VIVE IN ME
In Gesù si è manifestata la grazia di Dio, che desidera la salvezza di tutti e tutte (Tito 2,11). Guardando a Lui, scorgiamo il volto di un Dio che ci ama gratuitamente, che crede in noi, nonostante i nostri limiti. E’ il Dio crocifisso e risorto, che mentre viene ucciso, perdona i suoi assassini; e che, mostratosi vivo, offre la pace a quelli che l’avevano tradito, rinnegato, abbandonato. Con un Dio così non temiamo il giudizio: invece che condannarci, Gesù ci libera dal male e ci apre alla “vita in abbondanza” (Giovanni 10,10).
Ma il Cristo, nel quale facciamo esperienza di salvezza, non è solo un personaggio che ci sta di fronte. Il Signore Gesù vuole stabilire una profonda comunione con ciascuno di noi, penetrando le nostre esistenze e trasformandoci nell’intimo. L’apostolo Paolo lo dice con parole forti: Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me (Galati 2,20).
Gesù può trasfigurare la nostra umanità così ripiegata su se stessa, fragile e impaurita. Egli ci spinge a far morire la nostra “vecchia” personalità e a risorgere a vita nuova. Ma cosa significa, in concreto, questo? Come vivere, oggi, in questo mondo in cui risuonano gli echi della guerra, questo passaggio (pasqua!) che Gesù desidera operare in noi? Vi propongo questa breve riflessione di un cristiano ortodosso sull’aprirsi al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose:
“La guerra più dura è la guerra contro se stessi.
Bisogna arrivare a disarmarsi.
Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile.
Ma sono stato disarmato.
Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore.
Sono disarmato della volontà di aver ragione,
di giustificarmi squalificando gli altri.
Non sono più sulle difensive,
gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze.
Accolgo e condivido.
Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti.
Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori,
ma buoni, accetto senza rammaricarmene.
Ho rinunciato al comparativo.
Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore.
Ecco perché non ho più paura.
Quando non si ha più nulla, non si ha più paura.
Se ci si disarma, se ci si spossessa,
ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose,
allora Egli cancella il cattivo passato
e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile”.
(Patriarca Atenagora I)
Che il Crocifisso Risorto ci liberi dal nostro piccolo io e dalle tante paure che lo abitano; e ci apra alla novità dell’evangelo. Che sia Lui a dare forma nella nostra quotidianità a quell’umanità nuova che già scorgiamo nella vita di Gesù.
E come chiesa, invochiamo il dono dello Spirito, affinché possiamo fare esperienze di resurrezione, in mezzo a questa storia che puzza di morte.
SOLO CRISTO
Quello strano Dio che non assomiglia per niente a tutte le diverse rappresentazioni che l’umanità ha immaginato lungo i secoli, il Dio di grazia della Bibbia, lo possiamo scorgere nel Figlio suo, Gesù, il Cristo. E’ Lui la Parola fatta carne. Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere (Giovanni 1,18). In Gesù vediamo all’opera l’amore sconfinato di Dio. Soprattutto nell’esito della sua breve vita terrena, al momento della croce, quando avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Giovanni 13,1). In quell’ora, l’immaginario religioso viene messo sottosopra: non siamo noi a doverci sacrificare per Lui; è Lui che dona la sua vita per noi. Il racconto della passione di Giovanni inizia proprio con questa scena sconcertante. Gesù, al momento dell’arresto, non domanda ai suoi di difenderlo, di farsi avanti loro, pur di salvare il capo. Contrariamente ad ogni aspettativa, Lui non è preoccupato di sé ma si prende cura dei suoi discepoli: «Chi cercate?» Essi dissero: «Gesù il Nazareno». Gesù rispose: «Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi». E ciò affinché si adempisse la parola che egli aveva detta: «Di quelli che tu mi hai dati, non ne ho perduto nessuno» (18,7-9).
Solo Cristo ci rivela quel volto inedito di Dio che mai ci saremmo aspettati. La sua Pasqua è anche un passaggio dalla nostra logica ristretta, quella del dare per avere, del superiore e dell’inferiore, alla logica divina, che sogna un mondo in cui possano finalmente trovare espressione la gratuità del dono e la cura disinteressata.
Increduli e perplessi, entriamo ancora una volta nella scena della croce, in cui Dio si rivela per quello che è. Ci possono aiutare i versi poetici di Erich Fried:
E’ assurdo
dice la ragione
E’ quel che è dice l’amore
E’ infelicità
dice il calcolo
Non è altro che dolore
dice la paura
E’ vano
dice il giudizio
E’ quel che è dice l’amore
E’ ridicolo
dice l’orgoglio
E’ avventato
dice la prudenza
E’ impossibile
dice l’esperienza
E’ quel che è dice l’amore.
Scorgere “quel che è”, l’amore senza secondi fini, nel volto del crocifisso risorto. E poi, a nostra volta, provare a seguire quella stessa logica, scommettendo nella possibilità di una vita rinnovata, possibile solo in Cristo. Come suggeriscono le domande di Louis Evely:
Siete mai stati risuscitati?
Nessuno vi ha mai parlato,
perdonato, amato,
tanto da farvi rinascere?
Non avete mai assistito a delle resurrezioni?
Avete sperimentato la potenza della vita
che scaturisce da un sorriso,
da un perdono,
dall’accogliere qualcuno,
da una vera comunità?
Come si può credere
a una resurrezione futura,
se non avete fatto l’esperienza
di una risurrezione immediata?
Come si può credere
che l’amore sia più forte
della morte,
se non vi ha reso viventi,
se non vi ha risuscitato
dai morti?
Buona Pasqua!
VIVERE CON GRAZIA
Stiamo riflettendo su quelle parole essenziali, capaci di cogliere il cuore dell’evangelo, che la Riforma ha riscoperto. Quattro parole d’ordine, che costituiscono i punti cardinali della bussola del cristiano. Abbiamo iniziato a prendere in considerazione il “sola grazia”.
I 40 giorni che precedono la Pasqua sono un tempo opportuno per cogliere in Gesù il volto della grazia. In Lui si rivela il Dio che ci ama gratuitamente; e insieme, si manifesta l’essere umano, plasmato da questa logica di grazia, capace di gratitudine per quanto la vita gli dona. E’ su questa umanità “graziata” e “graziosa”, che vi invito a riflettere. Domandiamoci: cosa significa credere alla grazia? Quale stile di vita ne consegue?
Affido il compito della risposta a due poetesse. La prima, la polacca Wisława Szymborska, confessa di non aver vissuto nella logica della grazia:
“Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa”.
Una confessione che è invito a puntare in alto, a cogliere il meraviglioso del quotidiano:
“24 ore buone, 1440 minuti di occasioni, 86.400 secondi in visione”. Un quotidiano che, per non essere banale, “esige qualcosa da noi: un po’ di attenzione e una partecipazione stupita a questo gioco con regole ignote”.
La seconda, l’italiana Mariangela Guarnieri, risponde che la grazia esige cura, tenerezza:
“Sii dolce con me. Sii gentile.
È breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente,
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura…”.
Lasciamoci toccare dalla grazia divina, dall’amore sconfinato del Crocifisso risorto per imparare anche noi a toccare con grazia ogni persona che ci sta accanto.
Buona Quaresima!
SOLA GRAZIA
Da questo mese, proviamo a fare memoria dei 500 anni della Riforma, riflettendo su quelle parole d’ordine che hanno caratterizzato fin dall’inizio quel particolare modo di vivere la fede cristiana fatto proprio dalle chiese protestanti. Quattro slogan che rappresentano i punti cardinali della bussola cristiana. Sono noti come i 4 “sola”.
Il nord della bussola indica la “grazia”. I discepoli di Gesù camminano puntando tutto sulla grazia, attratti in quella direzione che costituisce la meta del cammino. Di cosa si tratta? Di solito, si risponde così: non sei tu a scalare il cielo ma è Dio che ti viene incontro; non sono le tue opere, per quanto buone, a costruire quel Regno che solo Dio può donare. Grazia dice il contrario del merito. Esprime l’iniziativa di Dio, che offre a tutte le persone la salvezza come dono. La grazia è gratis. Già questa iniziale comprensione risuona dirompente, in una società di mercato come la nostra, dove tutto ha un prezzo, dove si coltiva l’eccellenza e si creano scarti umani. Eppure, non è poi così strana questa logica evangelica: la vita inizia con un dono gratuito, quello che i nostri genitori ci hanno fatto, mettendoci al mondo, senza alcuna garanzia su quello che saremmo diventati. Anche Dio agisce così. Lui crede in noi, ci ama incondizionatamente, nonostante i nostri fallimenti. E noi siamo invitati a credere in Lui non per paura delle sue punizioni o per meritarci il premio. Come dice il Maestro ai discepoli: Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici. E’ Gesù che ha dato carne alla grazia, a quell’amore gratuito che si è rivelato sulla croce: Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici (Giovanni 15,13ss).
Questo è l’evangelo della grazia!
Ma cosa significa quell’avverbio latino – “sola”, ovvero “solamente”? Oltre a dirci che qui siamo in presenza dell’essenziale, indica che spetta a noi provare ad articolare un linguaggio ed operare delle scelte che siano coerenti con quel dono inaspettato e immeritato che Dio ci fa e che non è solo il punto di partenza, da sostituire poi, in corso d’opera, con altri criteri. Come dire: prova a pensare tutta la vita e tutta la fede unicamente a partire dalla grazia. Scommetti che tu possa vivere una vita “graziata” da un Dio che salva e non condanna. Che l’iniziativa di Dio possa continuare a suscitare in te stupore e “gratitudine”. Credi nella possibilità di far nascere relazioni “gratuite”, disinteressate, in cui gustare un’amicizia che non ha secondi fini. Scommetti che è possibile vivere una vita bella, “graziosa”, che semina il bene al posto dell’invidia, dell’odio o del lamento.
Iniziamo a riflettere sulla grazia, in questo nostro mondo dis-graziato, in questa società incredula sulla possibilità di amare così e, allo stesso tempo, desiderosa che avvenga l’insperato: che qualcuno guardi con sguardo benevolo e incoraggiante questa umanità rassegnata e susciti, di nuovo, in lei voglia di vivere.
2017
INIZIARE UN NUOVO ANNO, OGGI
Come si inizia un nuovo anno? Difficile rispondere. Non viviamo più in un mondo di certezze, dove si tratta solo di realizzare i programmi stabiliti. Anche l’esperienza di fede – come ci ha insegnato Gesù e come ci ha ricordato Lutero – mette in discussione le presuntuose verità di chi si sente giusto, domandando piuttosto conversione, riforma.
A quanti si reputavano giusti e ritenevano che le disgrazie capitassero solo ai peccatori, sono rivolte le parole di Gesù a commento di un fatto di cronaca riferitogli, quello dei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici. Gesù rispose loro: «Pensate che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, perché hanno sofferto quelle cose? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto sui quali cadde la torre in Siloe e li uccise, pensate che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, perirete tutti come loro» (Luca 13,1-5).
Parola impegnativa per un inizio d’anno. E non solo per l’inizio. Perché ci strappa dal lamento che getta la colpa del male sugli altri, e mai su di noi. E poi, perché ci invita a vivere senza facili certezze: cosa che produce disagio, smarrimento. Per questo siamo tentati di dare ascolto a chi, semplificando la realtà complessa, offre risposte chiare e distinte, grida la sua unica verità come la soluzione di tutti i problemi. E così, ci ritroviamo a dare retta a chi urla di più sulla scena sociale; mentre, a livello individuale, ci affidiamo all’oroscopo per sapere che cosa ci capiterà nel corso dell’anno.
Meglio ascoltare quella Parola che si dona “come soffio leggero”. Meglio afferrare le voci sussurrate dei poeti che, come i profeti, non offrono soluzioni ma aprono orizzonti di senso. E lo fanno con un linguaggio evocativo, che lascia a chi li ascolta il compito di affrontare con rinnovato coraggio il mestiere di vivere. Come questo verso di Nizar Qabbani: “Amami senza preoccupazioni / e perditi nelle linee della mia mano”. Non cercare di leggere la mano, non pretendere di indovinare il futuro e di padroneggiare gli avvenimenti. L’amore procede oltre la paura del non sapere, affronta la vita con la fiducia di chi non teme di perdersi nel mistero del mondo.
Tuttavia, l’amore per la vita, anche per quel tratto di esistenza che vivremo in questo nuovo anno, non può dimenticare le fatiche, i conflitti, le sconfitte. Dopo anni di carcere, un altro poeta, Faraj Bayrakdar, condensa la sua dolorosa esperienza in questi versi: “Siamo tornati a pettinare lettere / dagli occhi disfatti / di dolore per un silenzio maestoso / pugnalato in solitudine”. Gli occhi stupiti per il ritrovarsi a vivere un nuovo anno, sono già segnati dall’agonia di Aleppo, dalle infinite morti violente che tingono di sangue questo nostro disperato mondo. E anche noi, personalmente, sappiamo che dovremo affrontare fatiche, incomprensioni, dolori. Eppure, come suggerisce il poeta, possiamo sempre pettinare il volto scapigliato della storia; possiamo tornare a prenderci cura di questa vita che, nonostante tutto, desidera vivere.
I versi citati sono stati scritti da due poeti siriani contemporanei. E noi li leggiamo in un momento storico delicato, in cui il mondo guarda la Siria morire senza davvero vederla. Noi che siamo tentati di non pensarci, di rimuovere i problemi, sperando in questo modo di poterli neutralizzare.
Domandiamo al Dio che ci ha posti in questo mondo di non lasciarci travolgere dallo scorrere del tempo, senza consapevolezza, senza neppure accorgerci di quanto succede attorno a noi. Invochiamo il dono di vivere questo 2017, in cui facciamo memoria dei 500 anni della Riforma, come persone in ascolto dell’evangelo, che si lasciano guidare dalla Parola di Dio e sono animate dalla passione per il suo Regno di pace e giustizia. Domandiamo al nostro Signore che riempia i nostri cuori di amore e compassione, per vivere questo nuovo anno come discepole e discepoli di quel Gesù che è venuto in mezzo a noi per mostrarci l’amore e la grazia di Dio.
NATALE: DIO SI METTE NEI NOSTRI PANNI
Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato” (D. Bonhoeffer).
C’era una volta un uomo che non credeva nel Natale. Era una persona fedele e generosa con la sua famiglia e corretta nel rapporto con gli altri, però non credeva che Dio si fosse fatto uomo. Era troppo sincero per far vedere una fede che non aveva.
“Mi dispiace molto – disse una volta a sua moglie che era una credente molto fervorosa –però non riesco a capire che Dio si sia fatto uomo; non ha senso per me“.
Il giorno di Natale, sua moglie e i figli andarono in chiesa per il culto. Lui non volle accompagnarli.
“Se andassi con voi, mi sentirei un ipocrita. Preferisco restare a casa ed aspettarvi“.
La famiglia uscì, mentre iniziava a nevicare. L’uomo si avvicinò alla finestra e vide come il vento soffiava sempre più forte. Tornò alla sua poltrona vicino al fuoco e cominciò a leggere un giornale. Poco dopo venne interrotto da un rumore, seguito da un altro e altri ancora. Pensò che qualcuno stesse tirando delle palle di neve sulla finestra della sala da pranzo.
Uscì per andare a vedere e scorse alcuni passerotti feriti, buttati sulla neve.
La tormenta li aveva colti di sorpresa e, nel tentativo di trovare un rifugio, avevano cercato inutilmente di attraversare i vetri della finestra.
“Non posso permettere che queste povere creature muoiano di freddo… Però, come posso aiutarle?“.
Pensò che la stalla sarebbe stato un buon rifugio; velocemente si mise la giacca, gli stivali di gomma e camminò sulla neve fino ad arrivare nella stalla. Spalancò le porte e accese la luce. I passerotti, tuttavia, non entrarono.
“Forse il cibo li attirerà“, pensò. Tornò a casa per prendere delle briciole di pane e le disseminò sulla neve facendo un piccolo cammino fino alla stalla.
Ma si meravigliò nel vedere che gli uccelli ignoravano le briciole e continuavano a muovere disperatamente le ali sulla neve. Cercò di spingerli nella stalla, camminando intorno a loro e agitando le braccia. Ma i passerotti volarono da tutte le parti, meno che verso il caldo rifugio.
“Mi vedono come un estraneo che fa paura – pensò – e non mi viene in mente nulla perché possano fidarsi di me… Se solo potessi trasformarmi in passero per pochi minuti, forse riuscirei a salvarli“.
In quel momento, passò accanto a lui una persona che gli augurò “Buon Natale”.
L’uomo neppure rispose al saluto. Restò immobile, in silenzio, pensieroso. Poi cadde a terra, sulla neve, e disse: “Ora capisco, Signore, perché Tu hai voluto farti uno di noi!”.
LE TESI DI LUTERO E QUELLE DELLA SAMARITANA
Il 31 ottobre si è ufficialmente aperto l’anno di commemorazione per il quinto centenario della Riforma (1517-2017). Lo si è fatto a Lund (Svezia), con una celebrazione ecumenica a cui ha preso parte anche Francesco, vescovo di Roma. Un evento straordinario che, in un mondo dove ci si divide e ci si chiude nel proprio gruppo identitario, accende una luce di speranza e testimonia che l’Evangelo è più forte delle nostre resistenze.
Anche noi, nel nostro piccolo, vogliamo fare memoria della Riforma. Non lo facciamo con i toni celebrativi, di chi usa un anniversario per dire come è bravo lui e tutti quelli che, come lui, la pensano a quel modo. Sarebbe un tradimento di quella Parola che domanda conversione, non autocelebrazione! Per noi, fare memoria della Riforma significa cercare quella “forma” evangelica con la quale Dio intende plasmare le nostre vite, la nostra chiesa. Una “forma” che troviamo nelle Scritture. Abbiamo scelto di farlo, leggendo il Vangelo secondo Giovanni.
Siamo ancora ai primi capitoli di quel racconto, nel quale Gesù pone dei segni che invitano a ripensare la nostra immagine di Dio, insieme al senso da attribuire alle nostre esistenze. In queste pagine, troviamo la figura luminosa di una donna di Samaria, che intreccia un dialogo vero con Gesù. Da quel confronto possiamo cogliere i punti cardinali della fede cristiana, una bussola per muoverci al seguito di Gesù. Potremmo così accostare alle tesi di Lutero quelle della Samaritana – o meglio: quelle che nascono dall’incontro della donna con Gesù.
Innanzitutto il “nord”. Per Lutero, essenziale è recuperare la gratuità del dono di Dio, la fede nella sua grazia. Ed è proprio questo che emerge dal confronto al pozzo di Giacobbe. Non conta tanto la questione religiosa – dove adorare Dio: se a Gerusalemme o sul monte Garizim; e neppure quella morale – la donna ha avuto cinque mariti: non è proprio una persona eticamente irreprensibile! Cioè, non siamo noi a scalare il cielo con le nostre forze; è Dio che ci viene incontro e lo fa senza porre condizioni, solo perché siamo importanti ai suoi occhi e ci ama.
Il “sud” indica la direzione opposta, da cui prendere le distanze. Occorre liberarsi da tante preoccupazioni non essenziali. Gesù va oltre la mentalità comune, secondo la quale non era bene che parlasse, da solo, con una donna, e una donna come quella. La Samaritana va oltre il pregiudizio religioso che la sconsigliava a dare retta ad un profeta non samaritano, appartenente al gruppo nemico. Credere nel Dio di Gesù significa smettere di credere a quelle convenzioni umane che rischiano di ridurre la chiesa ad una setta.
L’ “est” indica dove sorge il sole, da dove nasce la fede. La tesi di questo brano è molto chiara: fede è credere in un Dio che non desidera altro se non che tu viva pienamente. Che la tua esistenza non sia arida, che la tua sete trovi da dissetarsi, che tu possa diventare sorgente di acqua viva anche per altri. Si crede per vivere, per sperimentare un’umanità piena, non per fuggire in cielo o dimenticare le fatiche e le sconfitte.
Infine, l’ “ovest”, dove termina la sua corsa il sole, il luogo a cui tendere. La donna è talmente colpita dall’incontro con Gesù che lascia la secchia e corre a comunicare agli altri quanto le è capitato. Lo fa non con affermazioni solenni ma in termini interrogativi: “sarà lui il Cristo? Mi ha letto nel cuore, ha gettato luce nelle mie tenebre…”. La fede spinge a testimoniare lo stupore di un incontro inatteso e decisivo. E’ invito discreto a confrontarsi con una Parola, che si smarca dalle tante parole, che fa fare esperienza di una salvezza che è per tutto il mondo.
Questa è la “forma” della fede evangelica, quella ricordata da Lutero ad una cristianità distratta, lontana dall’Evangelo. Una fede essenziale nel Dio della grazia, che desidera che tutti noi abbiamo vita piena. E proprio per questo ci dona la sua Parola. A quella fonte vogliamo attingere l’acqua viva.
UN GRIDO
– per Daniel Ahenger, morto a 8 mesi di vita –
Un grido non lo si può imprigionare su un foglio di carta. La pagina non regge l’onda d’urto dell’urlo. Si può parlare e scrivere di esperienze ragionevoli, quelle che ci capitano normalmente. Anche di quelle negative: per quanto faticose, le si possono interrogare, arrivando persino ad imparare dalle sconfitte della vita.
Ma di fronte alla morte improvvisa di un bimbo, quando succede l’impensabile, quando crolla tutto e viene a mancare il terreno sotto i piedi? Quando le fondamenta sono rovinate, che cosa può fare il giusto? (Sal. 11,3).
Può solo urlare la sua disperazione e sperare che Qualcuno la raccolga e pianga con lui.
Una chiesa non ha tutte le risposte. Quelle ce le hanno gli amici di Giobbe che, di fronte al dolore straziante di un uomo che ha perso i suoi figli, fanno gli avvocati di Dio, senza più ascoltare il grido di Giobbe.
Abbiamo solo domande, mischiate a lacrime. E come Gesù sulla croce, gridiamo a gran voce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo 27,45-46).
Poi le parole ammutoliscono. E rimangono solo le mani, per abbracciare e asciugare il pianto disperato. E i piedi, per andare da chi è stato colpito dalla tragedia ed è sprofondato in luoghi profondi (Salmo 130,1).
Una chiesa non ha la bacchetta magica. Ha solo la sapienza del corpo: se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui (1Corinzi 12,26). E crede nell’amore che soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno (1Corinzi 13,7-8).
FORMA E RIFORMA
Nel periodo estivo, appena finito, chi è riuscito a staccare dal lavoro e dalle solite cose di ogni giorno ha potuto sentirsi, almeno per un po’, “in forma”. Questo modo di esprimerci per dire che stiamo bene, ci introduce al tema dell’anno. Dopo lo slogan “le ferite sono feritoie”, vi propongo di farci guidare da un titolo che suona così: “forma e riforma”. Il tema, almeno in parte, è d’obbligo: quest’anno ricorrono i 500 anni della riforma protestante, entro la quale anche la nostra chiesa si colloca. Il 31 Ottobre del 1517, Martin Lutero affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittemberg le sue 95 tesi, proponendo ai cristiani di discutere il proprio vissuto, di valutarlo alla luce della Parola e di mettere in atto una seria riforma. Col linguaggio latino dell’epoca, che suona così: Ecclesia reformata semper reformanda, Lutero ha ricordato la Parola delle Scritture che invita le chiese a lasciarsi continuamente trasformare da Dio. Noi, oggi, alla parola “riforma” associamo una serie di provvedimenti perlopiù politici, degli aggiustamenti per far funzionare meglio la macchina sociale. La riforma è una revisione. Cinque secoli fa – e con altro linguaggio, anche al tempo del cristianesimo delle origini – “riforma” significava tornare alla “forma” di vita evangelica, a quella passione iniziale che ha dato vita all’esperienza cristiana. Dunque, non semplice revisione ma ritorno alla visione. Non un aggiustamento di superficie ma la ricerca di quella forma che la Scrittura propone ai suoi lettori. Vivere da credenti non significa pensare che Dio esista, che l’insegnamento di Gesù sia giusto. Sarebbe solo una fede “di testa”, fatta di idee sganciate dal vissuto. I credenti nel Dio di Gesù sono quelle donne e quegli uomini che alla loro esistenza concreta desiderano dare la forma dell’Evangelo, provando ad assumere il medesimo stile di vita di Gesù. Una “forma” che corrisponde al progetto di Dio su ciascuno e sulla comunità ecclesiale. Ma che noi, sovente, de-formiamo, rincorrendo altre forme di vita, cercando altrove la felicità promessa. Di qui l’esigenza di mettere in atto un processo di “riforma”, per tornare ad essere “in forma” come discepole e discepoli del Signore.
Quest’anno rifletteremo su “forma e riforma” nelle Scritture. Guarderemo con attenzione a quelle scene bibliche in cui prende corpo la “forma” del credente, insieme alla sua necessaria “riforma”. Ci metteremo in ascolto di quelle pagine in cui viene evocata la visione del mondo come Dio lo vuole, insieme alla possibilità di una conversione, laddove il sogno è stato tradito. Domandiamo a Dio il coraggio di tornare all’essenziale, proprio quando ci vediamo dispersi in mille faccende; di non procedere per abitudine e forza d’inerzia, anche quando ci sembra impossibile cambiare; di rimetterci in gioco come esseri umani e credenti, nonostante le nostre paure e i tanti limiti. Invochiamo da Lui il coraggio di credere: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità» (Marco 9,24).
“Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa, anche dalla più malvagia. Per questo ha bisogno di esseri umani che si pongano al servizio di ogni cosa per volgerla al bene. Io credo che Dio in ogni situazione difficile ci darà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno. Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in Lui e non in noi stessi. Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede” (Dietrich Bonhoeffer).
COME ASINI
Siamo giunti al termine del nostro anno ecclesiastico e, prima di ricominciare il cammino, ci godiamo la pausa estiva. Abbiamo riflettuto sulle ferite inferte alle nostre vite da malattie, fallimenti, incomprensioni, dalle tante esperienze negative che dobbiamo affrontare. Abbiamo provato a non rimuoverle, a guardarle in faccia, per imparare a capire meglio noi stessi, le nostre relazioni, questo nostro tempo. Le ferite sono feritoie. Quale bilancio possiamo fare di questo nostro percorso? Penso che possiamo trarre almeno due conclusioni. La prima: la vita va vissuta in tutti i suoi aspetti, anche quelli meno piacevoli. Far finta che non esistano i problemi, non serve: meglio guardarli in faccia. La seconda: Dio ci parla in ogni momento della nostra esistenza e ci invita a coltivare quella sapienza che si lascia dettare l’agenda dalla concretezza delle situazioni, interpretandole alla luce delle Scritture. Ora, questa sapienza è possibile solo a patto di esercitarci nell’arte dell’ascolto, da compiere sia in verticale (ascolto della Parola), sia in orizzontale (ascolto della vita). Discepole e discepoli con i piedi per terra e gli orecchi ben aperti. Che, senza presunzione, senza ritenersi migliori degli altri, camminano con perseveranza guidati dalla luce dell’evangelo. Come degli asini…!
PREGHIERA DEGLI ASINI
Dacci , Signore, di mantenere i piedi sulla terra,
e le orecchie drizzate verso il cielo,
per non perdere nulla della tua Parola.
Dacci, Signore, una schiena coraggiosa,
per sopportare gli esseri umani più insopportabili.
Dacci, Signore, di camminare diritti, disprezzando le
carezze adulatorie così come le frustate.
Dacci, Signore, di essere sordi alle ingiurie,
all’ingratitudine, è la sola sordità cui aspiriamo. .
Non ti chiediamo di evitare tutte le sciocchezze, perché un
asino farà sempre delle asinerie.
Dacci semplicemente, Signore, di non disperare mai
della tua misericordia così gratuita
per quegli asini così disgraziati che siamo,
come dicono quei poveri esseri umani,
i quali però non hanno capito nulla né di Te, che sei
fuggito in Egitto con uno dei nostri fratelli,
e che hai fatto il tuo ingresso profetico a Gerusalemme,
sulla schiena di uno di noi.
FERITE, FERITOIE E OCCHIALI
Stiamo imparando a considerare le ferite non solo come un evento spiacevole, da allontanare il prima possibile. Certo, il primo compito da svolgere di fronte ad una malattia, ad una crisi familiare, ad un fallimento, è quello di curare la ferita, di ricercare la salute. Ma la cura, per risultare efficace, deve basarsi su una diagnosi del problema. Bisogna guardare in faccia il male che ci affligge per capirne le ragioni, per imparare l’arte di vivere anche nei momenti in cui il mondo ci crolla addosso e ci sembra che ci sia posto solo per la disperazione e la rabbia. Le ferite sono feritoie per chi non rimuove i problemi, per chi scommette che la vita ci istruisce sempre, che Dio è al nostro fianco e ci parla in ogni momento. Tuttavia, anche per coloro che vivono e credono “con gli occhi ben aperti”, non mancano i difetti di vista. Le feritoie permettono di vedere al di là del muro del castello; ma chi osserva da quel pertugio, rischia di scorgere sempre nemici in agguato. Se sei ferito, se la vita non va come desideri, se persino Dio ti delude, allora avrai uno sguardo arrabbiato, tenderai a vedere in tutto e in tutti difetti ed errori. Chi ha subito una ferita e ne soffre, guarda il mondo attraverso delle lenti scure, vede tutto nero. Come si può curare questo difetto di vista? Facendo finta che non esista la malvagità, che gli altri siano tutti buoni? Anche questa sarebbe una visione distorta della realtà. La Bibbia ci insegna a stare ai fatti, ad affrontare la vita per quello che è. Guai agli eroi buoni, perché ingenui. Si tratta di vedere bene e di vivere bene in un mondo che non ci siamo scelti, che non è quello che avremmo voluto che fosse. E per vedere bene, oggi, in una società dove un’opinione pubblica ferita si fa trascinare dalla paura, dall’indifferenza e diventa facile preda dell’ideologia dell’odio e del nemico da combattere, dobbiamo allenare i nostri occhi a vedere il bene che, pure, c’è. Il male ha già conquistato tutta l’audience. E’ sempre stato così: fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce! Ed oggi è ancor più vero. Vediamo nemici dappertutto, viviamo nel terrore. Ha scritto un credente ebreo: se nel secolo scorso, “i nazionalismi in Europa vedevano negli ebrei i nemici dell’umanità, oggi i nuovi nazionalismi vedono negli uomini più sofferenti del pianeta, in fuga dalla siccità e da regimi criminali, i nuovi nemici da cui difenderci. E così, chi ci chiede aiuto e assistenza, invece di ispirare sentimenti di amore e solidarietà, viene presentato come il pericolo maggiore per la nostra esistenza… Possiamo sconfiggere questa paura e lavorare per una strada nuova?” (Gabriele Nissim).
L’evangelo ci dice che, sì, è possibile percorrere un’altra strada, a condizione di aver visto il bene, di resistere al terrorismo e al fondamentalismo, di rifiutarsi di farsi prendere dall’odio verso i migranti, di costruire esperienze di dialogo e di convivenza con gente di cultura e religione diversa. Prima ancora di individuare scelte politiche giuste, dobbiamo rieducare lo sguardo, coltivare la spiritualità, intesa come arte di vedere il mondo con gli occhi di Dio. Le ferite possono insegnarci molto ma, nello stesso tempo, diventare cattive maestre. Abbiamo bisogno degli occhiali delle Scritture per mettere meglio a fuoco la realtà ed agire in essa come testimoni del Regno, del mondo sognato da Dio. E dobbiamo scommettere sulla forza del bene, anche a costo di apparire ridicoli agli occhi dei nostri contemporanei, stregati da un cinico individualismo.
«Io non voglio e non posso credere che il male per gli uomini sia la normalità.
Purtroppo loro non fanno che ridere di questa mia fede, ma come posso non crederci?
Io ho visto la Verità, non me la sono inventata, l’ho vista, l’ho vista, e la sua immagine vivente ha colmato la mia anima per sempre» (Fëdor Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo).
INSIEME, VERSO UN FUTURO CHE NON CI APPARTIENE
Lasciamoci sollecitare da due testi (anonimi) dallo stile poetico, per continuare la nostra riflessione sulle “ferite come feritoie”. Il primo ci dice che da soli valiamo poco, che abbiamo bisogno degli altri. La ferita dell’essere poca cosa, ci apre agli altri: solo insieme agli altri mi scopro importante.
Il secondo testo ci parla della ferita del non avere in pugno la situazione, di non riuscire a cambiare la realtà come vorremmo; e invita a fidarci di quel Dio a cui appartiene il futuro.
Se la nota dicesse…
Se la nota dicesse:
“non è una sola nota che fa la musica”.
…Non avremmo la sinfonia.
Se la parola dicesse:
“Non è una parola che fa una pagina”.
…Non ci sarebbe il libro.
Se la pietra dicesse:
“Non è una pietra che innalza il muro”
…Non ci sarebbe la casa.
Se l’uomo dicesse:
“Non è un gesto di amore che salva l’umanità”
…non ci sarebbe mai né la giustizia, né la pace, ne la dignità né la felicità sulla terra.
Come la sinfonia ha bisogno di una nota,
Come il libro ha bisogno di ogni parola,
Come la casa ha bisogno di ogni pietra,
L’umanità intera ha bisogno di te,
là dove tu sei unico, unica, insostituibile…
Profeti di un futuro che non ci appartiene
Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte
di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto,
però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri
e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,
ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.
PASQUA IN UN MONDO FERITO
La Bibbia racconta di due pasque. La prima si riferisce alla liberazione degli schiavi ebrei, impiegati come manodopera a costo zero nel mattonificio del faraone d’Egitto. Dio ha udito il loro grido disperato, ha visto i maltrattamenti a loro inflitti ed è intervenuto per liberarli e condurli nella terra dove scorrono latte e miele. E’ la pasqua che ristabilisce la dignità di ogni essere umano, fatto ad immagine e somiglianza del suo Creatore e che mira ad introdurlo libero, in una terra abitata nella giustizia. Gesù, prima di morire, fa memoria di questa pasqua: «Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio» (Luca 22,15s). Parole che indicano che la memoria di quanto successo in Egitto deve essere accompagnata dal desiderio di un compimento futuro, quando tutti gli esseri umani potranno gustare una vita non più oppressa. Ma sempre in quella cena pasquale, Gesù parla di un’altra pasqua, la sua. Questa seconda pasqua avviene a Gerusalemme e si riferisce alla sua scelta di amare sino alla fine, senza porre condizione alcuna: scelta che gli esseri umani hanno condannato, appendendolo su una croce, ma che si è rivelata più forte della morte.
Nella prima pasqua resuscita l’umanità messa a morte dall’agire ingiusto dei potenti; nella seconda resuscita Dio stesso, il cui volto è stato incompreso e sfigurato dalla religione. Non più un Dio che domanda di essere servito, che chiede all’umanità di sacrificarsi per lui: è Dio stesso a sacrificarsi per noi, ad amarci proprio mentre lo tradiamo e lo uccidiamo. E il Risorto non torna facendola pagare a quanti hanno tramato per farlo fuori. Non veste i panni del vendicatore. Mostrandosi vivo, ristabilisce i legami infranti, offre perdono, trasfigura quanto il peccato aveva rovinato.
Cosa avviene oggi, nel nostro mondo? Vediamo ancora profughi che scappano da guerre e situazioni di oppressione, che provano a superare i tanti mar Rosso che li separano dalla terra promessa. Solo che, dall’altra parte, trovano muri e filo spinato, poliziotti col manganello e cani che sbranano. Tutto l’opposto dell’esodo d’Israele. E poi vediamo gente impazzita, che semina il terrore e la morte in nome di un Dio, che si mostrerebbe “grande” uccidendo, vendicandosi di chi gli è infedele. Proprio il contrario della pasqua di Gesù.
Noi facciamo memoria delle due pasque in un mondo che non crede alla resurrezione dei vivi e dei morti, che si oppone al Dio della vita. E il problema è che questa opposizione non riguarda solo gli altri, dal momento che questo è il nostro mondo, che anche noi respiriamo la stessa aria e che ci ritroviamo noi stessi dubbiosi ed incapaci di credere alla pasqua, nonostante la celebriamo ogni anno.
Signore, siamo poveri peccatori. Siamo come quella gente che piangeva commossa, mentre tu portavi la tua croce, senza accorgersi del proprio peccato. A costoro tu hai detto: «non piangete per me, ma piangete per voi e per i vostri figli» (Luca 23,28). Perché «Questo popolo si avvicina a me con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me». Eppure, tu hai promesso che «in mezzo a questo popolo io continuerò a fare delle meraviglie, meraviglie su meraviglie; la saggezza dei suoi saggi perirà e l’intelligenza dei suoi intelligenti sparirà» (Isaia 29,13s). Mostrati vivo in mezzo a noi. Liberaci da quella falsa sapienza che ci fa chiudere in noi stessi e sfigura il tuo volto. Insegnaci, di nuovo, a custodire la dignità di ogni persona che incontriamo e la bellezza di un Dio che ci ama incondizionatamente. Solo così potremmo fare esperienza di una terza pasqua, la nostra.
IL FERITO E’ LA FERITOIA
Quante fatiche ci riserva la vita! La nostra prima reazione è di fuggirle, di fare finta di niente. A volte funziona: non ci si pensa, si volge lo sguardo altrove. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Il più delle volte, però, non è possibile rimuovere i problemi. Quando il corpo continua a mandarci segnali allarmanti, facendoci soffrire; quando le persone con cui viviamo ci manifestano quotidianamente il loro malumore; quando noi stessi sentiamo di girare a vuoto… allora capiamo che è impossibile aggirare il problema. C’è però un’ulteriore tentazione: quella di rivolgerci a Dio, come ultima chance, perché ci liberi dai mali che ci affliggono. E’ giusto chiedere a Lui di ascoltare le nostre sofferenze e di porvi rimedio. Ma è anche una tentazione, se smettiamo di affrontare quanto ci succede e viviamo l’esperienza religiosa come qualcosa di magico. La Bibbia ci insegna a guardare in faccia la vita, in tutte le sue manifestazioni; ci invita a riflettere anche sulle esperienze negative che ci fanno soffrire. Le ferite, infatti, sono feritoie, a cui affacciarsi per comprendere meglio il senso della vita. Perché Dio ci parla attraverso quello che ci succede. Il problema sta nel saperci mettere in ascolto della vita, anche quando non ci piace. Fare silenzio e riflettere sulle fatiche che stiamo affrontando può diventare una scuola di umanizzazione, dove apprendiamo uno sguardo profondo sulla vita, andando oltre il lamento e lo scoraggiamento. Come anche guardare sul volto di chi ci sta vicino la reazione ai nostri comportamenti, ci aiuta a capire che, a volte, siamo noi a ferire l’altro.
Ma in questo periodo che precede la Pasqua, più che alle nostre ferite, subite o inferte, siamo invitati a guardare al Ferito, cioè a quel Gesù che, dopo aver molto patito, è morto in croce. E’ Lui la feritoia da cui scorgiamo il volto di Dio. L’evangelista Giovanni, che all’inizio del suo racconto ci dice: Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere (Giovanni 1,18), al momento della crocifissione afferma:
questo è avvenuto affinché si adempisse la Scrittura: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Giovanni 19,36s).
Anche nei confronti di Gesù sulla croce sentiamo la tentazione di distogliere lo sguardo, di pensare ad altro. Avremmo preferito vedere all’opera un Dio potente, che evita il male, invece che doverlo affrontare. In effetti, Gesù agisce con potenza, mosso dal desiderio di dare vita in pienezza ad ogni essere umano (Giovanni 10,10); ed i vangeli lo descrivono come un medico, che si prende cura di chi sta male, che ascolta chi grida il proprio dolore. Ma Gesù è un guaritore ferito, che ha affrontato sulla sua pelle quei mali che ci affliggono. Nella preghiera ha lottato con il Padre suo, domandando di far passare quel calice di dolore; e nello stesso tempo, ha cercato di comprendere qual’era la volontà di Dio (Mc. 14,36), non limitandosi a subire quanto gli succedeva ma dando a tutto un significato. E’ sul Golgota, il luogo del trionfo del male, là dove Gesù ha sperimentato la ferita mortale, che Dio si rivela come un Dio-per-noi, che non vuole il nostro sacrificio; anzi, è Lui a sacrificarsi per noi. Qui assistiamo ad un vero e proprio capovolgimento dell’immaginario religioso di sempre.
Non scappiamo dalla croce. Non imitiamo i discepoli maschi, che abbandonano il Maestro, terrorizzati. Come le donne, rimaniamo ai piedi della croce e domandiamoci, ancora una volta, cosa significhi che Dio è appeso a quel legno e che proprio Lui è destinato a risorgere. Diamoci del tempo per rileggere la passione di Gesù: da quella feritoia scorgiamo chi è Dio e cosa significhi essere umani, in un mondo disumano.
QUANDO A FERIRE SIAMO NOI
Non è facile guardare in faccia le nostre fragilità, quelle ferite che ancora bruciano e ci fanno male. Ma ancora più difficile è fare i conti con la nostra capacità di ferire gli altri. Perché noi non siamo solo vittime ma anche carnefici. E’ raro ammetterlo. Perlopiù ci giustifichiamo: ciò che l’altra persona ritiene una ferita da noi inferta, noi la reputiamo una giusta correzione o pensiamo che se lo è proprio cercato quel nostro comportamento un po’ duro. La violenza è sempre degli altri; quella che ci abita, normalmente, la rimuoviamo. Come ammettere che anche noi proviamo rabbia, odio e agiamo di conseguenza? Come pensare che proprio noi, che ci riteniamo persone corrette, buone, simpatiche, causiamo sofferenza in altri, soprattutto in chi ci sta vicino? Se le ferite da noi subite possono diventare feritoie, a patto di fermarci e guardarle in profondità, a condizione di provare a ricercarne un senso, di viverle e non di subirle soltanto; le ferite causate da noi diventeranno anch’esse feritoie, solo se sapremo scorgere il loro dolore sul volto di chi abbiamo trattato male. E’ necessario, cioè, smettere di essere preoccupati di noi stessi, della nostra giustizia, delle nostre ragioni e provare a metterci “nei panni dell’altro”. Cosa provocano nell’altro i miei “giusti” comportamenti? Che conseguenze hanno le mie azioni? So guardare con attenzione il volto di chi mi sta vicino o gli altri sono solo comparse insignificanti in quel teatro della vita che ha soltanto me come unico protagonista? Sono una persona che fa stare bene chi incontra o arrivo persino a gioire della sofferenza altrui? Il volto dell’altro – dei familiari, dei colleghi, dei vicini, dei fratelli e delle sorelle di chiesa – è il termometro con cui misurare la febbre provocata dai miei gesti e dalle mie parole.
C’è un episodio evangelico che proprio su questo ci fa riflettere: Poi entrò di nuovo nella sinagoga; là stava un uomo che aveva la mano paralizzata. E l’osservavano per vedere se lo avrebbe guarito in giorno di sabato, per poterlo accusare. Egli disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Alzati là nel mezzo!». Poi domandò loro: «È permesso, in un giorno di sabato, fare del bene o fare del male? Salvare una persona o ucciderla?» Ma quelli tacevano. Allora Gesù, guardatili tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore, disse all’uomo: «Stendi la mano!» Egli la stese, e la sua mano tornò sana. I farisei, usciti, tennero subito consiglio con gli erodiani contro di lui, per farlo morire (Marco 3,1-6).
Gesù si indigna, rattristato, perché le persone religiose non sanno più guardare il volto di chi soffre, preoccupate solo di essere rispettose delle norme. Non erano stati, certo, quei credenti, presenti nella sinagoga, a provocare la paralisi della mano di quell’uomo. Ma avevano aggiunto dolore a dolore, disinteressandosi della sua condizione, utilizzandolo per mettere alla prova Gesù. Ponendolo in mezzo, sotto gli occhi di tutti, Gesù domanda di specchiarsi sul viso di quell’uomo e di vedere la violenza che abita anche le persone religiose. Non sempre l’altro è lo “specchio delle mie brame”, uno che mi rimanda un’immagine positiva e idealizzata della mia persona. A volte l’altro svela la mia aggressività, la meschinità di certi miei modi di dire e di agire. Una lezione amara, ma fondamentale: solo se mi accorgo di questo, le ferite da me inferte, anche involontariamente, diventeranno feritoie da cui scrutare un modo differente di vivere le relazioni, di parlare senza ferire, di agire senza provocare sofferenza.
2016
UN ANNO NUOVO
E così siamo giunti al 2016. Un brivido di emozione ci sorprende per questo nuovo anno che inizia. Se non altro, perché ci siamo arrivati, perché siamo ancora vivi, perché muoviamo i primi passi in questo nuovo tempo che ci si spalanca di fronte. Tutti ci auguriamo che sia piacevole o che, almeno, sia meglio di quello precedente. In realtà, siamo abitati da sentimenti misti, opposti: da una parte lo stupore per il nuovo tempo che ci è dato; ma, insieme, anche il dubbio riguardo al fatto che possa essere veramente “nuovo”. Se c’è un tratto comune all’umanità del nostro tempo, almeno qui, in Occidente, questo è dato dal disincanto, dalla disillusione nei confronti di ogni proclamata novità. Certo, inseguiamo le innovazioni della tecnica, che promettono maggiori comfort, rimedi alle malattie che ci affliggono, soluzioni a problemi finora giudicati insolubili. Quanto al resto, però, non ci aspettiamo niente di nuovo. L’umanità continua a ripetere i medesimi orrori di sempre. La storia sarà pure “maestra di vita”, come ha scritto Cicerone; ma noi ci dimostriamo cattivi scolari, incapaci di imparare dagli errori commessi. E’ quanto esprime il poeta Salvatore Quasimodo, autore di Uomo del mio tempo:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Se non siamo in grado di impariamo dal passato, allora dovremmo cambiare tattica, come suggerisce il poeta, ovvero: dimenticare. E’ la strada indicata anche dal profeta Isaia: Così parla il Signore: Non ricordate più le cose passate, non considerate più le cose antiche: Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; non la riconoscerete? Sì, io aprirò una strada nel deserto, farò scorrere dei fiumi nella steppa (43,18-19).
A noi, depressi dalla situazione, tentati di disfattismo, in preda al continuo lamento, testimoni di una storia perlopiù ingiusta e malvagia, proprio a noi Dio propone questo esercizio: “sgombera la mente ed il cuore dai pensieri che ti paralizzano, dalla sensazione che non ci sia niente da fare. E, una volta liberata l’anima dalle paure, torna a fidarti della mia potenza, a credere che il nuovo può ancora germogliare, La storia ti sembra un deserto, nel quale le speranze disseccano e la vita muore? Sì, spesso è così. Ma io sono in grado di aprire strade in questo deserto; io posso far scorrere fiumi di acqua viva proprio laddove tutto sembra sfiorire. E tu, saprai riconoscere i germogli di questa novità? Sarai in grado di vedere il bello, il buono, il giusto, il vero, oppure i tuoi occhi sono abbagliati dal sole nero della violenza?”.
Auguri, dunque, per questo anno “nuovo”. Che lo sia veramente. E potrà esserlo se i nostri occhi saranno “nuovi”, se torneremo ad avere fede, ad essere parte di quel resto di umanità che continua a sperare, nonostante tutto. Costoro – dice il Signore – ricostruiranno sulle antiche rovine, rialzeranno i luoghi desolati nel passato, rinnoveranno le città devastate, i luoghi desolati delle trascorse generazioni (Isaia 61,4).
UNA FEDE ATTENTA, CHE ATTENDE
Quest’anno cerchiamo di riflettere sulle ferite della vita, su quanto ci fa stare male, scommettendo che queste esperienze dolorose possono diventare delle feritoie, ovvero delle situazioni in cui capiamo meglio e più a fondo il significato della condizione umana. Ora, questa nostra ricerca si incrocia, in quest’ultima parte dell’anno, con l’Avvento di Gesù nella storia. Come stanno insieme la fragilità umana e la venuta in mezzo a noi di Gesù?
Ci sono credenti che vedono nel farsi carne della Parola eterna la risposta divina alla domanda umana che sgorga dai nostri limiti e fallimenti. “Prendi pure in considerazioni i tanti problemi che devi affrontare; sappi, però, che essi hanno già una soluzione proprio in Gesù”.
Altri, interpretano la venuta nella carne del Figlio di Dio come la scelta di condividere la fragile condizione umana. “Non sei solo nelle difficoltà: vicino a te c’è un Dio che le ha sperimentate e proprio per questo può capirti e sostenerti”.
Dunque, un cristianesimo “forte”, che ha pronte tutte le risposte; ed uno più “debole”, che punta sull’empatia e la condivisione di Dio. Entrambi, mettono in luce degli aspetti presenti nei racconti evangelici, pur rischiando di lasciarne in ombra altri. Soprattutto, sembrano risolvere troppo in fretta la domanda sul senso di quanto ci capita. Il primo, fornendo risposte preconfezionate: “Gesù è la risposta a tutte le tue inquietudini. Devi solo credere”; il secondo, proponendo che sia più importante l’esserci che non il capire: “la vita è un mistero incomprensibile; grazie a Dio, non la affrontiamo da soli, poiché Gesù è con noi”.
Ripeto, c’è della verità in entrambi questi modi di intendere l’esperienza cristiana. E tuttavia, mi sembra che oggi abbiamo bisogno di un cristianesimo che susciti domande, più che risposte; che faccia pensare, più che spegnere l’inquietudine. Viviamo, infatti, in tempi a rischio di banalizzazione, dove prevalgono gli slogan gridati, alla televisione come sui social network, nella politica come anche nella religione. Tutti si sentono in dovere di giudicare, senza la pazienza del voler capire, del fare i conti con la complessità della vita, con gli enigmi del cuore umano.
Nel tempo di Avvento, quando ci prepariamo a rivivere il Natale di Gesù, la fede assume i tratti dell’attesa. Credere non è l’esperienza di chi si sente sazio, perché ha tutte le certezze in tasca o perché gli basta sapere che non è solo, che Dio non lo abbandona. Noi attendiamo la vittoria su quel male che ancora domina sulla terra. Desideriamo trovare quel senso della vita che perlopiù ci sfugge e che viene continuamente messo in discussione da quanto ci succede. Mentre facciamo memoria della nascita di Gesù, ne attendiamo la venuta, alla fine dei tempi, desiderando nuovi cieli ed una nuova terra, in cui abiti la giustizia e la felicità.
E nel frattempo? Mentre la storia ci mostra il suo volto crudele e cinico, mentre sperimentiamo le nostre fragilità, cosa ci indica la Parola? Ci invita a vivere l’attesa non come passività: “lasciamo fare a Dio…”, ma come attenzione. Perché è proprio in questa tua vita, in questo periodo storico che Dio ti parla. La vita, il mondo non sono “da sopportare”, ma da trattare con estrema attenzione, poiché sono fragili e noi possiamo romperli. Attenzione significa guardare con occhio penetrante quanto ci succede; significa agire con sapienza, controllando le emozioni che rischiano di travolgerci. Significa prendere sul serio la nostra esistenza, scommettendo che proprio in essa Dio pone la sua tenda.
Mettiamoci dunque alla scuola della Parola per apprendere l’alfabeto dell’attesa e dell’attenzione, per vivere una fede sapiente, non ridotta a slogan, un cristianesimo dell’ascolto e della ricerca. Di fronte al muro che sbarra la strada, non limitiamoci a dire: “Dio lo vuole” o “Dio è lì con te”; cerchiamo, piuttosto, quella feritoia che ci fa vedere meglio il senso di ciò che ci capita, vivendo con attenzione ogni esperienza. Da quella finestra potremo scorgere i segni del Dio tanto atteso, che viene proprio per noi.
CHIESA FERITA, CHIAMATA A CONVERTIRSI
Stiamo riflettendo sulle ferite della vita, interpretate come feritoie che permettono di vedere più a fondo. Ferite che non bruciano solo sul corpo delle singole persone, ma anche su quello delle nostre chiese. Quante delusioni hanno suscitato e continuano a suscitare le chiese! Quanti fallimenti a loro carico! Fin da subito, la comunità dei credenti ha mostrato tutte le sue fragilità. Nel libro dell’Apocalisse (3,14-22), leggiamo la diagnosi scritta niente meno che da Gesù a proposito della chiesa di Laodicea. La cartella clinica, con linguaggio spietato, descrive le patologie di questa comunità tiepida che, presumendo di avere una ricca esperienza di fede, va avanti per forza di inerzia, senza passione. Una chiesa cristiana in cui Gesù non si riconosce più, al punto che gli procura nausea: perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente io ti vomiterò dalla mia bocca (3,16). Nella storia umana, anche le esperienze più belle, partite bene, create per assolvere a nobili ideali, si trovano a tradire il progetto iniziale, ad esprimere il contrario del sogno iniziale. Amori che si trasformano in odio, mobilitazioni per la giustizia che insanguinano la storia che volevano cambiare. Anche la chiesa di Gesù, fin da subito, ha sperimentato il venir meno del fuoco dell’evangelo ed il prevalere della mondanità. E la Scrittura non può che mettere a nudo, impietosamente, il fallimento, lo scarto tra il sogno di Gesù e la triste realtà dei suoi discepoli. Di fronte al quale, però, Dio non si arrende: Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti (3,19). La chiesa può continuare ad avere senso, nonostante le molte infedeltà, solo se riconosce i propri fallimenti e si lascia correggere, se si pone cioè in un cammino di conversione. Ci sono credenti che intendono la conversione come un momento (quando sono stato battezzato, quando ho vissuto un’esperienza spirituale significativa…). In realtà, per la Bibbia, la conversione è un processo che dura tutta la vita. E non solo i singoli sono chiamati a cambiar vita; anche le chiese devono convertirsi. Non è, forse, questo il significato profondo dell’esperienza cristiana promosso dalla Riforma? Proprio in questo mese, ne celebriamo la festa, ricordando il gesto di Martin Lutero. Affiggendo sulla porta della cattedrale di Wittemberg le sue 95 tesi, il riformatore ha proposto ad una cristianità tiepida, molto simile alla chiesa di Laodicea, di discutere il proprio vissuto, di valutarlo alla luce della Parola e di mettere in atto una seria riforma. Col linguaggio latino dell’epoca, che suona così: Ecclesia reformata semper reformanda, Lutero ha ricordato la Parola delle Scritture che invita le chiese a lasciarsi trasformare da Dio. Ma ne tradiremmo le intenzioni, se pensassimo che l’imperativo della conversione riguardi solo le altre chiese; se parlassimo della Riforma con toni trionfalistici, mettendoci sul piedistallo, reputandoci migliori degli altri cristiani. Piuttosto, siamo chiamati a fare memoria di un compito che è solo agli inizi e che dobbiamo assolvere tutti insieme.
Leggiamo ancora nella cartella clinica della chiesa di Laodicea: Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me (3,20). Riconosciamo che Gesù ci è ancora estraneo, che si trova al di fuori delle nostre chiese. E da lì, dal di fuori, bussa alla nostra porta, col desiderio di entrare e condividere con noi l’avventura della speranza in un’umanità rinnovata. Sapremo udirne la voce e arrischiarci di aprirgli? Martin Lutero, sul letto di morte, ha detto: “Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”. La sfida sta nel riconoscere le nostre fragilità, senza nasconderle dietro la facciata e senza per questo gettare la spugna. E nel mendicare insieme quanto ci manca, oltre la paura di cambiare, mettendoci sempre di nuovo in ascolto di una Parola che chiama a conversione. Che strappa dal lamento per il triste presente, che invita a diventare costruttori di relazioni. La chiesa, per quanto fragile, rimane un prezioso anticorpo alla malattia di un io preoccupato unicamente della propria affermazione. Abbiamo bisogno degli altri per superare insieme l’infelicità dell’autosufficienza; e di quel Dio che continua a scegliere una chiesa fragile per tenere viva nella storia la speranza dell’evangelo.
LE FERITE SONO FERITOIE
Come ogni anno, la nostra chiesa propone un tema che faccia da filo rosso alle predicazioni domenicali e agli approfondimenti comunitari. Quest’anno vorremmo provare ad affrontare le fragilità che ci attraversano. Sono molte e di diversi tipi. Sperimentiamo la debolezza fisica di corpi che sentono lo scorrere del tempo, i segni dell’invecchiamento, che sono soggetti a malattie. Viviamo momenti più o meno lunghi di fragilità psichica, segnati da tristezza, scoraggiamento e depressione. Facciamo continuamente i conti con le fatiche delle relazioni (di coppia, con i figli, con le altre persone). Ebbene, vogliamo prendere sul serio queste fragilità: non perché pensiamo la chiesa come un centro psico-socio-sanitario (!) ma perché il Dio biblico entra in relazione con ciascuno di noi a partire dal nostro concreto vissuto. La Bibbia che, con mille linguaggi, ci narra dell’avventura di Dio con l’umanità, è una scuola di sapienza di vita. E la chiesa è un laboratorio di ascolto, dove proviamo ad apprendere questa sapienza attivando tutte e due le orecchie che abbiamo in dotazione. Con un orecchio, infatti, siamo chiamati a metterci in ascolto della Parola; con l’altro, siamo invitati a prendere in seria considerazione la nostra storia. Impossibile separare i due ascolti, se non a prezzo di una fede solo di facciata e di una vita che rimuove quanto non capisce.
Affrontiamo le nostre fragilità non perché siamo masochisti e ci piace soffrire! Desideriamo vivere e poter gustare la bellezza della vita. Ma sappiamo che del menù della vita fanno parte anche i limiti, le fatiche, le ferite. E la Bibbia ci sollecita a scorgere un senso anche in queste esperienze. Come fa l’apostolo Paolo, che ai cristiani di Corinto dice: abbiamo un tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi (2 Cor. 4,7). Le fragilità della vita non sono solo difficoltà da superare il prima possibile, con un approccio da problem solving. Certo che dobbiamo far di tutto per vivere bene; ma perché questo accada realmente, dobbiamo guardare a fondo ciò che di negativo ci capita, alla ricerca di quel significato che è presente anche nei limiti e nelle ferite dell’esistenza.
In una frase: “le ferite sono feritoie”. Ovvero, le fatiche fisiche, psichiche e relazionali, le esperienze negative che ci feriscono e ci lasciano amareggiati, sono delle finestre che ci mostrano aspetti importanti della vita. La Bibbia ci insegna a non nasconderle sotto il tappeto, a non rimuovere il negativo ma a guardarlo in faccia, interrogandolo a fondo e domandandoci come Dio stia agendo anche in quella situazione. Sono io soltanto un Dio da vicino», dice il SIGNORE, «e non un Dio da lontano? (Geremia 23,23). A volte, Dio ci appare lontano, la vita triste, la gente insopportabile. E la tentazione è quella di pensare ad altro, sperando che passi in fretta la nottata. Viviamo i momenti di crisi come fossero delle parentesi, rispetto alla vera vita, quella che riapparirà una volta risolto il problema. In realtà, anche le ferite ci appartengono, fanno parte della nostra vita. E a noi è chiesto non tanto di sopportarle ma di comprenderle alla luce della Parola che Dio sempre ci rivolge.
Ci aspetta un compito arduo. Ma una fede adulta passa anche per questa strada. Chi incontra il Dio di Gesù compie un cammino di umanizzazione, acquisisce uno sguardo più penetrante, apprende quella sapienza di vivere di cui abbiamo tutti un estremo bisogno.
ESTATE 2015
L’estate, quando alcune attività si fermano e gli impegni diminuiscono, è un tempo propizio per provare a guardarci dentro, ad interrogarci su noi stessi. Una chiesa è fatta di persone che hanno il coraggio di fare verità su di sé, per poter instaurare relazioni autentiche con gli altri. Solo così la Parola del Signore ci raggiunge e mette radici, trovando un terreno in grado di accoglierla.
Vi propongo una riflessione del pastore Bonhoeffer sulle paure che ci abitano. E’ un invito a riconoscerle per non farsene schiacciare ed imparare a passare dalla paura alla fiducia. Questa estate, proviamo a trovare del tempo per guardare alle nostre vite con questa chiave di lettura.
“La paura è in un certo qual modo il nostro principale nemico. Essa si annida nel cuore dell’uomo e lo mina interiormente finché egli crolla improvvisamente, senza opporre resistenza e privo di forza. Corrode e rosicchia di nascosto tutti i fili che ci uniscono al Signore e al prossimo. Quando l’essere umano in pericolo tenta di aggrapparsi alle corde, queste si spezzano, ed egli, indifeso e disperato, si lascia cadere. Allora la paura lo guarda sogghignando e gli dice: ora siamo soli, tu e io, e ora ti mostro il mio vero volto. Chi ha conosciuto e si è abbandonato a questo sentimento in un’orribile solitudine — la paura di fronte a una grave decisione, la paura di un destino avverso, la preoccupazione per il lavoro, la paura di un vizio a cui non si può più opporre resistenza e che rende schiavi, la paura della vergogna, la paura di un’altra persona, la paura di morire — sa che è soltanto una maschera del male, una forma in cui il mondo ostile a Dio cerca di catturarlo. Non c’è nulla nella nostra vita che ci renda evidente la realtà di queste forze ostili al Creatore come questa solitudine, questa fragilità, questa nebbia che si diffonde su ogni cosa, questa mancanza di vie di uscita e questa folle agitazione che ci assale quando vogliamo uscire da questa terribile disperazione. Avete mai visto qualcuno assalito dalla paura? Il suo viso è orribile quando è bambino e continua a essere spaventoso anche da adulto: quella fissità dello sguardo, quel tremore animalesco, quella difesa supplichevole. La paura fa perdere all’uomo la sua umanità. Non sembra più una creatura di Dio, ma del diavolo; diventa un essere devastato, sottomesso.
Abbiamo paura della quiete. Siamo così abituati all’agitazione e al rumore, che il silenzio ci appare minaccioso e lo rifuggiamo. Passiamo da un’attività all’altra per non dover stare soli, per non essere costretti a guardarci allo specchio. Ci annoiamo, a tu per tu con noi stessi. Spesso, le ore che siamo costretti a trascorrere in solitudine ci sembrano le più tristi e le meno fruttuose. Ma non abbiamo soltanto il timore di noi e di scoprirci; temiamo anche Dio. Vorremmo evitare che disturbi la nostra tranquillità e ci smascheri”.
La Bibbia inizia raccontando della paura di Adamo: paura che Dio lo imbrogliasse, come gli suggeriva il serpente; paura che Dio lo giudicasse: «Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto» (Genesi 3,10). Ma quel Dio, che ci domanda di guardare in faccia alle nostre paure (di non nasconderci, di metterci a nudo), è anche Colui che ci chiama ad aprirci alla fiducia, all’amore. Ed è proprio così che termina il racconto biblico, ricordandoci che Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura (1Giovanni 4,18).
Che il Signore ci conceda lucidità e coraggio; e che ciascuno di noi trovi la forza di guardarsi dentro e di lasciare risuonare nel proprio cuore la Parola che salva, riaprendo alla fiducia.
Buona estate!
La chiesa nasce a Pentecoste
Quest’anno ci stiamo chiedendo cosa significhi essere chiesa. Ora, se guardiamo agli ultimi avvenimento della vita di Gesù, riusciamo a capire meglio il suo progetto di comunità.
Ricapitoliamo i fatti: protagonista è un gruppo di fuggiaschi, che avevano dapprima seguito con entusiasmo e coraggio il profeta di Nazaret e poi, di fronte alla sua tragica fine, appeso su una croce, avevano considerata conclusa quell’esperienza e, delusi, stavano tornando ognuno alla solita vita di sempre. Proprio nel momento più nero della crisi, Gesù si manifesta vivo, rivolgendo loro di nuovo la Parola. La croce non aveva decretato solo la morte di Gesù ma anche quella della comunità dei discepoli, ormai senza più fede nel loro Maestro. A Pasqua, insieme a Gesù, anche il gruppo disperso dei discepoli si ritrova di nuovo unito nella fede in un Dio che sa sconfiggere persino la morte. E’ una comunità nuova, quella radunata dal Risorto. Passata attraverso una prova che ha buttato all’aria i precedenti progetti, le aspettative troppo umane, ora può ripartire al seguito del Crocefisso Risorto. Rimane, però, ancora tanta incertezza e paura. Le domande si moltiplicano: se Gesù è risorto, vuol dire che la storia finisce? O che, almeno, sono giunti i tempi messianici, nei quali Israele non dovrà più sottostare al governo altrui? Cosa devono fare i credenti in Gesù: attendere che Dio finisca il lavoro? Vendicarsi di quelli che hanno messo a morte il loro Maestro?
Lo stupore per la resurrezione di Gesù aveva lasciato il posto ad una sensazione di spaesamento e incertezza. Solo il dono dello Spirito consente ai discepoli di ridiventare un gruppo con una propria identità ed un progetto di futuro.
Era successa la stessa cosa al popolo d’Israele: la pasqua dell’esodo, avvenuta oltrepassando il mar Rosso, aveva decretato la liberazione dalla schiavitù in Egitto; ma solo al Sinai, quando riceve la Parola che gli farà da guida nella terra promessa, si costituisce come popolo in alleanza con Dio.
Ora, proprio a Pentecoste, quando gli ebrei fanno memoria del dono della Torà, ricevuta da Mosè sul Sinai, i discepoli di Gesù ricevono il dono dello Spirito santo. Lo Spirito è descritto nel libro degli Atti come una “lingua di fuoco”: un’immagine che lega lo Spirito alla Parola e alla passione. Esso, infatti, ricorda la Parola di Gesù e ne fa rivivere la passione per il Regno. Lo Spirito è la Torà messa nel cuore, come aveva preannunciato il profeta Geremia: «Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d’Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE; «ma questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni», dice il SIGNORE: «io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo» (Geremia 31,31-33).
Questa è la chiesa di Gesù: un gruppo di persone che ascolta una Parola capace di mettere radici nel cuore; una comunità che fa di questa Parola viva l’orientamento del proprio agire; che fa di questa Parola la sua passione, lasciandosi infiammare dallo Spirito.
In un tempo di cinismo, di cuori freddi e parole opportuniste, invochiamo il miracolo della Pentecoste, per poter scommettere sulla possibilità di essere ancora oggi, a duemila anni di distanza, la chiesa di Gesù.
CHIESA DEL RISORTO
A Pasqua facciamo memoria non solo della morte e resurrezione di Gesù ma anche della fine di una comunità e del suo tornare in vita. Di fronte alla morte scandalosa sulla croce, i discepoli di Gesù si disperdono e la fiducia nel Maestro della Galilea viene meno. E’ soltanto per la nuova iniziativa del Risorto, che si mostra vivo e, senza risentimento né rimproveri, offre loro di nuovo la sua Parola di vita, che la comunità dei discepoli e delle discepole viene rifondata.
Come non leggere in questi avvenimenti la parabola di ogni chiesa, e quindi anche della nostra? Se guardiamo a quello che riusciamo a fare noi, con le nostre forze, dovremmo chiudere bottega! Non siamo brutte persone, anzi… Ma dobbiamo riconoscere che per essere la chiesa di Gesù non basta stare bene insieme. I cristiani sono chiamati ad essere testimoni della resurrezione in un mondo dove prevalgono i segni della morte. E noi fatichiamo a credere nell’incredibile, a sperare nell’insperabile. Come i discepoli di Emmaus, di cui ci parla Luca (24,13-35), dopo ogni culto, ce ne torniamo a casa convinti che tutto è finito, ovvero che la fede non è altro che ascoltare belle parole, che scaldano il cuore, ma che non funzionano nella realtà, dove sono i potenti a decidere l’andamento della storia, quei potenti che hanno messo in croce Gesù e che giudicano l’evangelo come una fantasia irrealizzabile. In ogni momento ci raggiunge la voce vincente che ci dice: l’unico valore è il denaro e tu vali solo nella misura in cui sei ricco e potente.
Ai tempi di Gesù, come ai nostri giorni, la chiesa è chiamata ad essere una società alternativa, che prova a seguire una logica differente da quella mondana, la logica evangelica. Come possiamo essere all’altezza di questo compito? Non siamo migliori degli altri nostri contemporanei; confessiamo la distanza delle nostre vite dal vangelo di Gesù. Eppure, è proprio noi che il Signore chiama a risorgere con Lui. A credere che le nostre esistenze possono essere raggiunte dalla potenza dello Spirito e trasformate. Ad incoraggiarci ad essere la sua chiesa. Lui ci dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero (Matteo 11,28-30).
Il giogo serve ad unire due buoi e a guidarli nel lavoro che devono svolgere. Ebbene, Gesù ricorre a questa immagine per dirci: cara chiesa, non sei sola nel duro mestiere di vivere; Io sono al tuo fianco, porto insieme a te il giogo e ti do la forza che ti serve per sostenere le fatiche di chi prova a mettere il lievito dell’evangelo nella pasta della storia.
Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente (Matteo 28,20).
LA PASQUA, UN TERREMOTO!
Ogni volta che leggiamo le Scritture, apriamo il Libro che apre. La Bibbia, infatti, ci offre racconti che parlano di aperture: si aprono il mar Rosso, le tombe, il futuro. La Scrittura è il Libro dei passaggi, delle pasque. Ma la prima apertura, il passaggio che consente quelli successivi, spetta a noi compierla, mediante la lettura. Tocca a noi aprirci al mondo della narrazione e incominciare a percorrerlo, affrontando anche le salite, dove le parole sono gradini. A volte ci appare arduo inerpicarci per quelle scale: ci sentiamo come bambini per i quali i gradini rappresentano un ostacolo insuperabile. Non è questa la sensazione che proviamo di fronte all’annuncio della resurrezione di Gesù? Come si fa a credere che sia possibile il passaggio dalla morte alla vita, che si possa aprire quell’orizzonte che da sempre riteniamo chiuso, sigillato come pietra tombale? In altri momenti storici, i credenti non esitavano a dirigersi con decisione verso quel guado. Anzi, in mezzo a tutte le incertezze della vita, quel passaggio rappresentava un punto fermo, indiscutibile. La pasqua di Gesù era anche la loro. Ma oggi lo scenario appare molto diverso. Viviamo in una società tendenzialmente depressiva. Le grandi speranze sono venute meno, giudicate come pericolose illusioni, materia per gente un po’ matta, incapace di stare con i piedi per terra. Ed anche i cristiani preferiscono interpretare la fede in termini etici, come una sapienza che aiuta ad orientarsi in un mondo complesso, in preda alla confusione. Non che questo sia sbagliato: abbiamo tutti bisogno di parole che indichino il cammino, che ci sottraggano all’incertezza dominante. Però, queste parole non devono osare troppo, non devono andare oltre il buon senso. E’ finito il tempo della poesia, dei voli pindarici; finalmente, abbiamo capito che occorre fare i conti con la dura prosa quotidiana. Non è, forse, questo lo spirito del nostro tempo, l’aria che respiriamo nel presente? Non siamo anche noi abitati dalla disillusione, continuamente tentati dal cinismo e dall’opportunismo? Come può risuonare l’annuncio della pasqua di Gesù in questa nostra terra desolata? L’evangelista Matteo, lui pure vissuto in un ambiente che giudicava irricevibile quell’annuncio, inserisce nella sua narrazione un elemento diverso, che non troviamo nei racconti degli altri tre evangelisti. Ci dice che, quando Gesù muore sulla croce, la terra tremò, le rocce si schiantarono, le tombe s’aprirono… e il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, visto il terremoto e le cose avvenute, furono presi da grande spavento e dissero: «Veramente, costui era Figlio di Dio» (Matteo 27,51-52.54). Anche al mattino del giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione di Gesù, secondo Matteo, si fece un gran terremoto; perché un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e vi sedette sopra (Matteo 28,2).
Ci vuole un terremoto esistenziale, che metta sottosopra le nostre indiscutibili convinzioni, per giungere a credere l’incredibile, a sperare l’insperabile. Devono rompersi le acque perché possiamo nascere a quella vita nuova che la resurrezione di Gesù ha inaugurata. Dobbiamo passare per il trauma del parto, abbandonare i grembi caldi per essere messi al mondo ed avventurarci lungo i rischiosi sentieri del Regno di Dio. Per noi la Pasqua giunge come un “terremoto” inatteso, che sposta macigni secolari, che scompiglia i progetti, che mette sottosopra la realtà. Che il Dio dei terremoti esistenziali ci aiuti a riaprire i giochi, a rinnovare la vita. Buona Pasqua!
DUE AMORI, DUE DOMANDE, DUE DIGIUNI
Nei 40 giorni che precedono la memoria della passione, morte e resurrezione di Gesù, i primi cristiani svolgevano un cammino di preparazione per ricevere il battesimo nel giorno di Pasqua. Ed anche chi aveva già ricevuto il battesimo era chiamato, in quel periodo, a rinnovare la propria fede, a rimotivarla, allontanandosi dal male e prestando maggior ascolto alla Parola di Dio, letta e riletta nelle Scritture, pregata e meditata a lungo.
Con due domande aperte, due interrogativi corrispondenti ai due amori del credente, ovvero Dio e gli esseri umani. Chi è Dio? Come posso scorgerlo appeso su una croce, come l’ultimo dei malfattori? E, insieme: chi è l’uomo? Cosa significa diventare umani, in un mondo da sempre disumano?
Dunque, non tanto le domande “religiose” (in che chiesa devo andare? Quante preghiere devo dire? Quali gesti devo compiere? ecc.) ma gli interrogativi che stanno alla radice di ogni vita, le questioni fondamentali di chi non si lascia vivere ma affronta l’esistenza con consapevolezza.
Domande che hanno inquietato donne e uomini di ogni epoca e che oggi rischiano di non essere più ascoltate. Per due millenni è stato proposto ai cristiani di tutte le chiese questo tempo speciale di riflessione, sulla base di una distinzione tra il tempo cronologico, che scorre sempre uguale, e un tempo favorevole, diverso dagli altri e assunto come tempo propizio per ripensarsi, per ritrovare quella luce interiore che ci consente di vivere con passione. Oggi, però, rischiamo di perdere questa sapienza perché viviamo di corsa, non abbiamo tempo di fermarci, di fare silenzio. Inoltre, siamo succubi dei tanti strumento tecnologici che siamo felici di possedere ma che in realtà ci posseggono. Le voci che ascoltiamo ci giungono a flusso continuo da telefoni, televisori, computer. Voci che riempiono le nostre vite al punto da non sentire più l’esigenza di rientrare in noi stessi per porci la domanda fondamentale su chi sono e cosa significhi vivere. Non si tratta di buttare al macero i dispositivi tecnologici di cui ci siamo dotati, ma di considerarli strumenti, senza esserne succubi.
In questo tempo che precede la Pasqua, molte chiese propongono la pratica del digiuno. I protestanti hanno contestato questa pratica divenuta solo esteriore, spesso ipocrita, ricordando quanto scritto nella Bibbia: È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l’uomo si umilia? Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere, è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al SIGNORE? Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne? (Isaia 58,5-7).
Parole sferzanti che ci invitano non tanto ad abolire il digiuno quanto ad intenderlo come rinuncia dell’ingiustizia per iniziare a condividere. Ma sarà possibile astenersi dal “divorare” gli altri, usandoli per il proprio tornaconto, mettere un freno a quella fame di guadagno che ci fa commettere misfatti, solo se prima sapremo digiunare delle tante voci che ci suggeriscono di battere la via dell’ingiustizia (così fan tutti!) per ascoltare una voce differente, per interrogarci di nuovo su cosa significhi essere umani.
Il grande digiuno dall’istinto predatore che ci fa saccheggiare il nostro pianeta e condanna a morte milioni di nostro simili deve essere accompagnato dal piccolo digiuno dai rumori che assordano le nostre orecchie. Partiamo da piccole scelte quotidiane. Programmiamo alcuni minuti nei quali spegniamo tutto e facciamo silenzio. Impariamo il difficile mestiere di giardinieri dell’anima, impegnati a curare le radici della nostra esistenza, altrimenti non ne verrà fuori alcun frutto. Se coltiveremo il silenzio, potremo di nuovo ascoltarci a fondo, essere persone e non personaggi; e sentiremo anche la voce di quel Dio che desidera incontrarci proprio così: ecco, io l’attrarrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore (Osea 2,14).
Non perdiamo l’occasione propizia di un tempo dedicato a fare silenzio, perché – come dice Dietrich Bonhoeffer –
«Tra silenzio e parola vi è lo stesso legame interiore
e la stessa distinzione
che vi è tra solitudine e comunione.
L’una non può esistere senza l’altro.
La giusta parola nasce dal silenzio,
ed il giusto silenzio nasce dalla parola.
Nel silenzio è insito un meraviglioso potere
di chiarificazione, di purificazione,
di concentrazione sulle cose essenziali».
UNA CHIESA CHE SI RICONOSCE FRAGILE
Quest’anno vogliamo cercare di capire meglio cosa significhi essere chiesa, riflettendo innanzitutto su come Gesù la sognava e come i primi cristiani le hanno dato forma. Nel Libro degli Atti, troviamo un episodio significativo a questo proposito. Al capitolo 5, Luca ci narra della vicenda di Anania e Saffira, una coppia che partecipa all’esperimento insolito della prima comunità di Gerusalemme, ovvero quello di provare a mettere in comune i propri beni così da creare un gruppo dove nessuno fosse bisognoso. Ma i due coniugi pensano bene di non fidarsi del tutto, di mettere da parte qualcosa e di consegnare il resto agli apostoli. Ad una prima lettura ci verrebbe da approvare questo comportamento di buon senso. Ma Luca calca la mano perché con questo episodio intende narrarci il “peccato originale” della chiesa. Leggete con attenzione Atti 5,1-10 e vi accorgerete di quanto assomigli alla scena di Genesi 3, quando Adamo ed Eva non si fidano di Dio e mangiano dell’albero. In entrambi gli episodi abbiamo una coppia che infrange uno scenario armonico perché segue il consiglio del serpente (Genesi 3,4-5) o di Satana (Atti 5,3); segue un interrogatorio separato (prima ad Adamo/Anania, poi a Eva/Saffira); infine, c’è l’espulsione dal giardino/chiesa e l’esperienza della morte. All’inizio della chiesa, come al momento della creazione, il progetto di Dio viene messo in discussione dagli esseri umani.
Dopo aver letto nei racconti evangelici la dura critica di Gesù all’ipocrisia dei farisei, ora negli Atti siamo messi di fronte all’ipocrisia cristiana, ad una fede solo di facciata che, di fatto, non si fida totalmente della Parola di Gesù.
Essere chiesa significa fare i conti con questa fragilità costitutiva. Non siamo migliori degli altri! Ma questa presa d’atto del limite che ci abita, non deve portarci a lasciar perdere l’impresa. La fragilità va riconosciuta come un dono, poiché – come dice Dietrich Bonhoeffer – “solo la comunità che è profondamente delusa per tutte le manifestazioni spiacevoli connesse con la vita comunitaria, incomincia ad essere ciò che deve essere di fronte a Dio, ad afferrare nella fede le promesse che le sono state fatte”. E ancora: “Chi ama il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato ad essere un elemento distruttore di ogni comunione cristiana, anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione. Chi si costruisce un’immagine ideale di comunione, pretende la realizzazione di questa da Dio, dagli altri e da se stesso. Nella comunità cristiana avanza esigenze sue, istituisce una propria legge e giudica in base ad essa i fratelli e perfino Dio. Si impone con durezza, quasi un rimprovero vivente. Ciò che non va secondo il suo volere, è preso da lui come un fallimento. Quando il suo ideale fallisce, pensa che si tratti della rovina della comunità. E così diventa prima accusatore dei fratelli, poi accusatore di Dio e infine si riduce a disperato accusatore di se stesso. È Dio ad aver già posto l’unico fondamento della nostra comunione, è Dio ad averci unito con altri cristiani in un solo corpo, in Gesù Cristo: per questo la nostra funzione nel vivere insieme ad altri cristiani non è quella di avanzare esigenze, ma di ringraziare e di ricevere. Ringraziamo Dio per ciò che egli ha operato in noi. Ringraziamo Dio perché ci dà dei fratelli che vivono della sua vocazione, del suo perdono, della sua promessa. E anche il peccato dell’altro non è sempre nuova occasione di gratitudine, per il fatto che entrambi possiamo vivere del perdono che viene dall’amore di Dio in Gesù Cristo? Non è forse in tal modo che proprio il momento della grande delusione nei confronti del fratello diventa per me un impareggiabile momento di salvezza, che mi fa capire fino in fondo che sia lui che io non possiamo vivere in nessun modo delle nostre parole e azioni, ma solo dell’unica parola e azione che ci unisce nella verità, cioè la remissione dei peccati in Gesù Cristo? Nel dissolversi delle nebbie mattutine del sogno, irrompe il giorno chiaro della comunione cristiana”.
2015
UN ANNO “BUONO”
Siamo giunti nel 2015! E in questi primi giorni, come di consueto, ci auguriamo “Buon anno!”. Lo facciamo un po’ per abitudine e buona educazione, ed un po’ anche perché vorremmo veramente che le persone a cui rivolgiamo l’augurio possano vivere serenamente. Ma cosa vuol dire augurarsi che l’anno appena iniziato sia “buono”? Se non siamo ingenui, non ci facciamo troppe illusioni. Anche quest’anno ci saranno difficoltà, incomprensioni, malattie, guerre, morti. Sul teatro della storia, come nel nostro piccolo, continueremo ad esperimentare fatiche fisiche, psichiche e relazionali. Tutto quanto fa parte della nostra vita risulta fragile, sottoposto al rischio di corrompersi e venir meno. E allora, che senso ha dirsi “buon anno”? In che cosa può risultare “buono” il tempo che ci è dato di attraversare?
Con queste domande ho riletto la conclusione del libro della Genesi. Il grande portale d’ingresso delle Scritture narra della creazione voluta bella e buona da un Dio che ci ha creati a sua immagine e somiglianza e, subito dopo, mette in scena un’umanità che, non fidandosi del progetto divino, mangia dell’albero della conoscenza del bene e del male (2,17 e 3,1ss). Con linguaggio simbolico, viene qui espressa la pretesa umana di controllare il bene ed il male.
La conclusione di Genesi narra la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. Conosciamo bene quella vicenda. Ma, forse, non abbiamo fatto attenzione al finale. Leggiamolo direttamente:
I fratelli di Giuseppe, quando videro che il loro padre era morto, dissero: «Chi sa se Giuseppe non ci porterà odio e non ci renderà tutto il male che gli abbiamo fatto?». Perciò mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre, prima di morire, diede quest’ordine: “Dite così a Giuseppe: Perdona ora ai tuoi fratelli il loro misfatto e il loro peccato; perché ti hanno fatto del male”. Ti prego, perdona dunque ora il misfatto dei servi del Dio di tuo padre!» Giuseppe, quando gli parlarono così, pianse. I suoi fratelli vennero anch’essi, si inchinarono ai suoi piedi e dissero: «Ecco, siamo tuoi servi». Giuseppe disse loro: «Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso. Ora dunque non temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli». Così li confortò e parlò al loro cuore (Genesi 50,15-21).
La conclusione di Genesi si ricollega al suo inizio. Non possiamo avere il pieno controllo del bene e del male. Non tutto dipende da noi; e noi stessi, a volte, facciamo quello che non vorremmo fare, travolti da gelosie, risentimenti ed altre passioni triste, anche inconsce. Siamo anche noi all’interno della storia di Giuseppe. Il quale si accorge che anche nel male Dio opera: Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene.
Noi siamo tentati di pensare alle situazioni negative come una dolorosa parentesi nella vita, da risolvere il prima possibile. “Quando sarò guarito… quando avrò risolto quel problema economico, col partner, con i figli… quando supererò quell’ansia che mi tormenta…, allora potrò tornare a vivere!”. In realtà, anche quei momenti tenebrosi sono la nostra vita, danno forma alla nostra storia. La vicenda di Giuseppe ci dice proprio questo: qualunque cosa ti capiti, anche gli eventi più dolorosi, ti sia dato di viverlo con sapienza, cercando di scorgervi dove Dio ti voglia condurre.
Non abbiamo il potere (magico!) di evitare il male – i problemi, i fallimenti, le malattie…; ma possiamo cogliere il bene anche lì, se sappiamo imparare dalle situazioni negative, se vi cerchiamo l’agire di Dio e cogliamo le sfide che ci pongono. Così si diventa “umani”: non col gesto di chi pretende di controllare tutto, ma con la scelta di vivere tutto fino in fondo, oltre il lamento (per quanto legittimo), come opportunità di dare senso ad un vissuto che sembra non averlo più. Con le parole di una poetessa, scomparsa di recente, Maria Luisa Spaziani:
L’indifferenza è inferno senza fiamme.
Ricordalo scegliendo
fra mille il tuo fatale grigio.
Se il mondo è senza senso,
tua è la vera colpa.
Aspetta la tua impronta
questa palla di cera.
Raccogliamo la sfida di rendere buono persino il negativo. E domandiamo a Dio di accompagnarci in questa operazione che costituisce l’arte di vivere. Buon anno, dunque!
NATALE: UN TESORO NASCOSTO
Se diamo retta a Matteo, la nascita di Gesù non presenta alcuna solennità. Questo evento, che ai nostri occhi ha cambiato la storia, ci viene raccontato all’insegna del nascondimento. Maria si ritrova incinta prima di andare a vivere con Giuseppe. Costui, un uomo giusto che non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente (1,19). E fin qui possiamo anche capire quel desiderio di nascondere qualcosa che gli altri avrebbero giudicato negativamente. Ma il seguito del racconto insiste di nuovo su questo aspetto. Gesù, cercato dai magi d’Oriente, è nascosto ad Erode e a tutta Gerusalemme (2,3). Ricercato da Erode, deve nascondersi in Egitto (2,13-15) e poi in Galilea (2,23-25). Nel seguito della narrazione, Matteo ricorda la parabola di Gesù, secondo la quale Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo (13,44). Le parabole stesse, secondo Matteo, sono raccontate per annunciare qualcosa di nascosto: Aprirò in parabole la mia bocca; proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (13,35). Gesù ne parla perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto (10,26). Ma non tutti sono disposti ad accogliere questa parola.
La venuta di Gesù è qualcosa di nascosto, per nulla eclatante. La sua nascita non ha destato alcun interesse a quell’epoca. Ed anche oggi, che calcoliamo gli anni distinguendoli tra quelli prima e quelli dopo Cristo, la sua presenza ed il suo sogno continuano a rimanere nascosti in una storia che è affascinata da altri idoli.
Fare memoria della nascita di Gesù significa credere che nel campo insanguinato di questo nostro mondo è nascosto il tesoro del Regno di Dio. Credere che in quel bambino sono racchiuse le speranze di una nuova umanità. Credere che la sua Parola, per quanto inattuale e nascosta al giudizio della nostra società, sia quella luce di cui abbiamo bisogno. Dio si nasconde perché vuole essere cercato. Lo dice bene questo raccontino della tradizione ebraica: Il nipote di Rabbi Baruch, Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo. Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo uscì dal nascondiglio, ma l’altro non si vedeva. Jehiel si accorse allora che quello non lo aveva mai cercato. Questo lo fece piangere; piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono allora di lacrime e disse: «Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma nessuno mi vuol cercare» (Martin Buber, I racconti dei Chassidim).
Fare memoria di un Dio nascosto significa mettersi alla ricerca, come i magi, senza presumere di avere e di sapere già. Significa farsi piccoli: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto (11,25-26).
Non lasciamoci abbagliare dalle luci artificiali. Impariamo, piuttosto, il segreto che la volpe confida al Piccolo Principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
UNA CHIESA NON SAZIA
Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.
Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.
(Luca 6,21.25)
L’evangelista Luca, insieme alle parole di Gesù che indicano la via che porta alla felicità, ci parla anche del retro della medaglia, ovvero di quei “guai” che stanno ad indicare una vita infelice, non riuscita.
Fermiamoci sulla beatitudine della fame. In prima battuta, Luca parla di un mondo capovolto: laddove è Dio a regnare, non ci sarà più alcuna persona costretta a fare la fame. Uno scenario tuttora inedito, che dovrebbe iniziare a prendere corpo almeno nella comunità dei discepoli di Gesù (vedi Atti 4,34).
Ma gli esseri umani non hanno solo fame di pane (Luca 4,4). Abbiamo fame e sete di felicità, di senso, di una vita giusta (come dice Matteo 5,6: Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati).
Avere fame significa non sentirsi sazi e patire la mancanza di qualcosa che si ritiene essenziale. Avere fame significa attendere qualcosa che possa nutrirci.
I cristiani hanno trovato in Gesù e nel suo evangelo il pane della vita (Giovanni 6,35). E tuttavia, anch’essi non possono ritenersi saziati: devono attendere che la fame di vita venga colmata da Colui che è più forte della morte; che la sete di giustizia venga dissetata da Colui che, solo, è Giusto; che questo mondo torni ad essere quel giardino di delizie, come “in principio” l’ha sognato Dio.
invece, ci ritroviamo ad essere incapaci di coltivare desideri a lungo termine, stregati dall’imperativo del soddisfare immediatamente i bisogni. Come i nostri contemporanei, sperimentiamo una sazietà che, di fatto, ci impedisce di vegliare e rimanere in attesa.
E non è solo questione di aspettare il ritorno del Signore e la conclusione della storia umana. Prima ancora si tratta di imparare di nuovo ad attendere la Parola decisiva: «Ecco, vengono i giorni», dice il Signore, DIO, «in cui io manderò la fame nel paese, non fame di pane o sete d’acqua, ma la fame e la sete di ascoltare la parola del SIGNORE» (Amos 8,11).
Essere chiesa – tema su cui proviamo a riflettere quest’anno – significa rimanere in attesa di quella Parola che ci chiama e ci indica la strada da seguire. Vuol dire vivere come cercatori di senso, pellegrini, persone che continuano ad interrogarsi e a mettersi in ascolto.
In questo periodo che precede il Natale, memoria della prima venuta di Gesù, proviamo a imparare di nuovo l’alfabeto dell’attesa, oltre la tentazione di un’esistenza satura di tante cose e di una fede soddisfatta, che presume di sapere e avere.
COME ACQUA CHE PRENDE FORMA DALLA PAROLA
Quest’anno vogliamo riflettere su cosa significhi essere chiesa. Come per ogni realtà che fa parte del nostro presente, corriamo il rischio di darne per scontato il senso. A partire dalla nostra esperienza personale, tutti noi ce ne siamo già fatti un’idea.
Ma Gesù come voleva la sua comunità? Proviamo a mettere da parte le nostre conclusioni e rimettiamoci in ascolto della Parola per capire più a fondo come dovrebbe essere la chiesa. Ci metteremo alla scuola delle Scritture, annunciate nel culto, approfondite nello studio biblico, meditate nella preghiera personale. E perché l’ascolto sia autentico, occorreranno curiosità, attenzione, intelligenza e, soprattutto, quell’amore che ci libera dalla presunzione di sapere già, che ci rende umili e disponibili alla parola altrui. Come l’acqua!
L’amore è come l’acqua
Anche se una roccia di granito non ha interstizi, l’acqua vi penetrerà, vi passerà attraverso. Poiché non ha forma, l’acqua è così umile, che le puoi dare qualunque forma, ed è sempre pronta a prenderla. La metti in un bicchiere e diventa il bicchiere, la metti in un secchio e diventa il secchio. Non resiste mai, non piange mai, non si lamenta mai, non protesta mai. L’acqua si arrende semplicemente. E così l’Amore, l’Amore si arrende sempre. Si fida talmente che può prendere qualsiasi forma; non ha mai paura. Gli elementi più duri hanno paura. Dal momento che hanno meno sicurezza nella parte più interna del loro essere, sono più attaccati alla forma. La roccia ha paura perché se la forma esteriore viene distrutta, dove andrà a finire? L’acqua non ha paura. La forma non è il suo essere. In ogni forma resterà la stessa. L’Amore non ha paura. Può prendere qualsiasi forma. L’odio ha paura, l’odio è una cosa dura. L’egoismo ha paura, l’egoismo è una cosa dura. L’acqua cerca luoghi cavi; anche l’Amore cerca luoghi vuoti. Se sei un egoista, l’Amore non ti può raggiungere, perché sei così pieno di te stesso che l’Amore non può scorrere in te. L’Amore ha bisogno che tu sia totalmente aperto, disponibile, umile, uno spazio senza ostacoli. L’acqua cerca spazi vuoti; e così scende e viaggia, scorre finché raggiunge l’oceano. L’oceano è il luogo più basso, più vuoto del mondo, per questo l’acqua arriva a lui. Un fiume non può andare verso la collina, non può salire le vette. Avviene esattamente il contrario. Un fiume scende sempre più in basso e scende fino a quando raggiunge il luogo più vuoto del mondo, l’oceano. L’oceano diventa la sua casa. Anche l’Amore va verso il vuoto: ecco perché gli egoisti, gli orgogliosi non possono amare, non possono essere amati. Perché l’Amore è come l’acqua, cerca un luogo cavo, umile, recettivo dove poter riposare. L’Amore è l’acqua dell’essere interiore.
IN PRINCIPIO LA PAROLA
Dopo la pausa estiva, riprende il nostro cammino come chiesa. In questo periodo si formulano proposte e si stilano calendari delle iniziative. Ognuno di noi cova nel proprio cuore qualche idea brillante per dare smalto e visibilità alla nostra chiesa. Ma poi ci sembra che gli altri non la pensino allo stesso modo, non ci aiutino nella realizzazione. Ci succede, allora, di reagire come Marta, la quale tutta presa dalle faccende domestiche, venne e disse: «Signore, non ti importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e sei agitata per molte cose, ma una cosa sola è necessaria. Maria ha scelto la parte buona che non le sarà tolta» (Luca 10,40-42). Maria, infatti, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola (10,39).
Se leggiamo l’intero capitolo 10 del vangelo secondo Luca, capiamo che Gesù non intende screditare l’agire concreto di Marta. Il nostro brano, non a caso, è preceduto dalla parabola del buon samaritano (10,25-37), con la quale Gesù spiega al suo interlocutore chi è il prossimo da amare. Ma, giunto in casa delle sue due amiche, Gesù richiama l’attenzione sull’amare Dio, che si traduce nell’ascoltarne la Parola. E’ l’ascolto della Parola la sola cosa necessaria. Perché sarà dall’ascolto che potremo comprendere cosa Dio desidera che noi facciamo.
Come chiesa, la nostra parte buona è questa. Non abbiamo che la Parola di Dio, da ascoltare a fondo e da cui trarre le indicazioni della via da seguire. E’ l’unico nostro capitale. All’inizio di questo nuovo anno ecclesiastico, chiediamo a Dio di rinnovare l’esperienza dell’ascolto. Spesso ci sentiamo a terra, schiacciati da fatiche di ogni tipo; le diverse preoccupazioni ci rendono incapaci di metterci in ascolto. Proviamo, allora, nella preghiera, a raccontare a Dio il tratto di strada che stiamo percorrendo. Poi, domandiamogli di farci comprendere la via che Lui ci ha tracciato. Chiediamogli di liberarci dalla confusione e, soprattutto, di “allargare il nostro cuore”, di dilatarlo affinché sia capace di accogliere la sua Parola. E’ quanto ci suggerisce il salmo:
Le tue testimonianze sono la mia gioia; esse sono i miei consiglieri.
L’anima mia è avvilita nella polvere; ravvivami secondo la tua parola.
Ti ho confidato le mie vie, e tu m’hai risposto; insegnami i tuoi statuti.
Fammi comprendere la via dei tuoi precetti, e io mediterò sui tuoi prodigi.
L’anima mia, dal dolore, si consuma in lacrime; dammi sollievo con la tua parola.
Tieni lontana da me la via della menzogna e, nella tua grazia, fammi comprendere la tua legge.
Io ho scelto la via della fedeltà, ho posto i tuoi giudizi davanti ai miei occhi.
Ho aderito ai tuoi statuti; o Signore, non permettere che io sia confuso.
Io correrò per la via dei tuoi comandamenti, perché mi hai allargato il cuore.
(Salmo 119,24-32).
Buona ripresa!
UN TEMPO PER LE DOMANDE
Viviamo in un tempo in cui le risposte non sono più un problema. Basta digitare un quesito su Google e la rete ci offre immediatamente la risposta cercata. Possiamo sapere tutto, senza troppo sforzo. Abbiamo tutte le informazioni a portata di mano. Ci mancano, però, le domande. Non mi riferisco a quelle dettate dalla curiosità o alla richiesta di informazioni. Parlo delle domande esistenziali, quelle in cui il punto di domanda diviene un uncino (come suggerisce la sua forma grafica: ?) che arpiona la nostra anima e la libera da quella montagna di cose superflue, non essenziali, che la soffocano.
Abbiamo un disperato bisogno di domande vere. Grazie alle quali poter interrogare a fondo il nostro vissuto, personale e comunitario, evitando la deriva del lasciarsi vivere, dell’andare in automatico.
Domande come quelle proposte dal poeta T. S. Eliot:
Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
Si può vivere a lungo, conoscere tutto e nello stesso tempo perdere la vita. Proprio come suggerisce Gesù, quando domanda:
Che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua? O che darà l’uomo in cambio dell’anima sua? (Matteo 16,26).
Facciamo di questo periodo estivo un tempo per le domande. Interroghiamoci per capire meglio chi siamo, quali sono i nostri desideri profondi, che tipo di relazioni intessiamo con gli altri. Domande per le quali non esiste una risposta bell’e pronta; interrogazioni a cui solo ognuno di noi può far fronte, nella misura in cui ci mettiamo in gioco, ricercando la verità della nostra esistenza (l’anima), più che difendere una presunta immagine pubblica.
E mentre chiediamo a noi stessi il coraggio di non fermarci alle apparenze e di rifarci le domande fondamentali, domandiamo a Dio la sapienza necessaria per apprendere l’arte di vivere, per individuare ciò che è essenziale. Come suggerisce l’apostolo:
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un’onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore, perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie (Giacomo 1,5-8).
Andiamo pure al mare (se possiamo!), gustiamoci il vento che rinfresca la calura; ma lavoriamo per non essere persone instabili come le onde e agitate come il vento. Non perdiamo l’anima!
Buona estate!
IL RUMORE DELLO SPIRITO
Di che cosa parliamo tra di noi? Che cosa attira la nostra attenzione e diviene argomento delle nostre discussioni? Per tutti, l’attualità la fa da padrona. Le news gridate dai mass media, soprattutto quelle tragiche, che toccano i sentimenti della gente: sono queste a suscitare il nostro interesse, diventando lo spartito che la bocca esegue e l’orecchio percepisce. Siamo sensibili a quello che nella lingua angloamericana si dice “rumors”. E come potrebbe essere diversamente, dal momento che viviamo nella storia, i cui ingredienti sono proprio questi fatti che la cronaca quotidiana ci snocciola? Non si tratta di tapparsi le orecchie e diventare sordi a quanto accade attorno a noi. Piuttosto, è questione di affinare l’udito, per cogliere anche i rumori meno forti, sommersi dai suoni più assordanti. Come il rumore del vento. Gesù, prima di andare a proclamare la buona notizia di un Dio che è Padre e Madre e che regna con giustizia e misericordia, ha speso trent’anni della sua vita per affinare l’orecchio e rendere penetrante lo sguardo. Liberato dall’inquinamento acustico che già allora, in forme diverse, impediva un ascolto profondo, Lui sapeva percepire il rumore del vento. E a Nicodemo, che lo interrogava sulla possibilità di rinascere di nuovo, risponde in questi termini: Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito (Giovanni 3,8).
Straordinaria immagine che invita ad ascoltare lo Spirito, senza la pretesa di sapere “da dove viene e dove va”, cioè di controllare se è di origine protetta e se va a finire nel posto da noi riservato. Per alcuni cristiani, avere lo Spirito, ricevere il battesimo dello Spirito, rinascere nello Spirito equivale a sapere di essere salvati, di aver raggiunto Dio e di possederne la verità. Una presunzione che la Scrittura giudica come il peggiore dei mali che affliggono le persone religiose, in quanto mette fine alla conversione e allontana da Dio. In realtà, fare esperienza dello Spirito di Gesù significa “non sapere”, cioè abbandonare la pretesa di controllare tutto, lasciandosi guidare da una Parola altra, da un coraggio che non teme di perdere la faccia per arrischiarsi a percorrere i sentieri del Regno. Senza la preoccupazione di essere riconosciuti diversi, magari eroici, in ogni caso bravi. Ciò che conta è far percepire il rumore dello Spirito, il gusto dell’evangelo; far sorgere, almeno per un attimo, l’idea che si può veramente rinascere, anche in una società come la nostra, depressa ed in crisi.
A Pentecoste proviamo ad affinare l’orecchio, ostruito dai rumors dell’attualità per ascoltare quanto lo Spirito dice a ciascuna persona e alla nostra chiesa.
UNA PASQUA PER RIPENSARCI
Che cosa ha significato la Pasqua di Gesù per coloro che l’avevano seguito lungo le strade della Galilea e della Giudea? Leggendo i quattro vangeli, ci si rende subito conto che per i discepoli e le discepole di Gesù la sua resurrezione non è stata vissuta come un gesto di trionfo, un grido di vittoria al termine di un incerta battaglia, quando ormai si disperava di uscirne vivi. Noi la pensiamo un po’ così: con la resurrezione, Gesù ha cancellato quel triste capitolo della morte in croce, ha messo a tacere i suoi nemici, ha dimostrato di essere Dio. Invece, nei racconti evangelici, l’annuncio della resurrezione viene raccontato insieme a dubbi e paure. Non solo la croce è stata uno scandalo per i primi credenti: anche la resurrezione è parsa loro incredibile, come se fossero in preda ad un fenomeno di allucinazione. Di fatto, Maria di Magdala, Tommaso, Pietro, i due di Emmaus ci parlano di una fede che era venuta meno sul Golgota e che ha dovuto ripensarsi da capo a partire dall’annuncio della resurrezione. Nessun atteggiamento del tipo: la storia ci ha dato ragione! Piuttosto, il faticoso lavoro di ripensare la vicenda di Gesù e rifondare la fede in Lui. Questa rimane la sfida aperta anche per noi, che facciamo memoria di quella Pasqua. Siamo chiamati a riprendere in mano le Scritture per riesaminare il senso della vita di Gesù.
Come i due discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35), pur dovendo fare i conti con le delusioni e gli inevitabili fallimenti della vita, proviamo a discutere insieme e lasciamo che il Maestro si accosti e ci accompagni lungo il cammino (vv. 15-17). Lui ci spiegherà le Scritture (v. 27), infiammerà il nostro cuore e ci aprirà gli occhi (vv. 31-32). La Pasqua è una scuola di sapienza, che ci invita a guardare più a fondo la vita di Gesù e la nostra e che ci sollecita a rinnovare l’amicizia con quel Signore che è vivo e continua a condividere il difficile mestiere di vivere.
Montaigne, parlando di un suo amico, ha scritto: «Se mi si obbligasse a dire perché l’amavo, sento che ciò si potrebbe esprimere solo rispondendo: ‘Perché era lui, perché ero io’». E’ questa la posta in gioco: capire chi è Gesù e chi siamo noi, per vivere più a fondo quell’amicizia che può ancora oggi illuminarci, come in quel mattino di Pasqua.
PASQUA 2014
Lo stupore dei bambini e l’angoscia degli adulti: due sguardi opposti sulla realtà, e tuttavia entrambi necessari per comprendere il Dio Crocefisso e Risorto. Gesù ci manifesta il volto di un Dio che ci ama più di se stesso. Che non pretende da noi sacrifici: piuttosto è Lui stesso a sacrificarsi per noi, nonostante i nostri tradimenti. E’ Padre e Madre, che sulla croce allarga le sue braccia per abbracciarci tutti. Ma proprio questo amore per noi porta Gesù a condividere i nostri abissi, fino a sperimentare l’essere abbandonato da Dio. L’amare fino in fondo (Gv. 13,1) passa attraverso l’angoscia mortale (Mc. 14,34). Per vivere in profondità la Pasqua, ci lasciamo aiutare dalla testimonianza di una nostra sorella per ritrovare lo stupore; ed insieme da una poesia che ci parla dell’abisso sperimentato da Gesù.
PICCOLA, GRANDE TESTIMONE
Mia nipotina Alice è stata recentemente al Teatro Sociale di Bellinzona, assieme a sua mamma e suo fratello Elia, per vedere uno spettacolo: “Mummenschanz for familie”. Insieme a loro c’era anche un’amica di Caterina con il suo figlio più piccolo Mosè dell’età di Alice. Alice era molto entusiasta e piena di gioia in attesa dello spettacolo. Ad un certo punto Alice abbraccia il suo piccolo amico e piena di gioia gli dice il Massimo dei più bei pensieri: “Mosè, Gesù ama tutti!” Alice, vorrei imparare da te: abbracciare quelli che mi sono accanto e dire loro, come hai fatto tu, il Massimo delle cose più belle da dire: Gesù ama tutti.
(Hanna Di Fortunato)
A stento il Nulla
No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera
è al venerdì santo
quando Tu non c’eri
lassù!
Quando non una eco
risponde
al suo alto grido
e a stento il Nulla
dà forma
alla tua assenza.
(DAVID MARIA TUROLDO, Canti Ultimi)
FEBBRAIO 2014
Per noi che stiamo riflettendo sull’arte del “ricominciare dall’inizio”, le prime settimane del nuovo anno assumono un valore simbolico: sono un invito a riprendere il cammino, con la sapienza di chi riflette a fondo sulla vita e con la fede in quel Dio che non ci abbandona. Le parole poetiche di Pessoa, la preghiera “colorata” e la testimonianza di due di noi ci dicono come metterci in marcia, “di inizio in inizio”.
“Di tutto restano tre cose:
la certezza
che stiamo sempre iniziando;
la certezza che abbiamo bisogno di continuare;
la certezza
che saremo interrotti prima di finire.
Pertanto, dobbiamo fare:
dell’interruzione,
un nuovo cammino;
della caduta,
un passo di danza;
della paura,
una scala;
del sogno,
un ponte;
del bisogno,
un incontro”
Fernando Pessoa
Anche se il 2014 è già iniziato da diverse settimane, vorrei fare un augurio a tutti noi per il nuovo anno: “Riuscire a lasciar andare e affidarsi al Signore”. E’ un proposito che mi sono già fatta spesso (mi piace, e credevo di avere tutto sotto controllo), ma che purtroppo non riesco a mantenere nel tempo. Tutti, chi più e chi meno, siamo confrontati nella vita con fatti, avvenimenti, sfide che avremmo volentieri evitato. Ma la vita è così. Il mio 2013 è stanno un anno molto particolare. Ho avuto uno di questi momenti. Un punto di svolta nella propria vita, un momento che ti cambia, internamente, profondamente. Un momento che ti potrebbe abbattere, mettere a tappeto. Cercavo con le mie proprie forze di rimanere a galla, ma inutilmente. Ho dovuto lasciar andare, rischiando di affogare, ma così non è stato. Dio mi ha sorretto e naturalmente anche le preghiere e la vicinanza di parecchie sorelle e fratelli nella fede, vicini e lontani. Ho sentito, grazie a queste preghiere, la forza crescere in me.
Sto imparando (e non si finisce mai!) a fidarmi completamente del Signore. Io ho solo la mia piccola visione di formica della mia vita e credevo di sapere cosa fosse la cosa migliore per me e i miei familiari. Ma Dio ha la visione totale e ha tutto sotto controllo. Dobbiamo veramente crederci. Lo so, a volte è veramente difficile (come detto, parlo per esperienza propria), ma è la sua promessa a noi.
Mi trovo ancora nel bel mezzo di questa sfida, affronto giorno dopo giorno la vita e comincio anche a vedere gli aspetti positivi di ciò che mi è successo. Chissà allora quando avrò, se mai ce l’avrò, la visione totale! Grazie a questa nuova impronta che voglio dare alla mia fede, posso e voglio lodare Dio. Ogni scelta della mia vita ora, ogni richiesta, tutto insomma … lo metto nelle mani del Signore e chiedo che la Sua Volontà sia fatta. Perché ogni cosa tende al bene per quelli che amano il Signore.
Che il Signore vi benedica grandemente!
Una sorella della Comunità.
Signore,
Mi offri questo nuovo anno
come una vetrata da mettere insieme
con trecentosessantacinque pezzi
di tutti i colori,
che rappresentano i giorni della mia vita.
Inserirò il rosso del mio amore e del mio entusiasmo,
il viola delle mie pene e dei miei lutti,
il verde delle mie speranze,
ed il rosa dei miei sogni,
il blu od il grigio dei miei impegni e delle mie lotte,
il giallo e l’oro dei miei raccolti…
Serberò il bianco per i giorni ordinari…
ed il nero per quelli in cui mi sembrerai assente!
salderò il tutto con la preghiera della mia fede
e con la serena fiducia in Te.
Signore,
Ti chiederò soltanto di illuminare dall’interno
questa vetrata della mia vita,
per mezzo della luce della Tua presenza,
e per mezzo del fuoco del Tuo Spirito di Vita.
Così in trasparenza,
coloro che incontrerò quest’anno,
vi scopriranno, forse,
il volto del tuo Figlio Beneamato,
Gesù Cristo, il nostro Signore.
Amen.
2014
Buon anno! Ce lo auguriamo con gli scritti che trovate in questo bollettino. E pregando gli uni per gli altri.
Nell’anno in cui stiamo riflettendo sulla Bibbia come libro delle seconde volte, come Parola che ci sollecita a ricominciare ogni volta daccapo, domandiamo a Dio di saper scorgere nel nuovo anno un’ulteriore possibilità di vita, un dono da accogliere con gioia, superando la tentazione della sfiducia e dello scoraggiamento.
Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; non la riconoscerete? (Isaia 43,19).
Auguri, dunque, a quanti sono pronti a ripartire, con passione ed intelligenza!
Dai nostri lettori abbiamo ricevuto questi testi. Il primo ci riporta al Natale appena celebrato. Il secondo ci invita a scorgere la presenza di Dio, sempre discreta. Il terzo a misurarci con le nostre tenebre, che si oppongono alla luce divina.
UN SOGNO
Ho fatto un sogno:
Camminavo sulla spiaggia
fianco a fianco con il Signore.
I nostri passi si disegnavano sulla sabbia
lasciando una doppia orma,
la mia e quella del Signore.
E mi venne il pensiero – era un sogno –
che ogni orma rappresentava
un giorno della mia vita…
Mi sono fermato per guardare indietro,
ed ho visto tutte quelle tracce
che si perdevano lontane.
Ho rivisto il film della mia vita.
Oh sorpresa!
I punti ad orma unica
corrispondevano ai giorni più bui
della mia vita.
Giorni di angoscia e di svogliatezza,
giorni di egoismo e di cattivo umore,
giorni di prova e di ribellione,
giorni insopportabili
in cui sono stato insopportabile.
Allora rivolgendomi verso il Signore,
gli ho detto:
” Non mi avevi promesso
di essere con noi tutti i giorni?
Perché mi hai lasciato solo
nei momenti più difficili della vita?
Nei giorni in cui avrei tanto
avuto bisogno di Te? ”
Ed il Signore mi ha risposto:
” Amico,
i giorni in cui vedi una sola orma
sulla sabbia,
sono i giorni in cui
Io ti portavo “.
IL PEGGIOR PECCATO
Il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio ma l’indifferenza: questa è l’essenza della disumanità.
NATALE 2013
In quel tempo uscì un decreto da parte di Cesare Augusto, che ordinava il censimento di tutto l’impero. Questo fu il primo censimento fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi registrare, ciascuno alla sua città. Dalla Galilea, dalla città di Nazaret, anche Giuseppe salì in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme, perché era della casa e famiglia di Davide, per farsi registrare con Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre erano là, si compì per lei il tempo del parto; ed ella diede alla luce il suo figlio primogenito, lo fasciò, e lo coricò in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.
In quella stessa regione c’erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L’angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”». E a un tratto vi fu con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch’egli gradisce!». Quando gli angeli se ne furono andati verso il cielo, i pastori dicevano tra di loro: «Andiamo fino a Betlemme e vediamo ciò che è avvenuto, e che il Signore ci ha fatto sapere». Andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia; e, vedutolo, divulgarono quello che era stato loro detto di quel bambino. E tutti quelli che li udirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori. Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo. E i pastori tornarono indietro, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato loro annunziato (Luca 2,1-20).
Due ordini si confrontano nel racconto della nascita di Gesù, come del resto nelle nostre vite. Allora, come oggi, la voce che domina su tutte le altre è quella dell’imperatore che, a sua discrezione, decide e, di fatto, mette in moto tutte le persone. Anche Maria, Giuseppe eseguono l’ordine di Cesare Augusto, come l’intera popolazione dell’impero.
Accanto alla voce dominante, sentiamo anche un altro ordine: quello che l’angelo del Signore rivolge ai pastori. Quest’ultimo non suscita nessun spostamento di massa, almeno nel presente.
Il decreto imperiale si impone: chi non lo rispetta commette il crimine di lesa maestà e viene duramente punito. Il segno che l’accompagna è la potenza della macchina imperiale, che si avvale di governatori ed eserciti. L’annuncio dell’angelo si propone: non fa leva sul timore; anzi, desidera la felicità di coloro a cui si rivolge. Quanto al segno che lo avvalora, ecco il grande paradosso: come non vedere la sproporzione tra l’annuncio di una salvezza universale ed il segno che dovrebbe renderlo credibile? Troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia.
Il primo ordine, per quanto non ci possa piacere, si impone come una necessità: dobbiamo obbedire all’imperatore; non c’è via di scampo. Il secondo ordine suggerisce un movimento alternativo, che non mira a “farsi registrare” ma ad “andare a vedere”, “meravigliarsi”, “custodire una Parola diversa”.
Celebrare il Natale significa porsi di nuovo di fronte a questa alternativa: ci limitiamo ad essere comparse nel teatro ufficiale, seguendo il copione che l’imperatore di turno ci assegna? O invece, ci arrischiamo a guardare la vita con occhi nuovi, capaci di scorgere in un bambino il segno di un Dio che si fa quotidiano, che si nasconde nei dettagli, che scompagina i nostri progetti e ci sussurra di cercare la gioia più che la sicurezza ed il successo promessi dai potenti?
Il Natale cristiano ci mette di fronte a domande serie, su cui soffermarsi a lungo, in meditazione. Ci chiede di riconsiderare daccapo la direzione delle nostre esistenze: che ne stai facendo della tua vita? dove cerchi salvezza?
Auguri “pensosi” a tutti i cercatori di senso!
PAROLE CHE EDIFICANO
Il nostro Bollettino inizia a diventare uno spazio di condivisione, espressione di una chiesa polifonica, che non parla ad una sola voce. Certo, il pastore ha il compito di predicare la Parola: ma non è l’unico. I primi cristiani dicevano che ogni membro di chiesa è un “organo della Verità”.
In quest’anno in cui stiamo riflettendo sugli inizi sempre nuovi che la Scrittura ci propone, anche là dove noi saremmo tentati di lasciar perdere, ricominciamo anche ad edificarci gli uni gli altri, comunicandoci parole che toccano il cuore e illuminano la mente. Vogliamo far tacere la chiacchiera, il giudizio ed il lamento e tornare a dirci parole vere. Come quelle della preghiera che prende sul serio le tempeste della vita e, nello stesso tempo, guarda con fiducia al Dio che non ci abbandona. O come il senso di gratitudine per un raggio di sole insperato, protagonista di un breve racconto. O anche come le parole del poeta John Milton che, diventato cieco, scopre la vita sotto un’altra luce: quella della gratuità e dell’attesa.
Continuiamo a scambiarci parole buone, belle, sagge, che esprimano il gusto per la vita e la fede nel Dio che ci ha chiamati all’esistenza!
SALDI COME LE MONTAGNE
“Quando venti tempestosi soffiano contro di noi
rendi stabile e rinforza la nostra volontà,
ascoltaci per amore del Tuo nome,
tienici forti e mantienici saldi.
Saldi come le montagne che resistono
negli anni ad un silenzioso logorio,
cosi noi aspettiamo la Tua destra,
nella calma e nella circostanza della Fede.
Ma non la nostra forza, o Signore,
e non la nostra costanza:
la nostra fiducia è nella Tua parola eterna.
La Tua presenza è la nostra sicurezza.”
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UN RAGGIO DI SOLE
Anno 3015: nella terra, c` è ancora disoccupazione, guerra, fame e disperazione.
In un piccolo paese vicino ad una cittadina, una semplice famiglia con figli tira avanti.
Per i mesi estivi il figlio ha cercato lavoro, ma le sue e-mail non hanno ricevuto una risposta
positiva.
Ma proprio quando le speranze erano ridotte al minimo, un raggio di sole ha attraversato la
stanza e una risposta è arrivata: “ Ti prendiamo a lavorare per un mese”!
Non sembra, ma Dio è vicino e caloroso come quel raggio!
On his blindness
Quando io penso a come la mia luce è spenta,
non ancora a metà della mia vita, in questo mondo scuro e grande,
e a come quel talento che è peccato mortale tener celato
sia collocato presso di me, inutilizzato, per quanto la mia anima sia sempre più incline
a servire con quello il mio Creatore, e a presentare
un rendiconto esatto, per paura che Lui, tornando, mi sgridi,
allora chiedo scioccamente: “Ma Dio chiede conto del lavoro fatto,
anche a chi come me non ha luce?”, allora la Pazienza, per fermare
quel mormorio, presto risponde: “Dio non ha bisogno
né delle opere dell’uomo né delle sue offerte; chi meglio
sopporta il Suo giogo gentile, quello Lo serve meglio. La Sua condizione
è regale: migliaia al Suo comando corrono
e si affrettano per mare e per terra senza sosta.
Ma Lo servono anche coloro che semplicemente stanno fermi e attendono”.
DI INIZIO IN INIZIO
Quest’anno vogliamo riflettere su come sia possibile riprendere il cammino, dopo un incidente, uno sbandamento, un fallimento. La Bibbia non descrive i credenti come degli eroi tutti d’un pezzo. Anzi, sembra che per tutti la prima volta non funzioni mai, che sia sempre necessario ricominciare daccapo: di inizio in inizio. Per comprendere questa anima profonda del testo biblico, ci può aiutare la seguente riflessione:
“Niente tiene: sembra che sia questo assunto ad unire la grande narrazione biblica fin dalle prime battute. Un libro antico, ma anche postmoderno, che riflette sul mondo, su Dio e sulle relazioni umane, prime fra tutti quelle affettive, familiari, proprio a partire da questa esperienza di fragilità.
Niente tiene: non tiene la creazione, nonostante sia stata creata buona e bella e accompagnata, al suo sorgere, dalla benedizione divina. Non è sufficiente questo incipit ad impedire che il creato affoghi in un mare di guai.
Niente tiene: non tengono le relazioni familiari, incrinate dal sospetto e dalla gelosia. Anche la realtà più fertile, come quella di un giardino delle delizie, può essere deformata dal sospetto strisciante. Non tengono le relazioni tra fratelli che facilmente degenerano nell’odio, fino al fratricidio.
Niente tiene: non durano gli idoli, costruiti da mano umana, ma nemmeno la parola divina incisa nella pietra direttamente per mano di Dio (le tavole spezzate); non tiene persino il progetto di terra promessa. Israele scopre che, in poco tempo, ha riprodotto nel suolo donato le stesse strutture oppressive da cui era fuggito. L’Egitto lo scopre dentro di sé.
Nella Scrittura vengono messe in scena le promesse che, di volta in volta, precipitano, i progetti continuamente abortiti… Niente tiene, tutto rischia di affogare nel caos. Prima ancora della sociologia, la Scrittura racconta la società “liquida”, l’incapacità di rimanere nella fedeltà affettiva ed etica. E, insieme, tesse un controcanto alla rigidezza del cuore che trasforma in pietra la relazione, riducendo Dio a idolo.
Il mondo, la vita sono fragili. Ma Dio è colui che continuamente, di fronte a storie, legami che precipitano, riapre possibilità. Ecco perché la Bibbia è il libro dei nuovi inizi, delle seconde volte, dell’altra possibilità, del tempo sospeso perché l’altro si converta e cambi vita.
La storia biblica non ha l’andamento dell’epopea; il suo stile proprio emerge nelle tante riprese, nei nuovi inizi, in una storia fragile ma sempre aperta perché tenuta aperta da Dio che non si rassegna a buttare via questa fragilità” (Lidia Maggi).
Alla scuola delle Scritture, proveremo ad apprendere la sapienza delle seconde volte, vincendo la tentazione di mollare il colpo, di arrenderci e aprendoci alla speranza di un Dio che con tenacia ci tende la mano, ci invita a rialzarci e cammina con noi.
RIPARTIRE
La nostra storia personale, come quella dell’umanità, ci mette di fronte a scenari che cambiano, a sfide nuove, ad eventi imprevisti.
Ma nello stesso tempo, la nostra vita segue un ritmo più ripetitivo e meno soggetto al cambiamento.
Ci raccontiamo che cosa ci è successo ultimamente, gli incontri fatti, le nuove esperienze vissute. Ma tutto questo avviene all’interno di un quadro segnato da alcune costanti: il tempo del lavoro, il succedersi delle stagioni, il riproporsi ogni giorno di gesti ripetitivi.
La ripresa delle attività di una chiesa, dopo la pausa estiva, incrocia questi due aspetti del tempo: quello personale, legato a quanto stiamo vivendo ora, nell’ultimo quarto del 2013; e quello del calendario, che ogni anno prevede a settembre la ripresa.
Per cui, da una parte la ripartenza è un tema fisso, che ci troviamo ad affrontare senza possibilità di scampo; dall’altra, ogni ripresa è differente, assume il colore degli umori del momento, delle preoccupazioni e delle fatiche, come anche dei sogni e dei progetti che ci animano.
Per riprendere il cammino, è necessario muovere questi due piedi, in modo tale che il nostro andamento sia insieme personale e comunitario.
E lungo quale strada muoviamo i nostri passi? Se siamo una chiesa, il percorso è quello che ci ha indicato Gesù. Siamo generati dalla sua Parola (1Pietro 1,23). Ed è unicamente questa Parola che desideriamo ascoltare, per farla risuonare sia nella nostra vita personale che in quella della nostra comunità.
E’ la Parola che, oltre ad indicarci il cammino, ci dà la forza di percorrerlo, ci risolleva ogni volta che cadiamo, ci incoraggia a fare della ripartenza uno stile di vita.
Auguriamoci, dunque, gli uni gli altri “buon cammino”.
Un’ultima veloce riflessione. In italiano, il verbo “ripartire” ha un felice duplice significato: quello più immediato della ripresa, dopo una sosta; ma anche quello di fare le parti, dividere i doni e le responsabilità.
Che ognuno, secondo la propria misura e le proprie forze, possa fare la sua parte, da protagonista, con coraggio e fedeltà!
LUCIDARE LE POSATE
Mia madre che lucidava di continuo le posate
di Josip Osti
Mia madre che lucidava di continuo le posate,
adesso sola in mezzo a Sarajevo,
malgrado che in una città senz’acqua, cibo ed elettricità
i cucchiai, le forchette e i coltelli e tante altre cose
abbiano perso il significato di una volta,
continua a farlo.
Scopa le schegge delle finestre in frantumi
e la polvere dalle pareti sgretolate dagli shrapnel,
si mette in grembo il nostro gatto siamese, vecchissimo ormai,
e lustra le posate.
Le lucida fino a quando il loro splendore non l’acceca,
assopendola anche, stanca morta delle lunghe veglie passate.
Ridestandosi, a uno sparo reale o sognato,
intravede nel cucchiaio lucente il suo viso sfigurato, esausto e troppo presto invecchiato.
Un viso che per giorni metteva insieme,
quando in ginocchio sul pavimento come in chiesa
raccoglieva i frammenti dello specchio rotto.
E continua a lustrare le posate.
Le posate che nella guerra precedente lucidava allo stesso modo sua madre,
convinta che verrà il giorno in cui nello specchio del metallo
scorgerà le facce sorridenti dei famigliari,
riuniti tutti fino all’ultimo come il giorno del suo matrimonio.
Alla scuola delle Scritture apprendiamo che la fede non è questione di un momento. Con Dio si vive una vera relazione, che si distende nel tempo, che attraversa momenti felici e tempi difficili, che si esprime nel canto come nel lamento.
Nel nostro immaginario, invece, credere coincide unicamente con lo sperimentare salvezza: Dio è più forte di tutti i nostri problemi e con Lui si risolve ogni difficoltà. Per molti la fede coincide con l’happy end. Chi crede sa che tutto finisce bene.
Più che un dialogo autentico, di cui non conosciamo l’esito, la fede sembra una partita a carte truccate, di cui sappiamo già il risultato. Niente di tutto questo nella Bibbia. Nelle pagine di quel Libro pulsa la vita vera, con le sue gioie ed i suoi dolori, senza semplificazioni.
La nostra storia con Dio non si svolge al riparo delle intemperie: non è un fiore di serra. Molti di noi stanno vivendo momenti faticosi; altri li hanno affrontati in passato. Cosa vuol dire vivere la fede in tempi difficili? Ci sono momenti in cui tutto crolla e va in frantumi. E non si scorgono all’orizzonte vie d’uscita. Come nella testimonianza da Sarajevo riportata sopra. In queste situazioni, credere non vuol dire far finta di niente, confidando che Dio sistemerà tutto. Certo che abbiamo questa speranza. Certo che dobbiamo invocare il suo aiuto. Ma a noi è chiesto di “spazzare le schegge” e “lucidare le posate”. Ovvero, di provare a mettere ordine nel disordine e di attendere con tenacia il nuovo giorno.
La fede è anche una sapienza per fare i conti con la crisi. Non una bacchetta magica ma quella forza interiore che non si arrende mai. Perché, come scrive il pastore Bonhoeffer, essere pessimisti è più saggio: si dimenticano le delusioni e non si viene ridicolizzati davanti a tutti. Perciò presso le persone sagge l’ottimismo è bandito. L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tener alta la testa quando sembra che ogni cosa vada per il verso sbagliato, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé. Esiste certamente anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere bandito. Ma nessuno deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando dovesse condurre cento volte all’errore. Esso è la salute della vita, che non deve essere infettata da chi è malato. Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba del giudizio universale: allora, non prima, noi deporremo volentieri l’opera per un futuro migliore.
ISPIRATI DALLO SPIRITO DI DIO
Quest’anno stiamo provando a ripensare “la nostra storia con Dio”. Le storie di alcuni personaggi biblici ci fanno da “specchio”: nel loro entusiasmo, come nelle loro crisi, riconosciamo tratti del nostro cammino. Inoltre, quei racconti che leggiamo nelle Scritture sono per noi anche una “finestra”: ci spalancano nuovi orizzonti, ci offrono altre chiavi di lettura.
Rileggendo queste storie della Bibbia, impariamo che nella vita esistono alcuni momenti speciali. Momenti quotidiani, certo, ma che si smarcano dalla routine. Momenti nei quali non succedono cose straordinarie, se non che riusciamo a percepire la nostra vita più a fondo, con uno sguardo sapiente. Sono momenti “ispirati”, dove lo Spirito ci guida alla verità di noi stessi, oltre l’immagine pubblica, al di là delle apparenze.
Fare memoria della Pentecoste, significa credere che quello Spirito che ha guidato Gesù continua ad ispirare la vita di chi non gli oppone resistenza. Significa saper leggere oltre la superficie degli eventi, discernere una vera presenza che traccia un cammino. E dunque, vivere oggi la Pentecoste vorrà dire rallentare l’andatura, fermarsi e provare a guardare con uno sguardo ispirato quegli eventi che, ad uno sguardo superficiale, risultano essere grigia cronaca.
I credenti sono persone ispirate, come i poeti. Abitate da uno Spirito che rende speciale l’ordinario; che ci rapisce e ci conduce lungo vie che neppure mettevamo in conto. Come dice Isaia: i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie», dice il SIGNORE. «Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri.
Lo Spirito, però, ci aiuta a leggere le stranezze della vita come Parola efficace di Dio. Ascoltiamo come prosegue il discorso di Isaia: Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata (Isaia 55:8-11).
Lo Spirito non è un dopante, che permette performance straordinarie. E’, piuttosto, la forza di uno sguardo vero, capace di leggere la presenza di Dio anche nei giorni difficili, quando imperversano le tenebre. Chi si lascia guidare dallo Spirito saprà vivere ogni evento della vita come dono e far sua questa antica preghiera:
“Gli ho chiesto la forza
e Dio mi ha dato difficoltà per rendermi forte.
Gli ho chiesto la saggezza
e Dio mi ha dato problemi da risolvere.
Gli ho chiesto la prosperità
e Dio mi ha dato muscoli e cervello per lavorare.
Gli ho chiesto il coraggio
e Dio mi ha dato pericoli da superare.
Gli ho chiesto l’Amore
e Dio mi ha affidato persone bisognose da aiutare.
Gli ho chiesto favori
e Dio mi ha dato opportunità.
Non ho ricevuto molto di ciò che volevo
ma tutto quello di cui avevo bisogno.
La mia preghiera è stata ascoltata”.
Buona Pentecoste!
PICCOLE RESURREZIONI QUOTIDIANE
I discepoli del Risorto credono che non solo il loro Signore ha vinto la morte ma che, al suo seguito, anche noi possiamo risorgere fin da ora, mentre siamo ancora su questa terra. Come diceva il pastore Bonhoeffer: “non si può credere alla resurrezione dei morti, se prima non si crede alla resurrezione dei vivi”. La vita nuova inizia già qui: la fede si traduce nel credere che sono possibili piccole resurrezioni quotidiane. Perlopiù legate non a grandi eventi, a conversioni spettacolari ma all’insistenza nel cercare la vita, alla pazienza di chi non si scoraggia dei propri fallimenti (che sono delle piccole morti), alla tenacia nel ricominciare sempre daccapo. Come nel racconto che segue, che ha per protagonista un ladro. E’ Gesù stesso a promettere al ladro crocefisso al suo fianco che sarebbe stato con Lui in Paradiso (Luca 23,39-43). E oggi lo ripete a ciascuno di noi. A patto di continuare a bussare alla porta della vita.
Un ladro in paradiso
Un ladro arrivò alla porta del Cielo e cominciò a bussare: «Aprite!». L’apostolo Pietro, che custodisce le chiavi del Paradiso, udì il fracasso e si affacciò alla porta. «Chi è là?». «Io». «E chi sei tu?». «Un ladro. Fammi entrare in Cielo». «Neanche per sogno. Qui non c’è posto per un ladro». «E chi sei tu per impedirmi di entrare?». «Sono l’apostolo Pietro!». «Ti conosco! Tu sei quello che per paura ha rinnegato Gesù prima che il gallo cantasse tre volte. Io so tutto, amico!». Rosso di vergogna, Pietro si ritirò e corse a cercare Paolo: «Paolo, va’ tu a parlare con quel tale alla porta». Paolo mise la testa fuori della porta: «Chi è là?». «Sono io, il ladro. Fammi entrare in Paradiso». «Qui non c’è posto per i ladri!». «E chi sei tu che non vuoi farmi entrare?». «Io sono l’apostolo Paolo!». «Ah, Paolo! Tu sei quello che andava da Gerusalemme a Damasco per ammazzare i cristiani. E adesso sei in Paradiso!». Paolo arrossì, si ritirò confuso e raccontò tutto a Pietro. «Dobbiamo mandare alla porta l’Evangelista Giovanni» disse Pietro. «Lui non ha mai rinnegato Gesù. Può parlare con il ladro». Giovanni si affacciò alla porta. «Chi è là?». «Sono io, il ladro. Lasciami entrare in Cielo». «Puoi bussare fin che vuoi, ladro. Per i peccatori come te qui non c’è posto!». «E chi sei tu, che non mi lasci entrare?». «Io sono l’Evangelista Giovanni». «Ah, tu sei un Evangelista. Perché mai ingannate gli uomini? Voi avete scritto nel Vangelo: “Bussate e vi sarà aperto. Chiedete ed otterrete”. Sono due ore che busso e chiedo, ma nessuno mi fa entrare. Se tu non mi trovi subito un posto in Paradiso, torno immediatamente sulla Terra e racconto a tutti che hai scritto bugie nel Vangelo!». Giovanni si spaventò e fece entrare il ladro in Paradiso.
Buona Pasqua a tutti!
PASQUA
“Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio”.
Così scriveva Etty Hillesum, un’ebrea olandese di Amsterdam, una domenica mattina del 1942, mentre fuori infuriava la persecuzione nazista.
Sono affermazioni strane, quelle di Etty. Normalmente, sono i credenti a chiedere a Dio di aiutarli: è Lui il Salvatore; noi, quelli che hanno bisogno di essere salvati. Eppure, sotto la croce, i cristiani incontrano un Dio debole, condannato come il peggiore dei criminali. Un Dio fragile che gli esseri umani possono respingere, eliminare. Così è stato duemila anni fa e così continua a succedere ogni volta che, travolti dal male e dalle ingiustizie del mondo, disperiamo anche di Dio e ci arrendiamo al più forte. Quante volte, pur dichiarandoci credenti, pensiamo che nel mondo regni soltanto la legge della giungla e che sia inutile nutrire la speranza di un mondo diverso, sollevato dal lievito dell’evangelo.
Le considerazioni di Etty ci spingono a vivere la Pasqua non con l’atteggiamento di chi delega la salvezza a Dio, riducendo la croce ad un talismano che agisce in automatico. Tocca a noi salvare il Dio che salva! Il Dio di Gesù ci domanda di non lasciarlo solo, di non dormire, mentre imperversa il male. Sentiamo nostre le parole rivolte a Pietro al Getsemani: «Simone! Dormi? Non sei stato capace di vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Marco 14,37-38). Ed anche le parole di Etty: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda e in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo”.
Signore, siamo deboli: la nostra fede è così poca che, di fronte alle difficoltà della vita, fuggiamo e scarichiamo su di Te ogni responsabilità. Donaci una fede matura, che sappia resistere nell’ora della tentazione, conservando un piccolo pezzo di Te in noi stessi. Allora la tua pasqua sarà anche la nostra. E anche noi vivremo, fin da ora, quella vita nuova che Tu hai promesso ai tuoi discepoli.
IL PUNTO NERO
La Bibbia non è un libro ideologico, che per parlare di Dio dimentica la dura realtà. Fin dall’inizio della narrazione biblica, entrano in scena il conflitto e la morte. Dio si relaziona con un’umanità in crisi, accompagnandola anche quando cammina “nella valle dell’ombra della morte” (Salmo 23).
Guardare in faccia il male, saperlo riconoscere e fronteggiare fa parte della sapienza biblica: nessuna mistificazione della realtà è richiesta al credente.
Per questo patiamo con chi soffre. Per questo non possiamo non sentire la fatica di vivere nei giorni difficili in cui, di fatto, ci troviamo. Ma nello stesso tempo, apprendiamo dalla sapienza biblica quella forza di resistenza che ci permette di non farci schiacciare dal peso del negativo. Il male c’è, ma non occupa tutta la scena (né quella storica, né quella individuale). Saper scorgere i segni della presenza del bene, dei doni di Dio, è la prima mossa per contrastare il male. Leggete l’episodio riportato qui di seguito: esprime bene il nostro abituale sguardo sulla realtà e, insieme, la necessità di allargare questo sguardo, di avere occhi penetranti.
Un giorno un insegnante arrivò in classe e disse agli studenti di prepararsi per un quiz a sorpresa.
Tutti erano nervosi, spaventati dalla prova imminente. Mentre l’insegnante stava distribuendo un foglio chiese di non guardare il foglio, fino a quando lui non avesse dato il via alla prova. Una volta che tutti i fogli furono distribuiti diede l’autorizzazione a voltare il foglio e vedere il contenuto.
Con grande sorpresa di tutti si trattava di un foglio bianco con in mezzo un punto nero. Vedendo il volto sorpreso di tutti i suoi studenti, il professore disse: “Ora scrivete una riflessione su ciò che state vedendo”.
Tutti i giovani, confusi, cominciarono a pensare e scrivere su ciò che vedevano.
Trascorso il tempo, l’insegnante raccolse i fogli, li pose sulla scrivania e cominciò a leggere ad alta voce quanto gli studenti avevano scritto.
Tutti, senza eccezione avevano fatto una relazione sul punto nero, con le più diverse considerazioni.
Dopo la lettura, disse:
“Questo test non servirà per il voto, ma come lezione di vita. Nessuno ha parlato della pagina bianca, avete dedicato tutta la vostra attenzione al punto nero. E’ ciò che accade nella nostra vita. La vita è un foglio interamente bianco da vedere e godere, ma ci concentriamo sui punti neri.
La vita è un dono della natura, ci è data con affetto e amore, abbiamo tante ragioni per far festa per gli amici che ci sostengono, il lavoro che ci sostiene, i miracoli che accadono ogni giorno, eppure insistiamo a guardare il punto di nero, i problemi di salute, la mancanza di soldi, il difficile rapporto con i familiari, una delusione con il partner, con un amico …
I punti neri sono minimi rispetto a quello che ci viene donato ogni giorno, eppure occupano la nostra mente in ogni momento. Cercate di prestare attenzione a tutta la pagina bianca e non solo ai punti neri. Cogliete ogni benedizione, ogni momento che la vita ci sta offrendo, state tranquilli, abbiate fiducia, datevi da fare, «esistete», vivete felici”.
NATALE: DIO C’È
La Sacra Scrittura non è un prontuario, un catechismo, ma la narrazione di tante storie. Dio non si fa catturare in definizioni; piuttosto, lo possiamo incontrare in una storia. La fede non è l’attimo fuggente di un’intensa esperienza religiosa. Nella Bibbia, come nella vita di ogni credente, la relazione con Dio avviene in una storia.
E tuttavia, esiste come un filo rosso che attraversa la trama della narrazione biblica e che prova a dire con poche, essenziali parole quale sia l’identità del protagonista del racconto. Ad un capo di questo filo, troviamo la rivelazione che Mosè riceve al pruno che brucia senza consumarsi. Di fronte alla difficile missione affidatagli da Dio, di andare dal faraone con la richiesta di far uscire Israele dalla terra di Egitto e di convincere il popolo, Mosè domanda: «Ecco, quando sarò andato dai figli d’Israele e avrò detto loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi”, se essi dicono: “Qual è il suo nome?” che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono». Poi disse: «Dirai così ai figli d’Israele: “l’IO SONO mi ha mandato da voi”» (Esodo 3,13-14).
La traduzione di questa auto-presentazione di Dio nelle lingue non semitiche – il greco, il latino, come anche l’italiano – non aiuta a comprendere il significato di questo biglietto da visita divino. In ebraico, infatti, il verbo essere equivale al nostro “esserci”. Dio si presenta come Colui che c’è, che è presente, che cammina con il suo popolo, accompagnandolo nelle diverse situazioni che dovrà affrontare. “Colui che è Presente”: proprio l’opposto di una divinità distaccata, che risiede nell’Olimpo e si limita a guardare dall’alto in basso le ingarbugliate vicende umane. Il seguito della narrazione, sia quella raccontata nel Libro dell’Esodo, sia quella che abbraccia l’intera Bibbia ebraica, esprime questo volto di Dio che non si estranea dalla storia, prendendosi cura del suo popolo.
All’altro capo del nostro filo rosso, troviamo Gesù di Nazaret, che l’evangelista Matteo ci presenta identico al Dio di Mosè: è il “Dio-con-noi”.
Ma cosa significa che, in Gesù, Dio è con noi? Matteo inizia e conclude con queste parole.
Proviamo a soffermarci, almeno un attimo, sulle due soglie del racconto.
Nella prima, troviamo un Giuseppe spiazzato dalla situazione, che cerca di agire con giustizia. Che fare con una fidanzata messa incinta da altri? Mentre pensa di rompere il fidanzamento, senza esporla ad infamia, ecco l’annuncio: un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua moglie; perché ciò che in lei è generato, viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati». Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele», che tradotto vuol dire: «Dio con noi» (Matteo 1,20-23).
Il Dio-con-noi viene a condividere la nostra storia e ad accompagnare gli incerti passi umani non confermandoci nei nostri progetti ma spiazzandoci. Da Abramo in poi, la condizione del credente è quella di fuoriuscire dai territori conosciuti per percorrere le strade indicate da Dio. Noi abbiamo ridotto la fede alla stregua di una polizza assicurativa: Dio serve per la buona riuscita dei nostri propositi. Dio è con noi, nel senso che sostiene quanto desideriamo fare. Questo modo di intendere la presenza di Dio ha trovato la sua traduzione più aberrante sotto il regime nazista, i cui soldati portavano scritto sul cinturone la traduzione tedesca del nostro testo: Gott mit uns! Matteo, mentre ci introduce nel suo racconto, ci ricorda che le vie di Dio non sono le nostre vie (cfr Isaia 55,8-9).
Nella soglia finale, Gesù risorto si avvicina ai discepoli dicendo: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (Matteo 28,16-20).
Colui che è diventato discepolo di Gesù (un compito che dura tutta la vita!), dovrà farsi carico degli altri, facendo in modo che tutti possano sperimentare la salvezza. Gesù ci accompagna, assicurandoci la sua presenza costante, fedele, in ogni momento: nei giorni luminosi come in quelli tristi, quando si cammina spediti e quando si deve affrontare la crisi.
All’inizio come alla fine, il Dio-con-noi ci mette in movimento, ci invita ad andare, varcando i confini del nostro piccolo io e battendo i sentieri che Lui stesso ci indicherà. Non saremo soli in questo viaggio: Lui è con noi.
TRA DELEGA E PROTAGONISMO
Le nostre vite si svolgono all’interno di un preciso orizzonte culturale. Anche se ognuno di noi ha una propria personalissima storia ed è originale rispetto agli altri, ci accomuna il respirare la medesima aria, l’essere figli di questa società. L’ambiente nel quale ci muoviamo è in continua evoluzione; tutto è accelerato e lo scenario muta nel giro di pochi anni. Se fino a qualche decennio fa, la cultura ambiente ci spronava alla partecipazione diretta, ad essere protagonisti sulla scena sociale, oggi, all’opposto, siamo succubi della cultura della delega, che fa di noi degli spettatori. Pur di non essere disturbati, lasciamo che siano altri ad occuparsi della politica, dell’economia, della scuola, della fede…
Certo, deleghiamo perché è comodo farlo. Pensiamo anche solo alla programmazione di un viaggio in auto: se ci pensa il navigatore ad indicarci il percorso, possiamo risparmiarci la fatica di studiare la cartina. Deleghiamo, anche, perché non si può fare tutto: io faccio la mia parte; altri pensino al resto. Tutto vero. Anzi, persino inevitabile: non siamo mica onnipotenti! Però, dietro il “realismo” che ci suggerisce di ridimensionare gli impegni, si nasconde il pericolo di perdere il gusto di provare, di metterci in gioco, di accettare le sfide della vita. E c’è anche quell’eccesso di prudenza che ci spinge a non far più niente, se non siamo sicuri di essere all’altezza, di avere tutti gli strumenti necessari, di poter contare su un sicuro esito positivo.
La fede, al contrario, è scommessa. O meglio, la fede biblica, perché esiste anche un’altra versione della fede, che delega tutto a Dio e rende passivi i fedeli. Non così Abramo, il quale per fede, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava (Ebrei 11,8-9). Per Abramo fidarsi di Dio significa mettersi in cammino e rischiare.
Il credente, che non è un ingenuo, sa che nella vita si corre sempre il pericolo di essere ingannati dagli altri, come anche di fallire rispetto ai propri ideali. E nonostante questo, non si tira indietro, accetta il rischio. Osa esporsi, assumendosi le proprie responsabilità.
La fede in Dio si traduce in fiducia in se stessi, negli altri, nella vita. Chi crede è chiamato a diventare protagonista umile e coraggioso, per impastare con le sue stesse mani la pasta della vita quotidiana con il lievito del Regno di Dio.
Senza mai sentirci noi i salvatori del mondo (“Dio ci salvi dai salvatori”!), mettiamo a frutto i nostri talenti, superando la tentazione della delega ed impegnandoci in prima persona, come discepoli che cercano di fare, qui ed ora, la volontà di Dio.
POLIGLOTTI
In questo periodo dell’anno, tra le varie attività previste nel menù di ogni città, vengono pubblicizzati i corsi di lingua straniera. Inserzioni sui giornali, cartelloni affissi ai muri, pubblicità su televisioni e su internet invitano le persone a riservare del tempo e ad investire del denaro per apprendere una nuova lingua. La cosa è del tutto comprensibile in una società globalizzata come la nostra, nella quale la possibilità di comunicare col maggior numero di persone è diventata importante, non solo dal punto di vista economico.
Come cristiani, non possiamo non essere sensibili alla questione delle lingue. Ci contraddistingue, infatti, l’ascolto di una Parola “straniera”, quella di Dio, che desidera essere compresa da tutti. I discepoli di Gesù, fin dall’inizio, si sono preoccupati di rendere comprensibile l’evangelo, scrivendo nella lingua più diffusa di allora – il greco – un messaggio che era risuonato inizialmente nell’idioma ebraico. E nelle prime comunità cristiane il “parlare in lingue” veniva considerato un dono divino.
Nel nostro modo un po’ magico di comprendere la fede, l’attenzione si concentra sul fatto straordinario dell’esprimersi in lingue non imparate sui banchi di scuola, sul dire parole incomprensibili che pensiamo sia lo Spirito a suggerire. L’apostolo Paolo, non senza fatica, ha provato a chiarire la questione ai cristiani di Corinto, che, come noi, ne fraintendevano il significato: se io venissi a voi parlando in altre lingue, che vi servirebbe se la mia parola non vi recasse qualche rivelazione, o qualche conoscenza, o qualche profezia, o qualche insegnamento?Io ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi;ma nella chiesa preferisco dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua (1Corinzi 14,6.18-19).E ancora: Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo (1Corinzi 13,1).
Capite bene che il problema non è “fare colpo” perché si dicono cose strane. La posta in gioco sta nel saper tradurre nei vari linguaggi umani quella Parola di vita che abbiamo ricevuto; e di farlo con amore, non con presunzione o in modo giudicante.
Abbiamo iniziato il cammino di quest’anno provando a raccontarci “la nostra storia con Dio”. Una storia plurale, espressa con linguaggi differenti: quello del sentirsi amati ed in pace, accanto alla ricerca inquieta di un senso; il linguaggio etico del fare i conti con i propri limiti e quello dello stupore e della gratitudine per i tanti doni ricevuti; l’incontrare Dio come momento di maturità e compimento dei tanti desideri e, insieme, il sentirsi dei principianti, all’inizio di un’avventura tutta da vivere…
Nelle nostre vite, come del resto succede anche nelle Scritture, l’esperienza di Dio viene raccontata in tante lingue. Il non pensare che la nostra lingua madre sia l’unica; la fatica nell’apprendere altre lingue con cui viene detta la fede; la curiosità di ascoltare le storie degli altri; il lasciarci istruire da sorelle e fratelli che parlano linguaggi differenti: questa è la sfida da raccogliere. Vincendo le paure, superando i comodi provincialismi che fanno della fede solo un’esperienza di conferma e non più un cammino di apertura e conversione.
Sapremo essere una comunità poliglotta? Proviamo, almeno, ad iscriverci al miglior corso in circolazione per l’apprendimento delle lingue: quello fornitoci dalla Bibbia. Alla scuola delle Scritture, ascolteremo e mediteremo sui tanti modi con cui si può incontrare Dio. Se non diserteremo i corsi (!), impareremo ad essere meno giudicanti e più capaci di comprendere gli altri e le loro lingue.
LA NOSTRA STORIA CON DIO
A settembre riprendono le varie attività, in parte interrotte per la pausa estiva. Ed ogni anno, giunti al termine dell’estate, torniamo ad interrogarci sul senso di questa ripresa, a cui vorremmo sfuggire ma che ci tocca affrontare. Quest’anno vi propongo di riflettere sul fatto che le riprese non sono tutte uguali. A volte abbiamo l’impressione che tutto si ripeta, come il ciclo delle stagioni: dopo l’estate, ecco l’autunno e poi l’inverno, la primavera e di nuovo l’estate. Finché vivremo, sappiamo che sarà sempre così, che c’è un tempo ciclico che continua a riproporre lo stesso scenario. Ma le nostre vite, che si esprimono avendo alle spalle questo scenario fisso, non si iscrivono in una logica ripetitiva, dove tutto è sempre uguale. Noi abbiamo una storia. Anzi, siamo storia. Siamo fatti di eventi spesso imprevedibili; affrontiamo situazioni che mai avremmo immaginato. Ed anche quegli ingredienti della nostra vita che si ripetono, li viviamo in modo diverso a seconda della stagione della vita che stiamo attraversando, dei diversi stati d’animo, delle passioni che nutriamo, delle relazioni che intessiamo…
Avere uno sguardo “storico”, significa saper scorgere in prospettiva i giorni della nostra vita, intuendo che non ce n’è uno uguale all’altro. E giungere così ad interrogarsi sul cammino fatto e su quali sfide il nostro presente ci domanda di affrontare.
Questo vale anche per quella particolare esperienza di vita che chiamiamo fede. Anche con Dio ciascuno di noi ha una storia, fatta di alti e bassi, di entusiasmi e dubbi. La fede non può essere ridotta a compiere dei gesti religiosi sempre uguali nei confronti di un Dio pensato come “motore immobile”. Gli esseri umani si incontrano con Dio nel tempo, vivendo una relazione ricca e mai riducibile ad una formula. Non per niente la Sacra Scrittura si presenta non come un prontuario di definizioni, un catechismo, ma come la narrazione di tante storie.
Alla fine di questo mese di settembre (nel pomeriggio di domenica 30), la nostra comunità vivrà un momento di confronto proprio su questo aspetto: la mia storia con Dio. Ognuno di noi è invitato a fare memoria della propria esperienza di fede vissuta lungo gli anni. Proveremo a raccontarci com’è maturata la nostra relazione con Dio; quali sfide ha dovuto affrontare e a quali convinzioni sono giunto. Questa storia dà forma alla mia fede, dice la mia spiritualità. Perché ogni persona vive una singolare esperienza di fede. E l’essere chiesa non comporta l’annullamento dell’originalità del mio percorso. Piuttosto, domanda la scelta di condividere la mia storia, di credere alla ricchezza del confronto. Senza assolutizzare il proprio punto di vista e senza giudicare la storia altrui. Ognuno di noi è una voce indispensabile del coro: originalissima, con un timbro proprio. Vogliamo ascoltarla e gustarla con attenzione e gratitudine, provando fin da subito ad intuire la sinfonia che Dio va orchestrando con le nostre differenti storie.
LA LETTURA DI CUI ABBIAMO BISOGNO
Nel nostro immaginario, l’estate è tempo di riposo e di letture. Sotto l’ombrellone o su una panchina lungo un sentiero alpino, ci gustiamo la meritata tranquillità leggendo finalmente quel libro che gli impegni consueti ci hanno costretto a mettere da parte. Sappiamo bene che l’immaginario non sempre corrisponde alla realtà. Che per molti le ferie sono un lusso che non ci si può permettere. Che ci sono i figli da gestire. Che i tempi della vita nella nostra società sono a tal punto rimescolati da far saltare tutti i ritmi…
Ma l’immaginario, da sempre, non si limita a fotografare l’esistente: esprime anche i desideri che ci abitano (per quanto impossibili possano apparirci). Alla base del (vecchio?) cliché della lettura estiva, fa capolino il desiderio di avere del tempo per capire più a fondo noi ed il nostro tempo. A nessuno basta il venire al mondo. A differenza degli animali, che istintivamente si muovono nel loro ambiente, gli esseri umani, privi di questa specializzazione, sentono l’esigenza di conoscere se stessi e di “leggere il mondo”.
Quali letture ci aiutano in questo compito? Innanzitutto, la Bibbia, che ci offre una parola sapiente, mai banale, che aiuta nel difficile compito di capire più a fondo il nostro vissuto. Durante il periodo lavorativo il testo sacro fatica a trovare spazio. Un brano ascoltato al culto domenicale; un versetto letto frettolosamente: niente a che vedere con la lettura di un intero libro biblico, con il necessario approfondimento richiesto. Approfittare dell’estate per riprendere in mano le Scritture è scelta saggia e lodevole.
Bibbia e giornale
Ma una spiritualità cristiana non può sottrarsi al compito altrettanto urgente di comprendere il proprio tempo nonché l’animo umano ed il proprio io. Il presente non è indifferente per una fede “storica”, in ascolto di un Dio che si è fatto “carne” ed è entrato nel tempo. Quali testi ci possono aiutare in questa operazione di discernimento del nostro tempo? Karl Barth consigliava di tenere nelle due mani “Bibbia e giornale”: due strumenti entrambi necessari per quanti vogliono guardare la realtà, e non soltanto farsi travolgere e sconvolgere da essa. Sempre Barth amava dire che “tra la Bibbia e il giornale, come tra due poli di un arco elettrico, devono cominciare ad accendersi lampi di luce per rischiarare la terra”. Come non concordare con questa indicazione che traduce, allo stesso tempo, la passione per Dio e quella per la storia umana? Dunque, il testo di lettura che dobbiamo portare con noi in spiaggia o sui monti sembrerebbe il giornale.
Non di solo giornale…
Tuttavia, il riferimento alla cronaca narrata sui quotidiani risulta insufficiente. Il filosofo Kierkegaard, a questo riguardo, così si esprime nel suo diario: “I libri sono letti da pochi, i giornali da tutti. Come se su una nave ci fosse un solo megafono di cui si fosse impossessato il garzone di cucina, con il consenso di tutti. Ora, tutto ciò che il garzone di cucina aveva da comunicare (“metti il burro negli spinaci”; “oggi fa bel tempo”; “chissà se non c’è qualche guasto laggiù” ecc.) era comunicato col megafono; mentre il capitano doveva dare gli ordini con la sola voce, perché ciò che il capitano aveva da dire non era poi tanto importante! Anzi, il capitano alla fine dovette invocare l’aiuto del garzone di cucina per riuscire a farsi sentire, quando questi si degnava di riferire i suoi ordini, i quali spesso passando attraverso il garzone di cucina ed il suo megafono erano completamente travisati. Nel qual caso il capitano alzava invano la sua povera voce, perché l’altro col suo megafono soverchiava tutto. Alla fine il garzone di cucina s’impossessò del comando della nave, perché aveva il megafono”.
Un secolo dopo, quando ancor più forte è il rischio di rimanere in superficie, Dietrich Bonhoeffer scrive che “l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio [non c’erano ancora la televisione ed il computer!] al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione”. Come dire: c’è modo e modo di leggere il proprio tempo. La cronaca fatica a cogliere i sommovimenti profondi, gli snodi, le sfide del presente. Dunque, più che il giornale, la lettura della storia va fatta sfogliando libri, saggi di approfondimento. E, ancor di più, quei romanzi e quella letteratura che non si limitano all’intrattenimento ma sanno cogliere il proprio tempo ed esplorare l’anima umana mettendo in scena una molteplicità di punti di vista.
Leggere come questione spirituale
In un contesto umano sempre più triviale e banalizzato, inseguire la notizia sembra allontanare dalla realtà, più che offrire chiavi di lettura. Il fermarsi all’attualità rischia di essere una scelta miope. Meglio domandarci la fatica dell’approfondimento; scommettere sui tempi lunghi di letture distese, in grado di accendere sguardi inediti sul nostro tempo, di donarci intuizioni preziose per la sua decodificazione. Libri che, mentre li leggiamo, ci sentiamo letti. Non è una semplice opzione culturale: è una mossa spirituale decisiva per vivere una fede non ridotta a slogan. Buona lettura!
PIETRE VIVENTI
Sono passati 50 anni dalla posa della prima pietra della nostra cappella Betel. Tra le mura di questa casa, la nostra chiesa ha vissuto la quasi totalità della sua storia. Momenti alti, nei quali la fede si è nutrita della Parola di Dio ed ha trovato le parole per esprimersi; e momenti bassi, dove ha prevalso l’inimicizia sulla comunione, l’incoerenza sulla fedeltà all’evangelo. La vita di una chiesa è fatta dalla grandezza di Dio e dalle fragilità umane. Se desideriamo fare memoria di questi 50 anni non è per autocelebrarci, per affermare con malcelato orgoglio che Dio ha fissato la sua residenza in via Dufour 13.
Un giorno il re Davide espresse al profeta Natan il desiderio di costruire una casa per Dio: «Vedi, io abito in un palazzo di cedro e l’arca di Dio sta sotto una tenda». Ma il Signore parlò così al suo profeta: «Va’ e di’ al mio servo Davide: Così dice il SIGNORE: Saresti tu quello che mi costruirebbe una casa perché io vi abiti? Ma io non ho abitato in una casa, dal giorno che feci uscire i figli d’Israele dall’Egitto, fino a oggi; ho viaggiato sotto una tenda… il SIGNORE ti annunzia questo: sarà lui che ti fonderà una casa!» (2Samuele 7:1-16).
Dio non lo si può rinchiudere in un luogo e noi non ne siamo i gelosi custodi. Piuttosto, è Lui che ci custodisce e la sua presenza ci fa sentire a casa.
E allora, perché i cristiani costruiscono luoghi di culto? Il figlio di Davide, Salomone, costruttore del tempio, affronta la questione mentre prega con queste parole:
«Ma è proprio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita! Tuttavia, o SIGNORE, Dio mio, abbi riguardo alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica… Siano i tuoi occhi aperti notte e giorno su questa casa… ascolta dal luogo della tua dimora nei cieli; ascolta e perdona!» (1Re 8:27-30).
Il tempio, dunque, è solo un canale di comunicazione. Dio è in cielo: noi non lo possediamo. Lo possiamo però incontrare intrattenendo con Lui un dialogo, confidando nella sua grazia. Nessun spazio sacro, nessun luogo magico! Dio cammina con noi nella vita di tutti i giorni. Un edificio di culto è solo una tappa lungo il percorso; un’area di sosta per riflettere sul senso del cammino, per riallacciare il confronto con Dio e la sua Parola di vita. E’ il Signore Gesù la pietra viva su cui costruire la casa delle nostre esistenze:
«Accostandovi a lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini, ma davanti a Dio scelta e preziosa,anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale…» (1Pietro 2:4-5).
La fede si traduce nel sentirci a casa, accolti da un Dio che si prende cura di ciascuno. E nell’assunzione di responsabilità di chi si sente parte di un progetto, pietra vivente del Regno, cittadino del mondo giusto sognato da Dio fin dal principio:
«Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare,sulla quale l’edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell’edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito» (Efesini 2:19-1).
Grati perché «fin qui ci ha aiutato il Signore» (1Samuele 7:12), vogliamo continuare ad incontrarci in questa cappella per ascoltare la Parola di Dio ed intessere legami di comunione con le sorelle ed i fratelli.
LA FEDE TRA VITA E MORTE
Gesù viene condannato a morte perché è ritenuto blasfemo. Quando, durante il processo, afferma di essere il Cristo, viene pronunciato sul suo conto un giudizio netto: «Egli ha bestemmiato; che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora avete udito la sua bestemmia; che ve ne pare?». Ed essi risposero: «È reo di morte» (Matteo 26,65-66).
La sentenza capitale è, dunque, pronunciata per motivi religiosi. E’ in nome di Dio che si scatena l’odio contro di Lui. Gesù aveva preparato i suoi a questo esito drammatico e aveva aggiunto che la medesima sorte sarebbe toccata loro. Ecco come spiega questa opposizione: «l’ora viene che chiunque vi ucciderà, crederà di rendere un culto a Dio» (Giovanni 16,2). Anche sul Golgota i passanti che assistono allo spettacolo della croce parlano un linguaggio religioso per mettere in dubbio la sua presunta identità: «se tu sei Figlio di Dio, scendi giù dalla croce!»… «si è confidato in Dio: lo liberi ora, se lo gradisce, poiché ha detto: “Sono Figlio di Dio”» (Matteo 27,40 e 43). E’ lo stesso linguaggio usato da Satana all’inizio del ministero pubblico di Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani… gèttati giù…» (Matteo 4,3 e 6).
Dall’inizio alla fine la passione di Gesù per il Regno ha suscitato una passione contraria anch’essa vissuta “in nome di Dio”. La religione può produrre morte, allora come oggi. Di fatto, Gesù è stato ucciso per fedeltà alla volontà di Dio. Lo scandalo della croce (1Corinzi 1,23) è anche questo: che mentre rivela il volto inedito di un Dio che non chiede la vita dei suoi fedeli ma, al contrario, offre la sua, nello stesso tempo svela il volto oscuro di una fede che condanna e uccide.
I racconto evangelici narrano di un Gesù che, in nome di Dio, critica la religione. Noi per secoli ce la siamo cavata dicendo che la critica riguarda gli ebrei, senza renderci conto che ad essere in questione è la nostra stessa fede, la presunzione di avere la verità e di giudicare “in nome di Dio” quanti non la pensano come noi.
Tra le “passioni tristi” che ci impediscono di vivere secondo l’evangelo dobbiamo, allora, annoverare anche la religione. O, almeno, quel modo distorto di riferirci a Dio che ci porta a giudicare e a condannare, che ci irrigidisce invece che aprirci.
Mentre facciamo memoria del Crocifisso risorto, a Pasqua domandiamo che anche la nostra fede possa “risuscitare” a vita nuova. Che sia, cioè, portatrice di vita, e non di morte; di ascolto, e non di disprezzo; di misericordia, e non di giudizio. Che il Risorto, come ai due di Emmaus (Luca 24,13-35), ci doni l’intelligenza per leggere bene le Scritture, ci faccia ardere il cuore e ci apra, di nuovo, alla speranza di una fede gioiosa e liberante, che annuncia una vita più forte della morte.
LA PASSIONE DI GESÙ
“Passione” è parola-chiave, capace di dire in sintesi cosa sia la fede ma anche che cosa le si opponga. Nel nostro cuore, infatti, si confrontano due passioni: quella per Dio e per il suo Regno; e quelle passioni tristi che spengono la fiducia e ci rinchiudono in noi stessi. Nel tempo che precede la Pasqua, detto Quaresima ma anche (e non a caso!) tempo di Passione, siamo invitati a fermarci e a considerare più attentamente la battaglia che si svolge nel nostro cuore. Perché, per l’appunto, le due passioni non si presentano in modo alternativo, escludendosi a vicenda. Esse ci abitano contemporaneamente, contendendosi il nostro consenso. I racconti evangelici, parlandoci degli ultimi momenti di Gesù, ci narrano di questa battaglia che non ha risparmiato neppure il Figlio di Dio. Come in quel fermo-immagine, poco prima dell’arresto, quando veniamo a sapere cosa si agita nell’animo di Gesù:
Giunsero in un podere detto Getsemani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedete qui finché io abbia pregato». Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e cominciò a essere spaventato e angosciato. E disse loro: «L’anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate». Andato un po’ più avanti, si gettò a terra; e pregava che, se fosse possibile, quell’ora passasse oltre da lui. Diceva: «Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (Marco 14,32-36).
La paura, la tristezza (mortale!), il senso dell’abbandono: Gesù ha vissuto tutte queste passioni tristi, le ha attraversate e patite. Non si è limitato a diagnosticarle in altri. E proprio perché ha condiviso la nostra condizione di fragilità, possiamo metterci al suo seguito per comprendere come vegliare nella notte delle passioni tristi. Come poter riaccendere quella passione per Dio che ci spinge a desiderare quello che vuole Lui.
In questo tempo quaresimale non ci è chiesto tanto di commuoverci per i dolori patiti da Gesù. Piuttosto, siamo chiamati a vivere la fede come un esercizio di verità sulla nostra esistenza. E’ quello che dice Gesù alle donne che lo osservano portare la croce: Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli (Luca 23,28).
Come Gesù, prendiamoci del tempo, andiamo in disparte, in un luogo silenzioso che consenta la riflessione. Il riservare del tempo per la preghiera ha, innanzitutto, questo significato: rientra in te stesso; prova a nominare ciò che opprime la tua anima, le preoccupazioni, le paure e le tristezze che ti bloccano. Solo a questo punto – dopo, cioè, che hai avuto il coraggio di guardare in faccia il tuo vissuto – la preghiera diventa invocazione, domanda di essere sostenuto ed accompagnato dal Padre.
Il coraggio della verità e la passione per il progetto di Dio, nonostante tutto: sono questi i doni promessi a chi prova a seguire Gesù nel cammino della sua pasqua.
IL MORSO DELL’INVIDIA
Riprendiamo la nostra riflessione sulle passioni. Negli anni precedenti ci siamo chiesti cosa sia la fede cristiana, in che cosa propriamente consista. E abbiamo scoperto che essa non è tanto una credenza mentale, una serie di affermazioni da ritenere vere, quanto piuttosto quella passione per la vita (Giovanni 10,10) che nasce dall’ascolto della Parola, che consiste nel condividere il sogno di Dio, il suo Regno. Ora, però, vogliamo anche capire come mai questa passione fatichi ad infiammarci, quali siano gli ostacoli che raffreddano la nostra fede. Infatti, noi siamo abitati anche da passioni negative, tristi, che ci trascinano in basso: non verso la pienezza della vita ma nella tristezza e nel risentimento. Si tratta di vere e proprie malattie dell’anima che ci impediscono di vivere secondo l’evangelo. Ovvero, quelli che tendiamo a definire semplici difetti umani, caratteriali, si dimostrano, allo stesso tempo, patologie della fede.
Abbiamo già accennato alla principale passione triste che caratterizza il nostro presente e che rischia di allontanarci dalla fede: la paura. Questa volta proviamo a riflettere sull’invidia. Una passione che rode l’anima, corrode l’identità e distrugge ciò a cui tende la fede, ovvero la comunione nella diversità. Dell’invidia la Scrittura ci parla fin dall’inizio. A partire dal gesto di Caino, invidioso dell’accoglienza che Dio riserva al sacrificio offerto da Abele. Con poche pennellate, il testo biblico mette in scena gli ingredienti fondamentali di questa passione triste.
Avvenne, dopo qualche tempo, che Caino fece un’offerta di frutti della terra al SIGNORE. Abele offrì anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto. Il SIGNORE disse a Caino: «Perché sei irritato? e perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!» Un giorno Caino parlava con suo fratello Abele e, trovandosi nei campi, Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l’uccise. Il SIGNORE disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Il SIGNORE disse: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra»
(Genesi 4,3-10).
E’ descritta bene l’invidia che non si manifesta con parole. Agisce di nascosto al punto che anche chi ne è affetto, non ne è consapevole. Ammetterla, sarebbe come dichiararsi inferiore della persona invidiata. Essa si manifesta nel segreto dell’anima, laddove ci si domanda: perché lui sì e io no? L’invidia, come indica la sua etimologia (in-video), è un vedere negativo, un soffrire del bene raggiunto dall’altro ed un gioire delle sue disgrazie. Narra una leggenda slovena che un contadino ricevette la visita di una fata, la quale gli prometteva di realizzare ogni suo desiderio. Ad una condizione: che avrebbe dato al suo vicino il doppio di quanto avesse chiesto. A quella proposta, senza esitazione, il contadino disse: “cavami un occhio”. Una storia terribile che dice bene di cosa si è capaci quando si è rosi dall’invidia. L’invidia si manifesta in uno sguardo torvo e rancoroso, nel volto abbattuto di Caino. Nasce dall’incapacità di accettare la differenza dell’altro, dal desiderio di eliminarlo. Come è capitato a Gesù: “Pilato sapeva che glielo avevano consegnato per invidia” (Matteo 27,18).
Nella nostra società dello spettacolo, ben rappresentata dai reality shows, che esaltano la logica della sfida ed il meccanismo della eliminazione, l’invidia la fa da padrona. Eppure il testo biblico ci dice che è possibile dominare questo modo inautentico di vivere le relazioni umane. Come? Accettandosi per quello che siamo, comprese le fragilità che ci abitano. E accettando gli altri non come antagonisti, avversari in una competizione infinita. Gli altri sono un dono che Dio ci ha posto accanto perché “non è bene che l’essere umani sia solo” (Genesi 2,18). Impariamo dalle Scritture quella sapienza delle relazioni che si manifesta in un amore non invidioso (1Corinzi 13,4), in uno sguardo empatico, non giudicante.
UN NUOVO ANNO…
Cosa ci aspettiamo dal nuovo anno? Un famoso testo letterario, a forma di dialogo, prova a rispondere a questa domanda. Eccolo:
Venditore Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere Almanacchi per l’anno nuovo?
Vend. Sì signore.
Pass. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Vend. O illustrissimo, sì, certo.
Pass. Come quest’anno passato?
Vend. Più più assai.
Pass. Come quello di là?
Vend. Più più, illustrissimo.
Pass. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Vend. Signor no, non mi piacerebbe.
Paas. Quanti anni nuovi sono passati dacchè voi vendete almanacchi?
Vend. Saranno vent’anni, illustrissimo.
Pass. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
Vend. Io? Non saprei.
Pass. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Vend. No in verità, illustrissimo.
Pass. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Vend. Cotesto si sa.
Pass. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Vend. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Pass. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta nè più nè meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Vend. Cotesto non vorrei.
Pass. Oh che altra vita vorreste rifare? La vita c’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Vend. Lo credo cotesto.
Pass. Nè anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Vend. Signor no davvero, non tornerei.
Pass. Oh che vita vorreste voi dunque?
Vend. Vorrei una vita così come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Pass. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
Vend. Appunto.
Pass. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascono è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato che il bene; se a patto di riavere la vita di prima con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Vend. Speriamo.
Pass. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Vend. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Pass. Ecco trenta soldi.
Vend. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
Secondo Giacomo Leopardi, autore di questo Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggere (1832), all’inizio di un nuovo anno, o si è degli ingenui ottimisti come il venditore di almanacchi o, al contrario, dei razionalisti disincantati come il passante. Leopardi, da buon razionalista, prende di mira chi è incline alle illusioni e alle speranze infondate. Per lo scrittore, il futuro ci riserva solo vecchiaia e morte. La Bibbia, invece, non ci sta a questa alternativa secca. Parla di speranza, guardando in faccia la disperazione ed il non senso. Ci insegna ad attendere la novità del Regno di Dio, collaborandovi a partire da quanto abbiamo maturato negli anni precedenti. Ci spinge a ricominciare ogni volta daccapo, oltre la resa alla difficoltà del cambiamento ed oltre la presunzione di sentirci già arrivati. Il Dio che si è fatto carne, che ha vissuto nella storia umana, non ci tratta da ingenui ma ci chiama ad una speranza impegnativa, che domanda conversione. Che il nuovo anno ci veda capaci di una simile speranza!
L’ARIA FRESCA DEL NATALE
In che cosa consiste la salvezza?
La Bibbia ne parla come di una vita non più sterile, paralizzata dalla paura,
bensì feconda e fiduciosa. E’ l’esperienza del riconoscersi riconosciuti, del
sentirsi accolti, non più soli. Sono molte le immagini usate per dire la
salvezza. Con una caratteristica comune: tutte danno voce ad una relazione. Non
ci si salva da soli. La salvezza viene dall’esterno, dall’incontro con l’altro,
in modo inaspettato.
Narra una leggenda del seguito del primo incontro avvenuto tra Salomone e la regina di Saba (1Re 10).
Quest’ultima, stupita per la grande sapienza esibita dal re d’Israele, ma non
ancora del tutto convinta, con la scusa di contraccambiare l’accoglienza
ricevuta a Gerusalemme, lo invita nel suo regno per metterlo alla prova. Dopo
l’accoglienza sontuosa, lo introduce in una stanza piena di bellissimi fiori, opera dei migliori artisti del posto. Le creazioni artistiche in nulla si differenziano dai prodotti della natura: ne imitano il colore, la forma, il profumo e la consistenza. La prova a
cui viene sottoposto Salomone consiste nell’individuare l’unico fiore vero,
nascosto tra le migliaia di fiori finti. Il re sapiente questa volta fatica a
trovare la soluzione. Il disagio lo fa sudare. Chiede, dunque, il permesso di
aprire una finestra. Ed ecco che, ad un tratto, un’ape entra nella stanza e va
a posarsi su un fiore: quello che il re sapiente potrà indicare come l’unico
autentico.
Noi, a volte, affrontiamo l’esistenza come se fossimo soli, chiusi in una stanza, a sostenere una missione impossibile, senza scampo. Basterebbe aprire una finestra, affidarsi ad una sapienza straniera, ad una presenza inattesa e gratuita. Che cos’è il Natale, se non quest’aria fresca che irrompe nelle nostre stanze chiuse? Di cosa ci rallegriamo, se non di una presenza in grado di indicarci dove stia la vita autentica? Facciamo memoria della nascita di Gesù, la Parola fatta carne, come della grazia di essere visitati e tratti in salvo dall’abisso di
solitudine e sterilità in cui rischiamo di precipitare.
UNA FEDE CHE VINCE LA PAURA
Vogliamo vivere una fede che sia all’altezza dei tempi. Non ci interessa fare i custodi di un museo, pieno dei ricordi di quanto i credenti hanno prodotto nei tempi antichi. L’evangelo è lievito per la pasta di questa nostra storia. La Parola che ci interpella parla del nostro presente, ci spinge ad interpretarlo: Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia!” e la mattina dite: “Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!” L’aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli? (Matteo 16,2-3). Ogni epoca è caratterizzata da segni particolari e da sfide specifiche. Nella modernità, i credenti hanno dovuto affrontare la sfida che la Ragione ha lanciato alla fede: o pensi o credi. In quella stagione è stato decisivo ripensare la fede in modo tale che non fosse una superstizione. Occorreva passare da una fede cieca, assunta per tradizione, ad una fede intelligente, in grado di rendere ragione della propria speranza (1Pietro 3,15). Ora, in questo nostro tempo, cosiddetto post-moderno, la sfida decisiva sembra essere quella tra fede e paura, tra fiducia in Dio, negli altri, nella vita e sospetto di tutto e di tutti. La paura non è di per sé negativa: è un prezioso campanello d’allarme che suona di fronte al pericolo. Diventa però una malattia quando ci paralizza, ci chiude ad ogni relazione, ci costringe a giocare in difesa. Quando prevale questo atteggiamento di spavento nei confronti della vita, Dio che fine fa? Alcuni lo escludono e basta. Altri, invece, pensano che la paura sia un’alleata della fede e fanno di Dio il garante della propria sicurezza. La salvezza diventa una polizza assicurativa in più. La fede, una pratica identitaria, un motivo per prendere le distanze da chi non la condivide. La vita cristiana, un’esperienza di sospetto e inimicizia nei confronti di un mondo che non segue Dio. Basterebbe aprire una qualsiasi pagina evangelica per comprendere che non è stata questa l’esperienza di Gesù di Nazaret e dei suoi discepoli. La fede è fiducia in Dio e nel mondo da Lui voluto, creato, amato. I cristiani sono chiamati ad essere costruttori di relazioni buone, impegnati a tessere legami, proprio perché credono in un Dio che ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio. E non lo ha mandato nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui (Giovanni 3,16-17). La Bibbia ci aiuta a individuare questa vera e propria malattia dell’anima che è la paura. Ci insegna a non rimuovere i problemi, a guardarli in faccia. E, insieme alla diagnosi, ci consegna una prognosi per guarire dalle nostre chiusure. Dice il profeta: l’opera della giustizia sarà la pace e l’azione della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre (Isaia 32,17). Possiamo superare la paura e sentirci sicuri non perché abbiamo le porte blindate ed evitiamo di intrattenerci con gli sconosciuti. Solo se sapremo costruire relazioni giuste, vivremo in pace e tranquillità. Il nostro tempo ci chiede una fede capace di superare la paura. Una fede sapiente, costruttiva (e non lamentosa!). Una fede che nasce dalla passione per il sogno di Dio; che scommette sulla forza dell’amore. Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e vi abbiamo creduto. Dio è amore; e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. In questo l’amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo. Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo. Quindi chi ha paura non è perfetto nell’amore. Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello (1Gv 4,16-21).
MALATTIE DELL’ANIMA, PATOLOGIE DELLA FEDE
Siamo una comunità di persone che desiderano mettersi in ascolto di una Parola che ci interpella personalmente e ci indica uno stile di vita con cui affrontare la vita di ogni giorno. E’ questo che ci costituisce come chiesa; ed è da qui che, ogni volta, dobbiamo riprendere il cammino. Vogliamo, dunque, ripartire dalla Parola essenziale che Dio ci rivolge (più che da tante chiacchiere); da noi stessi (invece che lamentarci degli altri); da una salvezza quotidiana (più che da sogni impossibili). Ma questo programma di massima, così semplice a dirsi, è di difficile realizzazione poiché trova in noi resistenza. Noi, infatti. non siamo un contenitore vuoto da riempire con le parole delle Scritture. Noi siamo delle persone strutturate, con una storia, un carattere; dobbiamo fare i conti con un quotidiano pieno di insidie, tentazioni, imprevisti… Non basta, dunque, scegliere il seme buono (la Parola) e pianificare la semina (i programmi ecclesiali). E’ decisivo lavorare sul terreno, ovvero su di noi. Negli ultimi tre anni abbiamo riflettuto sul senso delle Scritture. In esse troviamo una “Parola dall’alto”, divina, capace di accendere passioni (Torà); una “Parola dal basso”, che sorge dallo sguardo attento alla vita (scritti sapienziali); ed una “Parola per il presente”, che denuncia la nostra fede solo di facciata e ci spinge a vivere la giustizia di Dio in questa nostra società (profeti). Quest’anno, proviamo a monitorare il nostro vissuto, a fare un check-up dell’anima. Al fine di scovare quali malattie ci bloccano nella sfida di vivere secondo l’evangelo. Non si tratta di chiudere la Bibbia e di parlare di noi. La Scrittura ci è necessaria per fare una seria diagnosi del nostro stato di salute. Essa, infatti, che accende un occhio sapiente e penetrante sulle nostre esistenze, ci presenta con esattezza e senza giri di parole queste malattie dell’anima che non solo bloccano la vita nel suo desiderio di felicità, ma impediscono pure un autentico rapporto con Dio. I nostri difetti sono allo stesso tempo patologie della fede. Da guardare in faccia, senza timore di essere giudicati, dal momento che crediamo in un Dio che ha condiviso le nostre fatiche. Come leggiamo nella Lettera agli Ebrei: “La parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v’è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto. Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, stiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti, non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci, dunque, con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Eb 4,12-16). Nella predicazione domenicale, negli studi biblici, nelle riflessioni proposte sul Bollettino e sul sito, cercheremo di mettere a fuoco le nostre resistenze interiori alla Parola di Dio e proveremo a raccogliere i suggerimenti che la Scrittura offre a chi desidera convertirsi e credere all’evangelo.
QUELLO CHE E’ DI DIO…
Eccoci, di nuovo, all’inizio di un nuovo anno sociale, a ragionare di ripresa, di nuovi progetti… Ed ecco, di nuovo, affiorare i dubbi e le obiezioni. Per quanti tra noi vivono situazioni difficili o sono delusi per desideri ed aspettative frustrate, la domanda suona così: ma ne vale la pena? Conviene coinvolgersi in un progetto, spendere tempo ed energie, se poi tutto finisce in niente? Chi sente così la vita, difficilmente si metterà in gioco in un cammino di fede. Ma anche quanti non giungono a conclusioni così drastiche sul senso dell’agire umano, possono vivere momenti di sconforto e decidere di “abbassare il tiro”, di accontentarsi del minimo indispensabile. L’unica via d’uscita da questa tentazione mortale consiste nel non spegnere la passione, nel ritrovare lo slancio dei primi tempi, della stagione dell’innamoramento. Come ci ricorderanno Rosane e Diego, che si sposano il 21 settembre, vale la pena scommettere sull’amore, camminare insieme accomunati da una medesima passione. Ma un’altra obiezione, forse, affiora nel nostro cuore: è possibile uscire dall’ingranaggio? Possiamo veramente scegliere, operare delle decisioni autentiche, oppure tutto è già stabilito da chi detiene le leve del comando? E’ il problema che uno di noi mi ha posto, tempo fa, al termine del culto. Il testo biblico proclamato nella liturgia insisteva sull’importanza di apprendere l’arte dell’ascolto, a partire da quanto dice l’evangelista Luca: “fate attenzione a come ascoltate!” (Luca 8,18). E la predicazione proponeva due indicazioni per dare corpo alla Scrittura: riservare un tempo per meditare, ovvero per leggere e rileggere una Parola che domanda tempo (tra la semina ed il raccolto, c’è il lungo tempo della crescita); e, inoltre, il sapersi stupire della realtà che ci circonda, dei tanti doni offertici da Dio. Per comunicarmi la difficoltà che queste indicazioni incontrano nella vita quotidiana, il mio interlocutore mi portava l’esempio del supermarket che, mediante una precisa campagna di promozioni, ti programma il tempo, sapendo che i lavori di manutenzione li puoi fare quando sei in ferie e che, dopo le vacanze, i tuoi figli riprendono la scuola e così via. Tu potresti pure ribellarti a questa programmazione, ma in questo caso perderesti l’offerta di poter acquistare i prodotti necessari con tanto di sconto. Che fare? Qualcuno sogna di uscire da questa società dei consumi (dove i primi ad essere consumati siamo noi!); e qualcuno fugge realmente, andando a vivere in qualche isola felice, preservata dall’ansia delle cose da accumulare. Ma per la maggior parte – per noi che viviamo in questa società – non resta che un “buon compromesso” con la realtà! Mi viene in mente la nota affermazione di Gesù: “a Cesare quello che è di Cesare; a Dio quello che è di Dio” (Matteo 22,17). Per forza di cose ci sarà sempre un Cesare che ci costringerà a “pagargli il tributo”. Per quanto forti, sapienti, alternativi possiamo essere, la vita ci obbligherà a fare cose che spontaneamente non avremmo mai scelto. Ma ci sono anche degli aspetti della vita che non appartengono a Cesare, che vanno oltre l’ingranaggio sociale. Questi spazi di libertà sono “di Dio”. Sono i momenti “divini” che ci consentono di non sentirci solamente rotelle di un ingranaggio più forte di noi; che ci permettono di sentirci figli e figlie di Dio, in mezzo ad una società sazia e disperata. Riprendere ancora una volta il cammino della fede significa proprio questo: non tanto sperare nel miracolo che la nostra esistenza cambi improvvisamente, sottraendosi alle contraddizioni di ogni giorno, quanto piuttosto – e più modestamente – scommetter che è ancora possibile salvaguardare qualcosa di divino, di non commerciale, di gratuito. Senza smettere di sognare i nuovi cieli ed una nuova terra, proviamo almeno ad essere «come il pastore che strappa dalla bocca del leone due zampe o un pezzo d’orecchio…» (Amos 3,12)!
VEDERE – VALUTARE – AGIRE
Alla scuola dei profeti abbiamo incominciato a capire cosa vuol dire vivere la fede nella storia. Gli scritti profetici denunciano quella fede di facciata che rinchiude Dio nel tempio, dimenticando che la sua Parola vuole risuonare nelle nostre esistenze quotidiane, tradursi in scelte concrete e stili di vita. Il Dio biblico non ci domanda una fede cieca. Per questo si lamento di coloro che “hanno occhi, ma non vedono, hanno orecchi, ma non odono” (Ger 5,21). Egli desidera che i credenti mantengano ben aperti gli occhi, in modo tale da vedere la realtà in cui ci è dato di vivere, sapendola valutare alla luce della Parola ed agendo in essa per renderla conforme al suo progetto. L’intero messaggio profetico possiamo tradurlo proprio con questi tre verbi: vedere – valutare – agire. Essi esprimono il modo profetico di “abitare la terra vivendo con fede”. Sono una precisa indicazione di marcia, una bussola preziosa, a patto che non separiamo le tre tappe suggerite dai tre verbi. La tentazione di accontentarsi di una sola di queste indicazioni è forte. Ci sono persone che si limitano a “vedere”. La loro vita assomiglia ad uno schermo su cui si succedono senza sosta infinite immagini, l’ultima delle quali fa dimenticare le precedenti. Sono semplici spettatori, che vivono di impressioni fugaci, che pensano alla loro esistenza come ad un insieme di frammenti slegati, incapaci di cercare un filo rosso che dia unità alle molteplici esperienze. Altri, invece, si limitano a “valutare”. Ritengono di sapere già tutto, di non avere bisogno di guardare più in profondità. La loro vita è dominata dal giudizio e dal lamento. Non sono nemmeno sfiorati dall’idea che devono assumersi una responsabilità personale, facendo delle scelte, agendo in un particolare modo. Infine, ci sono gli uomini di azione, per i quali conta solo “agire”, fare, senza troppo pensare. E’ gente pratica, che agisce d’istinto, terrorizzata al pensiero di doversi fermare, fare silenzio, riflettere. Lo spettatore distratto, il giudice lamentoso e l’indaffarato in mille impegni: sono tre figure umane in cui possiamo riconoscere altrettante tentazioni attuali che non ci permettono di vivere la fede nella storia. I profeti ci esortano a tenere insieme questi tre ingredienti necessari per dare forma ad un’umanità all’altezza del compito affidatoci da Dio, ovvero quello di una “vita piena”. La sfida, dunque, è quella di imparare a “vedere” quanto succede a noi e intorno a noi, con occhio penetrante, non con sguardo distratto: “Volgi lo sguardo intorno, e guarda” (Isaia 49,18). Occorrerà poi domandarci del tempo per riflettere e “valutare” quanto abbiamo iniziato a vedere, “non giudicando dall’apparenza, non dando sentenze per sentito dire” (Isaia 11,3). E infine, bisognerà “agire” in concreto, operando delle scelte responsabili laddove viviamo, ben sapendo che “non chiunque dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre che è nei cieli” (Mtteo 7,21). In questo periodo estivo, tempo utile per tirare il fiato ma anche tempo prezioso per bilanci esistenziali (chi siamo? dove stiamo andando?), proviamo a seguire l’indicazione dei profeti. La strada da loro suggerita ci consente di vivere una vita non banale ed una fede capace di trasfigurare l’esistente.
UNA COMUNITÀ TUTTA PROFETICA
Il profeta Gioele annuncia il progetto di Dio per i tempi ultimi: «io spargerò il mio spirito su ogni persona: i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri vecchi faranno dei sogni, i vostri giovani avranno delle visioni. Anche sui servi e sulle serve, spargerò in quei giorni il mio spirito» (Gioele 2:28-29). Luca, nel Libro degli Atti degli Apostoli, ci dice che i tempi ultimi, a lungo attesi, sono iniziati con Gesù, il Crocefisso Risorto che ha donato a tutti il suo Spirito: «Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi» (Atti 2:3-4). «Uomini di Giudea, e voi tutti che abitate in Gerusalemme, vi sia noto questo, e ascoltate attentamente le mie parole. Questi non sono ubriachi, come voi supponete, perché è soltanto la terza ora del giorno; ma questo è quanto fu annunziato per mezzo del profeta Gioele: “Avverrà negli ultimi giorni”, dice Dio, “che io spanderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni, e i vostri vecchi sogneranno dei sogni”» (Atti 2:14-17 ). Viviamo in una società in cui ci si divide i compiti in base alle proprie competenze. Una scelta saggia: solo chi ha studiato medicina può essere in grado di esercitare la professione del medico in modo adeguato e non improvvisato. Eppure, questa regola di buon senso non vale sempre. Anzi, sotto certi aspetti risulta persino pericolosa. Pensiamo al rapporto educativo tra genitori e figli. Quante volte ci succede di non sentirci all’altezza del compito e di pensare che solo uno specialista possa risolvere il problema incontrato. Non voglio dire che non serva ricorrere agli specialisti: a volte, è necessario. Ma la tentazione della delega all’esperto provoca sfiducia nelle nostre risorse personali e ci riduce a spettatori della vita, incapaci di quel protagonismo che nasce dall’assunzione di responsabilità. Anche per la fede, è forte la tentazione di ricorrere all’esperto delle cose sacre – il profeta, il pastore. E’ il suo mestiere, ha studiato per questo, di sicuro ha un canale privilegiato di comunicazione con Dio… Com’è diverso il sogno di Dio! Egli desidera che tutti e tutte siano profeti. Che non si privatizzi quella sorgente di acqua viva che è la fede. L’esperienza di essere chiesa mette in discussione la classica divisione dei compiti, proponendo un modello “fraterno” (non “paterno”) di relazioni, che favorisce una diretta assunzione di responsabilità da parte di tutti. Noi siamo ancora lontani dall’essere una chiesa secondo il sogno di Dio. Alla scuola delle Scritture, tuttavia, proviamo ad apprendere l’arte della con-vivialità e della corresponsabilità. Che lo spirito della profezia ci renda comunità capace di discernere il nostro tempo. Che lo Spirito della visione e del sogno ci faccia diventare segno del Regno di Dio, ovvero di quel mondo giusto e fraterno da Lui pensato fin dalla creazione del mondo. Che le lingue di fuoco della Pentecoste accendano nuove passioni e ci rendano in grado di esprimere l’evangelo nelle lingue dei nostri contemporanei.
A Pasqua non risorge solo Gesù. I racconti evangelici ci dicono che anche la fede dei discepoli risorge. Se i seguaci di Gesù avevano dimostrato una fede coraggiosa, lasciando tutto per seguire il profeta di Nazaret, questa fede era venuta meno di fronte alla tremenda fine del loro Maestro. Condannato alla pena capitale, come il peggiore dei malfattori, Gesù non aveva saputo evitare che i suoi nemici lo mettessero a tacere. E a quel punto, cosa restava da fare ai suoi discepoli? Non si poteva che fare le valigie e tornare a casa (come i due di Emmaus); oppure onorare il cadavere al sepolcro, ricordando il bel passato condiviso (come Maria di Magdala). Ed ecco, invece, che l’avventura continua, che la fede rinasce. Gesù si mostra vivo ed invita i suoi a proseguire il cammino da Lui percorso. Nel tempo che segue la Pasqua siamo invitati a riflettere proprio sulla fede. E’ questo il tema: non tanto il fare i conti con un cadavere rianimato, con l’unico risorto da morte. Piuttosto, la domanda da far risuonare è la seguente: cosa significa “credere”? e com’è possibile credere in una storia che sembra mettere a tacere ogni progetto di cambiamento, che spegne ogni passione? La domenica 22 maggio avremo un appuntamento speciale insieme alle sorelle e ai fratelli delle Chiese Riformata e Avventista di Lugano. Oltre che un’occasione per conoscerci meglio, l’iniziativa vorrebbe innescare un percorso di ricerca sul tema della fede. Con l’aiuto del pastore Paolo Ricca, proveremo a riflettere su questo, lavorando a gruppi e preparando insieme il culto. La riflessione partirà da quel “disorientamento” che caratterizza il nostro contesto. Infatti, la fede, oggi, più che dover fare i conti con la critica e l’opposizione (come negli anni ‘60-‘70 dello scorso secolo), si trova a fronteggiare un contesto non ostile ma incapace di recepirla come “stile di vita”, “orientamento esistenziale”. Viviamo vite di corsa, fatte di attimi slegati tra di loro, senza nessun collante capace di tenere insieme i frammenti del nostro vissuto. E’ possibile pensare la fede evangelica come una “bussola” per gente disorientata? La metafora della bussola vorrebbe indicare una fede in ricerca: non siamo padroni della verità ma discepoli. Inoltre, la bussola è uno strumento che può essere utilizzato da mani esperte (membri di chiesa) ma anche da chi, senza un’approfondita preparazione e, a volte, senza neppure una chiara convinzione (simpatizzanti) si ritrova nella “selva oscura” della vita e cerca disperatamente un punto di fuga, un’indicazione di sentieri da percorrere. Lasciamoci interrogare dal Risorto (“perché piangi? Chi cerchi?”) e domandiamoci il coraggio di non accontentarci di una fede per abitudine, di metterci di nuovo in ricerca, insieme.
FAR RINASCERE LA FEDE
PASQUA TRA MEMORIA E ANTICIPAZIONE
La Pasqua di Gesù è il cuore dell’esperienza cristiana. Ogni anno proviamo ad afferrare quel mistero che continuamente ci sfugge. Chi può dire di aver capito lo scandalo della croce e l’incredibile annuncio della resurrezione di Gesù? La tentazione è quella di spegnere l’intelligenza, dicendoci che, in fondo, non si può fare altro che credere ciecamente. Ma sia la presunzione di chi pensa di aver capito tutto, sia lo smettere di cercare sono atteggiamenti poco evangelici. Alla scuola dei profeti stiamo imparando che la fede è uno sguardo penetrante, capace di leggere la storia, di interpretarla alla luce della Parola di Dio. E’ lo sguardo di Gesù, che non si è limitato a subire gli ultimi e drammatici eventi della sua esistenza terrena ma li ha fatti propri. Come? Il racconto della vigilia, il cosiddetto giovedì santo, è molto significativo in proposito: Quando giunse l’ora, egli si mise a tavola, e gli apostoli con lui. Egli disse loro: «Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio». E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendete questo e distribuitelo fra di voi; perché vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio». Poi prese del pane, rese grazie e lo ruppe, e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22,14-20). Gesù, di fronte alla sua morte, mette in atto la “strategia dell’anticipazione”, ovvero: prima di soffrire compie un gesto per dare senso a quanto avverrà subito dopo. Anticipa gli avvenimenti del Golgota dicendo ai suoi discepoli che quanto gli accadrà non sarà tanto un subire violenza da parte di avversari più forti di Lui ma la libera scelta di offrirsi – questo è il mio corpo che è dato per voi… il mio sangue, che è versato per voi. Questo gesto, oltre a comunicarci il volto inedito di un Dio che non domanda sacrifici, anzi è Lui stesso a donarsi, ci suggerisce pure la sapienza dell’anticipazione: del non permettere che gli avvenimenti ci capitino senza quasi che ce ne rendiamo conto. Ognuno di noi deve provare ad anticipare un senso, esprimere una logica, trovare un filo rosso che unisca i frammenti di cui è fatta la vita. In fondo, dare un senso alle diverse azioni che compiamo è ciò che ci rende umani, non semplici macchine produttive o desideranti. Ma l’operazione di scegliere un orientamento da dare alla nostra esistenza appare una missione impossibile, se pensiamo di compierla da soli, ricominciando ogni volta da zero. Ecco allora venirci in aiuto l’altro prezioso suggerimento offertoci dal testo biblico: la “strategia della memoria”, fate questo in memoria di me. E’ l’invito a confrontarsi col ricordo dell’esistenza di Gesù, a fare conti col senso che Lui ha conferito alla sua vicenda, con la logica del dono, dell’essere felici della felicità altrui. Se per molti (noi compresi!) la croce è “scandalo”, non dobbiamo dimenticare che essa è pure “sapienza”. Saggezza di una vita non schiacciata sul presente ma capace di far tesoro del passato (la memoria) e di pensare il futuro (l’anticipazione); scelta di non subire passivamente la storia, con l’unica preoccupazione di salvare la pelle; passione per una vita giusta e fraterna, al di là del nostro piccolo io. Come afferma Paolo: noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Corinzi 1, 23-25).